Una delle pagine più potenti e inquietanti della scrittura di ogni tempo – sotto il profilo sapienziale, cognitivo o anche semplicemente letterario –  è, nel Vangelo di Giovanni, il dialogo tra Cristo e Pilato (18 – 19).

                        Pilato, tutto sommato, è un onest’uomo. Sembra svolgere con zelo il suo incarico di Procuratore romano in Giudea, ma non è né rozzo né sciocco né volgare. Capisce perfettamente che Cristo è innocente rispetto alle accuse che gli muovono i Giudei. E’ anche possibile, per non dire certo, che non colga appieno lo scandalo che Cristo rappresenta per il suo popolo e in specie per le autorità religiose perché le problematiche dei Giudei gli sono del tutto estranee, indifferenti, poco importanti e magari inesplicabili. Fumisterie da orientali, involuti, sottili, irrazionali. Suo primo dovere indefettibile è mantenere l’ordine romano e far obbedire alle leggi romane, tanto è vero che a convincerlo alla condanna saranno, oltre alla cocciuta e fanatica ostinazione in sé, le prese di posizione dei Giudei che, perfidamente e in spirito ricattatorio, gli faranno notare che una decisione nel senso della clemenza rischierebbe di metterlo contro Cesare: «Se lo liberi, non sei amico di Cesare; chi, infatti, si fa re, va contro Cesare», rincarando la dose con l’altrettanto ipocrita quanto sottile affermazione: «Non abbiamo altro re che Cesare» (ma già in precedenza il funzionario romano si era fortemente impaurito e preoccupato quando, alla sua dichiarazione: «Prendetelo e crocifiggetelo voi, io non ci trovo reato», i Giudei gli avevano duramente replicato: «Noi abbiamo una legge e secondo la legge deve morire, perché si è fatto Figlio di Dio». Tuttavia l’intelligente Pilato resterà pienamente consapevole sino alla fine che, al di là della malizia strumentale dei Giudei, Gesù è in ogni caso innocente: «Io non trovo in lui nessuna colpa». Di sicuro da un punto di vista “romano”, con ogni probabilità anche da quello giudaico.

                        Il nucleo centrale del brano, il cuore della narrazione sta tuttavia nello straordinariamente  conciso ma appunto vertiginoso e cosmico dialoghetto sulla verità –  implicante l’infinita gamma di variazioni e di articolazioni che il tema offrirà lungo i secoli sul piano religioso, teologico, filosofico, etico, letterario.

                        «Tu l’hai detto, io sono re. Per questo io sono nato, e per questo io sono venuto nel mondo, a rendere testimonianza alla verità. Chiunque è dalla verità, ascolta la mia voce». Così dice il Cristo, già rispondendo a Pilato che per due volte gli aveva domandato se egli fosse re («Sei tu il re dei Giudei?» e poco dopo, avutane risposta positiva ma per lui strana e incomprensibile, udendo parlare di un regno che non è di questo mondo, «Dunque tu sei re?»).

                        E ancora il Procuratore replica con una domanda, semplice e terribile: «Che cosa è la verità?», e abbandonando il pretorio dove interroga Gesù esce di nuovo davanti ai Giudei (si fa luce, a questo punto, anche un vivido richiamo sullo splendido taglio “teatrale”, scenografico di tutto il passo, entrate, battute, uscite…).

                        Non è la prima volta che il Cristo afferma non soltanto di essere dalla verità, ma di essere lui stesso la verità, anche se in questo caso non esplicita direttamente ma lascia intendere la propria identificazione con la verità. Del resto,  mai come in questa pagina del Vangelo di Giovanni il Cristo sottolinea così radicalmente la propria “regalità”, da intendersi come  il primato universale della sua persona e del suo messaggio nella vita e per la vita  dell’uomo e del mondo, la centralità unica e suprema della sua missione di redenzione e di salvezza. E non a caso in un contesto dove verità e regalità vengono identificate. E segno altrettanto forte di questa assimilata assolutezza di verità e regalità è il silenzio straordinariamente eloquente  che il Cristo oppone in séguito a Pilato alla domanda di questi «Di dove sei?», ritenuta forse assurda o insignificante dopo le parole proferite in precedenza.                Parole tremende. Parole temerarie. Parole superbe. Parole impensabili su labbra umane. Soltanto un dio può legittimamente esprimersi così, può avere il coraggio e l’”arroganza” di esprimersi così. Diversamente: soltanto un profeta, un Eletto, un Iniziato, un Ispirato. Oppure un pazzo, un demente, un insensato. In ogni caso, l’uomo che pronuncia fermamente queste parole prima della sua prevista ed accettata uccisione, prescindendo da una sua eventuale natura anche divina, è un uomo  fuori dal comune, dotato di caratteri e carismi che eccedono la normalità umana.

                        Ponzio Pilato, dal canto suo, esprime il massimo della potenzialità dell’uomo “normale”, limitato, velato, “piccolo” per sua oggettiva e invalicabile natura: ma esprime il massimo. Perché la sua domanda («che cosa è la verità?»)  –  al di là dello scetticismo che vi si può scorgere, del puntiglio a controbattere a uno sconosciuto, del relativismo forse infastidito e piccato innescato dalla “supponenza” regale del suo misterioso e comunque affascinante (o almeno inquietante)  interlocutore – rivela un dubbio umanissimo, lacerante, reale, che l’uomo “normale” non può non formulare, non può non provare. Rimanendo ad abissale distanza da un interlocutore qual è Gesù di Nazareth, quale ne sia l’autentica natura.

                        Ponzio Pilato non è spregevole. Il suo relativismo non è dannabile a priori, il suo scetticismo non è prova di scarsa sensibilità, di scarsa intelligenza, di scarsa cultura – non si dimentichi che è un romano, razionale e pragmatico. Certo non è convinto, se mai turbato o disturbato, dall’incomprensibile e paradossale  messaggio di fede proposto dal suo prigioniero, ma esprime una umana angoscia, un laico dubbio  rispettabile. In un certo senso lo riconosce il suo interlocutore stesso. Infatti, alle battute del Procuratore che stupito, nella sua ovvia limitatezza umana, ancora gli domanda: «Non mi parli? Non sai che ho potere di rimetterti in libertà e potere di crocefiggerti?», il Cristo, che è in possesso di una verità (divina o super-umana) in ogni caso di gran lunga trascendente l’orizzonte mentale del Procuratore, pacatamente replica, e sono le  ultime parole che gli indirizza: «Tu non avresti su di me nessun potere, se non ti fosse stato dato dall’alto. Per questo chi ha consegnato me nelle tue mani è più colpevole di te».

                        Da quel momento, avverte l’Evangelista, Pilato cerca di liberarlo, ma sappiamo che di fronte alla sottile perfidia e alla cieca e fanatica insistenza dei Giudei finirà col cedere, per timore  di  disordini e sommosse. Roma e Cesare prima di tutto. Ma svolgendo una parte (provvidenziale?) che è difficile  condannare senza attenuanti. Concessegli dalla sua vittima stessa.

                                                                                  Loris  Maria  Marchetti