A vedere l’attuale “guerra delle statue”, che ha toccato anche la  provincia di Bolzano, donde scrivo (sono finite nel mirino la statua all’Alpino di Brunico o, più propriamente, ciò che ne resta e la stele innalzata a Bolzano per gli altoatesini caduti nella guerra d’Etiopia) viene solo da scuotere mestamente la testa e qualcuno dovrà spiegarmi in che cosa differiscano, quanto a mentalità, gli attuali iconoclasti con i talebani che hanno cannoneggiato le statue del principe Gauthama Siddharta, meglio conosciuto come Buddha.

Essendomi occupato, anni fa, dei rapporti tra Italia e guerra civile americana per una ricerca pubblicata negli Annali del nostro Centro (in tale occasione mi fornì preziosi consigli il compianto prof. Raimondo Luraghi, lo specialista italiano per antonomasia di quel periodo), vorrei intervenire circa l’ondata di odio per le statue dette “confederate” presenti sul territorio dell’Unione degli Stati Americani (USA), odio che ha toccato anche un capolavoro della cinematografia mondiale, tratto dall’omonimo romanzo di Margaret Mitchell, il celebre “Via col vento”, accusato di divulgare pregiudizi razzisti (a tal proposito segnalo ai novelli censori che “Totò, Peppino e la malafemmina” divulga pregiudizi sessisti e antimeridionali in maniera assai pesante e volgare). Ricorderò alcuni fatti, tutti autentici e documentati, basta andare in biblioteca e leggersi i libri, so che è faticoso, ma almeno proviamoci…

La prima “sconvolgente” notizia è che la guerra civile non scoppiò per la liberazione degli schiavi: con l’Unione, assieme alle valorose giacche blu di tanti film western, vi erano il Delaware in cui vivevano 1798 schiavi ed il Maryland, in cui vivevano 87189 schiavi (decisamente non pochi, ammettiamolo, una città poco più piccola di Bolzano!), il Kansas in cui vivevano 2 schiavi (due di troppo, certo, ma sempre e comunque solo 2) ed il Nebraska in cui vivevano 15 schiavi. Nel territorio della Confederazione degli Stati Americani (CSA) non tutti gli afroamericani erano schiavi, di quelli liberi non pochi erano a loro volta proprietari di schiavi. Il futuro capo di stato maggiore dell’esercito confederato, generale Robert Edward Lee (1807 – 1870), militare di carriera nell’esercito dell’Unione e da sempre contrario allo schiavismo (l’opinione è stata espressa sia in scritti editi sia inediti), esitò fino all’ultimo sulla scelta di campo, per un soldato non era facile, tanto più che sua moglie era una discendente di Giorgio Washington. Alla fine scelse il Sud e le sue virtù militari non sono mai state messe in discussione. Con il Presidente della Confederazione, Jefferson Davis (1808 – 1889), promosse un decreto secondo cui gli schiavi che si fossero arruolati nell’esercito confederato sarebbero stati emancipati. Si arrese ad Appomattox, in Virginia, il 9 aprile 1865, ma l’ultimo generale sudista ad arrendersi, il 23 giugno successivo, è stato il capo supremo della tribù dei Cherokee, Stand Watie (1806 -1871), comandante della Prima Brigata di Cavalleria Indiana, anch’egli un soldato valoroso (a proposito, le lotte contro il razzismo nei confronti dei nativi americani, giunto anche al vero e proprio sterminio, sembrano un po’ fuori moda in questi tempi, peccato!).

Pochi sanno che sia l’Unione sia la Confederazione avevano due corpi militari che si richiamavano a Garibaldi: nella prima la Garibaldi Guard, nella seconda la Garibaldi Legion. Leggendo i ruolini degli effettivi, si nota che i cognomi italiani sono più numerosi nell’unità confederata. Nell’esercito della Confederazione vi furono anche americani che si erano battuti per l’unità d’Italia: ricorderò qui solo Chatham Roberdeau Wheat (1826 – 1862), che di Garibaldi era stato aiutante di campo e che cadrà da eroe nella battaglia di Gaines’Mill alla testa del reggimento che comandava. Riposa nel cimitero di Richmond e sulla sua pietra tombale fa bella mostra la definizione di garibaldino e di combattente per la libertà italiana. Il console dell’Unione in Belgio, tale Quiggle, propose a Garibaldi di entrare nell’esercito unionista ma, ad una precisa domanda del Nizzardo, che per questo rifiutò, rispose che non era intenzione dell’Unione quella di abolire la schiavitù, ma solo di ristabilire la vulnerata unità nazionale. Mazzini, invece, era a favore della Confederazione, poiché riteneva che essa si basasse su un nuovo sentimento nazionale, diverso da quello dell’Unione.  

Per gli ex-confederati fu una vera jattura l’assassinio di Lincoln da parte di un fanatico sudista: il saggio Presidente, infatti, aveva in mente una politica di riconciliazione nazionale per sanare tutte le ferite lasciate dalla guerra civile (quando giunse la notizia della resa di Appomattox, la gioia fu comprensibilmente grande e la fanfara sotto le sue finestre suonava motivi patriottici: lui le chiese di suonare anche Dixieland, la canzone ritenuta – impropriamente – l’inno ufficiale della Confederazione, in onore dei vinti: anche questo particolare la dice lunga sulla statura morale dell’uomo). Dietrologi e cospirazionisti potrebbero sfogarsi cercando di individuare chi potrebbe aver avuto interesse ad armare la mano assassina dell’attore John Wilkes Booth…

 Ho scritto, non voglio tediare oltre il lettore, alcune banali verità su un complicato periodo storico, da noi conosciuto molto male. Ma, forse, la verità non è mai banale; anzi essa, come ha affermato Antonio Gramsci, è sempre rivoluzionaria. Soprattutto in periodi come questo, dove sembra prevalere l’ignoranza più crassa.