Mauri fu una delle figure più significative della storia della Resistenza italiana. Combattente decorato nella Seconda guerra mondiale ad El Alamein (come il capitano Francesco Balbis, fucilato al Martinetto dopo un processo farsa nell’aprile 1944) ritrovò la forza morale, dopo l’8 settembre 1943, di riscattare l’onore dell’Esercito andando in montagna, per promuovere, organizzare e comandare il I gruppo Divisioni Alpine, dopo aver contribuito insieme al col. Giuseppe Cordero Lanza di Montezemolo al tentativo inutile di difendere Roma dai tedeschi, dopo che Badoglio e il Re lasciarono la Capitale in un modo che continua a suscitare molte ed aspre critiche. Mauri si era formato nel clima del regime fascista, appartenendo ad una generazione che di fatto non aveva conosciuto la libertà precedente alla dittatura ed era stata oggetto della massiccia propaganda del regime. Proprio dalle trincee del deserto africano in una guerra disastrosa maturò il suo antifascismo, pur nella sua lealtà di soldato che sente il giuramento come un vincolo assoluto: è stato Mauri a scrivere che i pronunciamenti dell’esercito appartengono al Sud America e non alla storia italiana e prima ancora del Regno di Sardegna. Mauri fu soprattutto un soldato e un patriota. L’editore ligure Lorenzo Chiarlone, in occasione del centenario, ha ripubblicato il primo scritto dopo il 25 aprile 1945 di Martini Mauri che ripercorre l’esperienza drammatica ed eroica dei suoi uomini dal settembre 1943 all’aprile 1945: un testo scritto a caldo, ma di fondamentale valore storico. Le edizioni del Capricorno hanno ripubblicato nel 2015, con una mia prefazione, il libro di Mauri, venduto anche in tutte le edicole con il quotidiano “La Stampa” Partigiani penne nere, edito nel 1968 da Mondatori, che si rifiutò di ristampare l’opera. Ad Alba, città legata alla vicenda eroica di Mauri, dove nel 2011 venni invitato a ricordarlo, dopo averne parlato al Consiglio Provinciale di Cuneo su invito della Presidente Gianna Gancia, venne presentato il libro da altra persona rispetto a chi si prodigò per anni perché venisse pubblicato e ne scrisse la prefazione. Fu un’offesa personale dell’ANPI albese che non potrò facilmente dimenticare. I volontari di Mauri furono sbrigativamente considerati «badogliani», perché soldati fedeli al giuramento prestato al Re, e furono considerati privi di una adeguata coscienza politica rispetto a Garibaldini e Giellisti, mentre in effetti furono degli autentici combattenti per la libertà contro ogni dittatura, con una visione di fondo che ha dato il senso di una coralità nazionale alla Resistenza che, senza gli “Autonomi”, non avrebbe avuto. Mauri stesso parla dei suoi uomini come di «alpini reduci di Russia, operai torinesi, marinai liguri, professionisti» in cui prevaleva «l’amore grandissimo per la Patria come comunità di Italiani in una comunità di nazioni». Un’idea risorgimentale della patria che costituisce alfierianamente un’endiadi indisgiungibile con la libertà e guarda all’idea d’Europa, senza cedimenti sciovinisti. È infatti al partigianato di Mauri che si deve guardare per poter parlare di Resistenza come secondo Risorgimento, erede, almeno parzialmente, di quello che nel 1861 realizzò l’unità d’Italia. Da altri partigiani Mauri fu osteggiato e spesso venne considerato un resistente inadeguato, malgrado le pagine di storia scritte dalla sua Divisione, che ebbe i suoi caduti e le sue pagine di gloria (una per tutte, la Repubblica partigiana di Alba di cui ha scritto Beppe Fenoglio) stiano a testimoniare il ruolo fondamentale di Mauri nella Resistenza italiana, per non citare Ignazio Vian e il quindicenne Gimmy Curreno, entrambi Medaglie d’Oro al Valor Militare e tanti altri: voglio citare uno per tutti l’astigiano Francesco Nela, medaglia d’Argento al V.M. La storia della Resistenza di Roberto Battaglia, edita da Einaudi, cita una sola volta e di scorcio Martini Mauri perché quella che il socialista Ugo Finetti ha definito la «Resistenza cancellata» non veniva adeguatamente riconosciuta da una certa pur pregevole storiografia che ha una sua scientificità indiscutibile, ma in parte inficiata da giudizi non equanimi che tendono a minimizzare, ignorare, mitizzare, a seconda dei casi. Giorgio Bocca nel campo della semplice divulgazione è stato ingiusto e ingeneroso con Mauri con giudizi affrettati e malevoli che non è neppure il caso di confutare. In questa «Resistenza cancellata» c’erano dei liberali autentici come Mauri che però seppero, durante la tremenda prova della lotta al nazifascismo, accantonare la loro appartenenza, diventando solo ed esclusivamente dei patrioti. Altrettanto si deve dire di militari combattenti della Resistenza, dal generale Giuseppe Perotti al capitano Franco Balbis, tanto per nominare due eroi del Martinetto, fucilati nel 1944. Ha scritto di Mauri Raimondo Luraghi: «Fu obiettato che la sua sarebbe una visione ‘militaristica’ della Resistenza. Nessuna accusa potrebbe essere più priva di senso. Come appare in maniera lampante dalle pagine delle memorie di Martini Mauri, il corpo degli ufficiali in SPE non brillò certo in maniera particolare per il suo contributo alla Resistenza. Uomini come Enrico Martini Mauri non furono resistenti perché erano ufficiali in servizio effettivo (sebbene nei migliori di essi la tradizione risorgimentale e patriottica non fosse stata spenta dal fascismo), ma perché erano combattenti, perché appartenevano a quella giovane generazione che dai patimenti della trincea si era elevata a comprendere la necessità della lotta armata per la libertà». Recentemente ho avuto quasi casualmente la possibilità di imbattermi in un documento importante, la relazione riservata ai superiori scritta dal comandante partigiano garibaldino della Zona B Savona Carlo Testa. Quella relazione, datata 15 novembre 1944, fa giustizia di tutte le falsità e di tutti gli oblìi di cui fu oggetto Mauri durante e dopo la Resistenza.

Scrive il comandante Testa:

«Il Mauri è un maggiore degli Alpini […]. È un militare nel senso più proprio della parola, per vocazione, temperamento ed educazione militare, intelligente, competente, capace, attivo organizzatore, ottimo comandante, vero tipo di combattente che alla perizia accoppia l’esempio, tenace nei suoi propositi. Gode la stima di tutti i suoi dipendenti sui quali esercita un grande ascendente. Rigido nell’osservanza della disciplina scende però a contatto con i suoi uomini che governa con interessamento e con cura. Nelle azioni di combattimento accorre presso il reparto attaccato per rendersi personalmente conto della situazione, prendere le opportune disposizioni e infondere, con la sua presenza, ardore di lotta nei reparti impegnati. Questo ho potuto io stesso constatare perché durante la mia visita si svolgeva un attacco ad un reparto e se ne delineava un altro. Riassumendo, come comandante, è molto a posto sotto tutti i punti di vista».

La motivazione della medaglia d’oro al Valor Militare non riesce a dare l’idea che invece forniscono le parole di un avversario politico in buona fede. Sono l’omaggio più bello al liberatore di Torino, Asti, Alessandria, Alba, Bra, Mondovì, Ceva, Savona che, partendo dal I gruppo Divisioni Alpine, riuscì a contare, il 25 aprile 1945, nove divisioni con circa diecimila uomini, dopo aver lasciato sul campo 900 morti ed oltre mille feriti e mutilati.

Dopo la guerra fu Consultore Nazionale in rappresentanza della Resistenza liberale, ma gli scarsi consensi ottenuti alle elezioni del 2 giugno 1946 e l’esito del referendum istituzionale avverso alla Monarchia portarono Mauri a ritirarsi dalla vita pubblica, per dedicarsi, una volta laureato, alla carriera di dirigente della Sipra dove raggiunse i vertici aziendali. Mauri avrebbe potuto essere un ottimo Capo di Stato maggiore della Difesa, carica che avrebbe potuto ottenere con promozioni per merito di guerra che l’avrebbero portato facilmente al grado di generale, osservò lo storico militare Oreste Bovio, come avvenne nella Grande Guerra per ufficiali particolarmente meritevoli che diedero prova sul campo di battaglia della loro tempra di soldati. Ma anche questa ipotesi si rivelò impraticabile, forse per la fedeltà alla Monarchia di Mauri che, comunque, seppe essere sempre cittadino leale e rispettoso delle istituzioni repubblicane.

La polemica con Salvemini sulle colonne del “Mondo” di Pannunzio

Resta importante la polemica che lui ebbe sulle colonne del “Mondo” con Gaetano Salvemini che disconobbe il valore delle formazioni autonome durante la Resistenza. Il 7 febbraio 1955 Mauri scriveva a Pannunzio quanto segue:

Caro Pannunzio,

l’articolo Quattro documenti di Gaetano Salvemini comparso sul n. 311 del 1° febbraio mi costringe a chiederti di pubblicare alcune precisazioni.

Trattando del volume di Livio Bianco Venti mesi di guerra partigiana nel cuneese il Salvemini ha ritenuto come precisa egli stesso – di dover mettere specialmente in luce tre punti:

1) che contrariamente all’abitudine degli scrittori comunisti il Bianco riconosce alle formazioni delle altre correnti la parte che ad esse spetta nella Resistenza;

2) che quasi tutti gli ufficiali dell’esercito regolare dopo l’8 settembre 1943 si ritirarono sotto la tenda per tenere la “fiaccola sotto il moggio”;

3) che quei pochi di essi che si aggrupparono in formazioni “autonome” si dettero a fare dell’attendismo, tenendosi in serbo per scendere in campo a guerra finita per sostenere il programma monarchico di Churchill.

Debbo anzitutto rilevare che chi si accinge ad una indagine storica dovrebbe quanto meno avere un quadro generale della situazione. Così saprebbe che le formazioni “autonome” ebbero un peso notevole nella guerra di liberazione, dalle quindici divisioni piemontesi alle “fiamme verdi” lombarde, dal raggruppamento “fratelli di Dio” alle “Osoppo” friulane.

E saprebbe pure che furono denominate “autonome” perché non vollero porsi alle dipendenze di questo o di quel partito ma, lasciando ai singoli la più ampia libertà di opinione, preferirono mantenersi nello spirito della più genuina tradizione risorgimentale. Qualsiasi altra interpretazione è quindi tendenziosa e faziosa.

Circa il comportamento degli ufficiali mi limito a ricordare un nome solo, generale Perotti. E non perché sia l’eccezione, ma come simbolo di una larga schiera di resistenti che ha servito la Causa con abnegazione ed in umiltà.

Infine, per riportarci sul piano specifico della guerra partigiana nel cuneese, vorrei chiedere al signor Salvemini se ha mai sentito parlare dei combattimenti di Boves del 19 settembre e del dicembre 1943, delle battaglie di Val Maudagna, di Val Tanaro e di Val Casotto del gennaio, febbraio e marzo 1944, e quindi degli scontri quotidiani e cruenti durante tutta la primavera e l’estate nelle Langhe, culminanti con la liberazione di Alba e la gigantesca battaglia che si protrasse per tutto il novembre e il dicembre.

Legga allora, il signor Salvemini, la Storia della Resistenza italiana di Roberto Battaglia, uno di quegli scrittori comunisti che tende a “sopprimere” la parte avuta dagli altri e per certo non sospetto di simpatia verso gli “autonomi”. Rileverà che il Battaglia non è giunto ad affermare che gli “autonomi” sono stati degli attendisti e hanno tenuto in serbo le loro forze per scendere in campo a guerra finita.

Grazie, caro Pannunzio, per la ospitalità ed abbimi tuo

Enrico Martini Mauri

In Piemonte i liberali furono prevalentemente prefascisti come Marcello Soleri, Bruno Villabruna e lo stesso Einaudi. Un volto nuovo come Mauri avrebbe rappresentato un legame significativo con la Resistenza e con il rinnovamento della vita politica. Il Partito liberale perse uno dei suoi potenziali leader, ma soprattutto il partito non seppe difendere l’eredità storica della Resistenza liberale, sommersa da chi volle monopolizzarla, aggiogandola di fatto all’egemonia del partito comunista.

Va ricordato che nel 1948 Mauri insieme al gen. Cadorna, a Mattei ed altri partigiani non comunisti diede vita alla Federazione Italiana Volontari della LibertàFIVL – che raccolse i Combattenti per la Libertà che avevano saputo combattere il fascismo e che vedevano contemporaneamente la minaccia di una dittatura comunista. In un anno che decise le sorti della democrazia italiana, Mauri non esitò a schierarsi in difesa della libertà, subendo attacchi violenti da parte dei comunisti, che caratterizzarono tutto il resto della sua vita che ebbe termine in un incidente aereo nel 1976, poco tempo dopo che egli era stato di nuovo oggetto di polemiche e di accuse aspre quanto ingiustificate, da parte della sinistra estrema che non gli perdonava di essere un uomo libero che non tollerava, per sé e per gli altri, né conformismi né imposizioni: in una parola un liberale vero.

Conservo una sua lettera del 1971 in cui tra l’altro mi scriveva: «il comune amico Valdo (Fusi, ndr) mi ha detto di come tu mi abbia difeso da un’accusa assurda come quella di essere a capo di una congiura contro lo Stato di cui nella lotta partigiana abbiamo contribuito a porre le premesse indispensabili, in nome della libertà». Poco tempo dopo, Mauri volle regalarmi, anche memore di rapporti con mio zio ufficiale nel “Nizza Cavalleria” nella Seconda guerra mondiale e nella Resistenza (se non fosse stato liberato alle “Nuove” dove era incarcerato, non so che fine avrebbe fatto) il fazzoletto azzurro degli autonomi che ho conservato laicamente come un cimelio carico quasi di valore “religioso”. Forse, magari anche solo per questi motivi, non potrei mai essere io lo storico di Mauri, anche se sono stato tra i pochi a scriverne e a parlarne.

L’accusa farneticante di essere un golpista si era ridimensionata quasi subito, rivelandosi una menzogna, come in effetti era. Ma la persecuzione contro Mauri continuò fino alla morte, perché venne fermato in auto alla frontiera con la Svizzera per traffico di valuta, mentre il comandante stava accompagnando la moglie per un delicato intervento chirurgico, portando con sé il denaro necessario ad affrontare le spese dell’operazione e della clinica. Ciò lo obbligò alle dimissioni da presidente della Sipra. Il viaggio in Turchia con l’intera famiglia, salvo il nipotino Enrico, era un tentativo di ritrovare un po’ di pace dopo la bufera delle accuse e delle polemiche.

Accostarlo ad Edgardo Sogno appare un grossolano errore perché egli dimostrò sempre un grande rispetto per le istituzioni. Fu un insulto alla sua memoria da parte di Sogno candidato a Cuneo di Alleanza nazionale, andare al sacrario di Bastia voluto da Mauri. Un tentativo di strumentalizzare i caduti delle Divisioni Alpine di Mauri. Sogno era stato espulso dalla Fivl anche per volontà di Mauri.

Di lui resta l’eredità lasciata dai suoi libri e soprattutto dalla Federazione Italiana Volontari della Libertà, Fivl, di cui il vice presidente nazionale Lelio Speranza di Savona è stato uno dei suoi esponenti più autorevoli, un uomo molto carismatico a cui Mauri donò la bandiera di combattimento della Divisione Autonoma “Fumagalli” che sventolò nelle manifestazioni per il 70° della Resistenza a ricordare Mauri e i suoi, per dirla con il titolo di un pessimo libro scritto su di lui, ricco di particolari biografici, ma assolutamente privo di senso storico. Il suo autore, Aldo Spinardi, partigiano di Mauri, non aveva purtroppo la statura per scrivere del suo comandante e il curatore della collana pubblicò il testo senza nemmeno rivederlo per renderlo pubblicabile. La figura di Mauri infatti attende ancora chi possa storicizzarne a pieno la sua figura di uomo, di soldato e di partigiano con le stellette.

Occorrerà un giovane studioso che riprenda in mano la documentazione e i libri di Mauri, per ripercorrere, senza stroncature preconcette ed esaltazioni mitizzanti, la storia di uno dei protagonisti della Resistenza italiana.