Aver  deciso di dedicare annualmente  una giornata, il 25 marzo, a  ricordare  il nostro  sommo poeta  Dante  è  una  delle  iniziative  commemorative  e  celebrative, con cui  concordiamo, non solo per   il valore  letterario, “mostrò ciò che  potea  la lingua  nostra”,  di tutta la  sua  opera  poetica, ma  anche  per le considerazioni  storiche  sull’Italia ,della cui unità  politica  e spirituale  è stato senza dubbio il maggiore precursore, nonché  per  la  sua vita  tumultuosa. Queste giornate speriamo portino al  rinnovato piacere  della lettura  dei suoi versi, a  studi  ed approfondimenti  che facciano risaltare  la  bellezza dei  suoi componimenti  e  l’attualità  di tante intuizioni, ma faranno anche  aprire o riaprire  le polemiche  particolarmente  su alcuni  punti  della  “Commedia”, a cui  gli immediati posteri  aggiunsero  giustamente  “Divina”, termine  con il quale  da secoli ed in tutto il mondo  è conosciuta.  Cominciamo  dalla  sua  posizione  politica: la famiglia Alighieri  era  “guelfa”, per cui Foscolo  chiamando  Dante  “ghibellin fuggiasco”, confonde  la scelta  “monarchica  imperiale”  di Dante, con la sua  posizione  fiorentina, che  ne fece un  guelfo  “bianco”, contrapposto  ai  guelfi “neri” secondo una  tendenza  “scissionistica” di cui abbiamo tanti esempi attuali, che  quindi  ha origini  ben antiche. Seconda  considerazione  l’uso politico  della giustizia  per eliminare  un avversario. Infatti  mentre era  a  Roma, per una ambasceria  ufficiale del comune fiorentino  presso Bonifacio VIII, Dante, non potendo  tornare  a Firenze  viene processato  in contumacia e condannato  con sentenza del  27 gennaio 1302 ,  ad un  esilio  biennale , con multa  di 5000  fiorini piccoli  e  bando perpetuo  da ogni ufficio pubblico, per “fama  publica  referente” di baratteria, estorsione  ed  altri delitti. Nel frattempo  a Firenze  i “civili”  avversari  guelfi   corsero alla sua  casa  e fu  rubata ogni cosa. Di questo processo è da notare  un’altra caratteristica  negativa, che, purtroppo  è  stata ripresa  anche ai nostri  giorni, e cioè  la “retroattività” delle leggi , in quanto come scrisse  Leonardo  Aretino  in  una  “Vita  Dantis  poetae  carissimi”, di  poco  posteriore  a  “Della  vita, costumi  e studi  del carissimo poeta Dante”, del   Boccaccio, “ fecero   legge  iniqua e perversa, la quale si guardava  indietro, che il  Podestà  di  Firenze, (Cante  de’ Gabrielli  di Gubbio!) potesse  e  dovesse conoscere  i falli  commessi  per l’addietro  nell’ufficio  del priorato (Dante era stato Priore  dal  15  giugno al 15 agosto 1300), contuttoché  assoluzione fosse   seguita.  A questa  “benevola“ sentenza  ne  seguì  nel  marzo, sempre  contumace, quella di essere “arso vivo”, per non parlare  poi delle  colpe dei padri che si fanno ricadere  sui figli , quando nel 1303  sempre il comune di Firenze stabilì l’esilio per i suoi  figli al compimento  del quattordicesimo  anno! E  che dire  della  ulteriore sentenza del  6 novembre 1315  quando avendo Dante  rifiutata  l’umiliante  proposta  fiorentina di modifica della  pena, viene confermata la pena di morte, estesa  questa volta  anche ai   figliuoli  rei di essere  nati  da un rivoltoso. Dal che si vede come la  passione politica o  meglio partitica, perché tali erano stati  ghibellini, guelfi  e poi  palleschi e piagnoni, quando supera  un certo livello  e  non  è  bloccata  dalla  libertà  che  lo stesso  Dante, assegnando  a  Catone  l’Uticense, pur suicida, la  funzione di Giudice  del Purgatorio, ebbe a definire  “sì  cara, come sa chi per lei  vita  rifiuta (Purgatorio, canto  primo, versi 71-72), stravolge ogni  certezza del diritto  ed  il concetto  stesso  della  giustizia. E  questa  anticristiana, e non solo antigiuridico, condanna  di  figli  per colpe (ammesso che lo fossero !)  dei  padri  non era, è triste dirlo, solo  a Firenze, ma anche  a Pisa il  che consente  a  Dante  la famosa  invettiva  per  i figli del  conte Ugolino della Gherardesca, chiusi  nella torre, insieme  con il padre, fino  alla tragica  morte: ”Ahi  Pisa… chè  se  il conte  Ugolino  aveva  voce di aver tradito…non dovei  tu  i  figliuoi  porre a tal  croce”( Inferno,canto   trentesimo terzo , versi 79-87).

Ancora  più  triste  della  divisione  delle  popolazioni della città  in partito è  quella  legata  a  persone  o famiglie  e  la condanna di  Dante  è  inesorabile  e nella citazione  di queste famiglie  vediamo quei Montecchi e Cappelletti (Capuleti), che secoli dopo  ispirarono  la grande  tragedia  scespiriana, come pure  è  netta la condanna  dei  tiranni, di qualsiasi origine  popolana o nobiliare, per cui  l’appello  dantesco  è  rivolto  ad un potere superiore, al di sopra e al di fuori  di queste  divisioni, potere  di cui  all’epoca  accusa la mancanza, e di  cui ben tratteggia  il suo carattere nei versi  finali  del canto sesto del Purgatorio, da leggere  e  meditare. E  sempre  netta  è  la sua  posizione  contraria  al potere temporale  dei  Papi, risalente  alla  donazione  originaria di Costantino , che all’epoca era ritenuta  veritiera , mentre  la sua falsità fu  dimostrata secoli  dopo, nel 1444, dall’umanista  Lorenzo  Valla ( 1405-1457 ), nella  “ De falso  credita  et  emanata  Constantini  donatione”. Di tutti  questi  mali  risalenti  alle tre belve incontrate all’inizio del  cammino  dantesco , e particolarmente  alla lupa , la  fine  verrà  con  il “ Veltro, che la farà  morir di doglia. Questi  non  ciberà terra né peltro ,ma sapienza ed amore e virtute, e sua nazion sarà tra feltro  e feltro “( Inferno,canto primo ,versi 101-105).Questo  è  uno dei punti della  “Divina Commedia”  che più  hanno dato motivo  di  diverse interpretazioni, da chi  lo considerava una  profezia od un auspicio  o  addirittura la figura  di qualche contemporaneo  e la  vicenda si è trascinata  fino al Risorgimento  ed oltre, considerando  Dante  l’iniziatore di quella dietrologia  che ci compiacciamo  di vedere  in tanti  fatti  ed eventi anche a noi più vicini. Credo  che  la lettura pacata  di queste righe avrebbe  dovuto  portare  fin dall’inizio alla  loro  esatta  interpretazione, che si  celava  nelle  parole stesse del poema. Il veltro  è  qui un termine  metaforico  relativo  ad  un cane  da inseguimento e da presa, che univa  velocità e forza,  adatto  a  combattere  un altro animale,  ma  il  fatto  che non si ciberà  di cose materiali, cioè non sarà avido di territori  e  di ricchezze,  già di  per sé  esclude  uomini  d’arme  per  grandissimi che fossero , dovendo  avere  delle  doti  tutte spirituali  ben  difficili  a  trovarsi  in condottieri. Forse  potrebbero riferirsi  ad un nuovo  Salomone o Giustiniano, ma nemmeno  loro  sarebbero  all’altezza. E poi  il  luogo di nascita, il feltro  vorrebbe  alludere al  Montefeltro? Le risposte  negative   ci sembrano  ovvie. Eppure  inserita  tra feltro e feltro  nasce  qualcosa  e  chi conosce  la fabbricazione  della  carta  comprende  l’importanza  di questa pressatura . Allora  il veltro  è  la  stessa  “ Commedia”  scritta appunto sulla carta ! Il  grande  poeta latino  Orazio  , che Dante incontra  nel castello  degli  spiriti  magni , nel Limbo, non aveva forse scritto  che la sua poesia avrebbe sfidato  il tempo,  come  poi effettivamente è stato, “exegi  monumentum  aere perennius”  ed allora  anche   Dante  è così  superbo da ritenere  la sua opera  capace di tanto ? No, non è superbia , ma  con serena  coscienza ,  la  convinzione  di aver scritto qualcosa  che  supera  i limiti  dello spazio e del tempo  , cioè: “ il  Poema  Sacro  al quale ha posto  mano  e cielo e terra.”(Paradiso, canto  ventesimo quinto, versi 1-9 ).