L’assedio delle città è sempre stato un momento particolarmente drammatico delle guerre, con tutto un doloroso corollario di violenze, stragi, scudi umani, rancori, tradimenti, ecc. Per lo storico osservatore di strategie militari può essere interessante studiare come siano cambiate le strategie belliche con l’evoluzione delle tecniche e delle armi. Ma in primo luogo chiedersi se sia davvero individuabile una qualche reale correlazione oppure se le atroci logiche della guerra si ripresentino con modalità sempre sostanzialmente uguali, seppure con strumenti diversi e sempre più perfezionati (à la guerre comme à la guerre, dicevano i francesi). L’ipotesi da validare potrebbe essere posta in termini di scenario di collocazione delle ostilità. Cioè domandarsi se i passaggi decisivi, epocali, dalle armi bianche alle armi da fuoco, e poi ai carri corazzati, all’aviazione e alla missilistica, abbia in qualche modo influito sulla propensione degli uomini a scontrarsi più vicino o più lontano dai centri abitati, con maggiore o minore attenzione alla distruzione delle città e alle perdite tra la popolazione civile. In realtà non sembra – è inevitabile anticiparlo – che esista una qualche legge storica di questo tipo. Fin dalle più remote origini delle comunità umane e dei loro scontri, si trova traccia di battaglie in campo aperto ma anche di assedi. E tutto è continuato fino ad oggi. Esempi molto noti si possono trovare nella storia antica e in quella più recente, fino all’età contemporanea. Non si può non partire dalle rive dello Scamandro, con la storia di Ilio tra realtà e leggenda …  fu lì che tutto cominciò, come direbbe Vecchioni (cit. da ‘Velasquez’). E le mura di Micene stanno a testimoniare quanto fosse sentita a quell’epoca la necessità di chiudersi in caso di assedio, eventualità evidentemente non così remota. Andromaca, Astianatte, Anchise, erano i nomi dei civili di quell’epopea e sono ancora i nomi che evocano la pietà per chi è colpito senza responsabilità dirette e senza possibilità di difendersi. Poi vennero i Romani, con le battaglie in campo aperto di Canne, Farsalo, Filippi. Ma anche con gli assedi di Alesia, di Masada, conclusi con inenarrabili stragi. Contro Cartagine fu la battaglia di Zama (di dubbia collocazione) e poi la distruzione della città (con lo spargimento del sale …). Si può ipotizzare con tutta evidenza logica che lo scontro tra due eserciti di forza equiparabile (almeno nella valutazione ex ante), che sperano entrambi nella vittoria, avverrà preferibilmente in campo aperto, per un ‘leale’ confronto. E solo quando la disparità di forze sia evidente, i più deboli tendono a ritirarsi nel cuore fortificato del territorio, del potere, dell’organizzazione civile ed economica, cioè nelle città. La spinta di valori etico-religiosi fu determinante in alcune battaglie in campo aperto, viene da pensare alla epocale battaglia nella piana di Poitiers. A quei tempi di grandi condottieri e passioni di campanile, solo in alcuni casi evolute in motivazioni civili, religiose e ideali, appartengono anche, per fare qualche esempio, la battaglie di Hastings (vittoria normanna sugli anglo-sassoni), di Legnano (‘a lancia e spada il Barbarossa in campo!’, nella ricostruzione di Carducci), di Montaperti (‘che fece l’Arbia colorata in rosso’, nell’indimenticabile endecasillabo di Dante). Ma questi erano anche i secoli delle torri merlate, delle mura di difesa con le feritoie, dei ponti levatoi sui fossati perimetrali, e c’è da presumere che queste opere abbiano in molte occasioni adempiuto egregiamente alla loro funzione protettiva. Dunque gli assedi potevano essere messi nel conto delle evenienze prevedibili. Si potrebbe argomentare che l’epoca romantica e risorgimentale, più incline alle sensibilità ideali, abbia privilegiato le battaglie campali. Così le battaglie napoleoniche, Marengo, Austerlitz, Jena, Borodino, Lipsia, Waterloo. Tutte battaglie in campo aperto, lontano dalle città, dove gli spazi di manovra consentivano di sfruttare le potenzialità della cavalleria. Nell’Ottocento i casi di assedio, con coinvolgimento diretto della popolazione civile, furono più sporadici anche se non sempre meno cruenti che in altri secoli (vengono alla memoria l’assedio della Repubblica Romana, quello della Comune di Parigi …). Ma di nuovo nel corso della Seconda Guerra mondiale, si ebbero esempi dell’una e dell’altra forma bellica. Le battaglie in campo aperto nelle Ardenne, in Normandia, a El Alamein, sulle isole del Pacifico, tra tutte Okinawa. Ma anche gli assedi di Leningrado, di Stalingrado, e i bombardamenti aerei a tappeto delle città, fino all’uso dell’atomica sulle città giapponesi. E poi nel dopoguerra Dien Bien Phu e la guerriglia nella giungla vietnamita, in contesti ambientali non troppo dissimili dalla foresta di Teutoburgo dove Arminio distrusse le legioni di Quintilio Varo. E ancora l’assedio di Sarajevo, e le devastazioni di Bagdad e Damasco. Difficile trovare linee di uniformità. In tutte le epoche nessun terreno di confronto è stato risparmiato dalla ferocia e dall’insensatezza umane. E ancora oggi, in guerra, l’uomo è ‘quello della pietra e della fionda … con la sua scienza esatta persuasa allo sterminio, senza amore, senza Cristo’ (Quasimodo). E a proposito dei civili, pur nella consapevolezza che una comunità sociale porta un fondo di responsabilità condivisa e solidale riguardo alle scelte collettive, dalle quali può non essere facile né sempre giusto dissociarsi, non si può non ribadire come sia cosa molto brutta sparare sugli inermi, su coloro che non possono difendersi. Di peggio, forse, c’è solo farsene scudo.