Alla fine, l’uomo con più incarichi d’Italia, colui che avrebbe dovuto occuparsi dei tamponi, delle mascherine e dei vaccini, è stato rimosso. Al posto dell’ex commissario straordinario all’emergenza Domenico Arcuri, il premier Mario Draghi ha nominato il generale di Corpo d’armata Francesco Paolo Figliuolo. Insignito di diverse onorificenze per i suoi innumerevoli incarichi in patria e all’estero, è stato comandante del Primo reggimento di artiglieria a Fossano e poi della Brigata Alpina Taurinense. Grande amante di Torino, città dove vive, Figliuolo è dal 2018 comandante logistico dell’Esercito. Anche per questo, la sua nomina rende ancor più fiduciosi tutti coloro che hanno sempre criticato Arcuri, reo di aver accentrato sulla sua persona troppi poteri e troppe mansioni diverse. Il risultato fallimentare del suo lavoro è sotto gli occhi di tutti: le 800 milioni di mascherine comprate dalla Cina per un miliardo e 200 milioni di euro, prezzo che per la procura è volutamente spropositato per favorire suoi amici intermediari, il flop dell’app Immuni e dei banchi a rotelle, i ritardi del piano vaccinale e il progetto dei padiglioni a forma di primula, che sarebbero costati a noi contribuenti 400.000 euro l’uno, sono gli esempi più significativi della sua scellerata gestione. Draghi ha segnato così un altro punto nel segno della discontinuità, dopo aver scelto Fabrizio Curcio alla Protezione Civile al posto di Angelo Borrelli e Franco Gabrielli per la delega ai servizi segreti. L’obiettivo di vaccinare almeno mezzo milione di italiani al giorno – ci auguriamo – si fa più concreto. Ora che entra in gioco l’Esercito, verranno messe a disposizione stazioni, centri congressuali, caserme: la conoscenza e le capacità del nuovo commissario sono motivo di speranza e ci fanno credere che verrà velocizzata la campagna di approvvigionamento e di immunizzazione. Ciò che stona, ancora una volta, è il coro di troppi giornali che prima esaltavano Arcuri e ora si felicitano della sua rimozione. Per mesi i grandi quotidiani non hanno preso le distanze dalle accuse che l’ex commissario rivolgeva a quei colleghi che sollevavano dei dubbi e venivano per questo bollati spregiudicatamente «liberisti da salotto». Quasi nessuno ha solidarizzato con quelle testate televisive querelate per aver divulgato informazioni inerenti l’indagine della procura di Roma sull’acquisto di mascherine cinesi: i toni minacciosi più volte usati da Arcuri non hanno scomposto la gran parte della stampa. Sembra prevalere l’idea che in una società democratica, la politica, invece di rispondere delle proprie azioni davanti all’opinione pubblica, debba dai mezzi di informazione essere spalleggiata, quasi protetta: i nostri governanti, e il sottobosco romano di cui essi si servono, sono convinti che il loro potere nasca motu proprio e che dunque non debbano rendere conto a nessuno del loro operato. Non tengono in considerazione la lezione di Hobbes, per il quale la legittimità politica ha origine e fondamento esclusivo nell’individuo, nei suoi diritti e nella sua volontà. Se dalla ripartizione dei poteri e da una sana e critica libertà di informazione può maturare una società consapevole e libera, in Italia, troppo spesso, questa consapevolezza è venuta a mancare e commistioni e sudditanze hanno finito per prevalere, col risultato che una larga parte della popolazione si senta sempre più sfiduciata nei confronti delle istituzioni. Questa “giravolta” nei confronti di Arcuri non deve infatti sorprenderci: era già successo con Conte, fino a pochi giorni fa considerato l’unto dal signore, e con Casalino, le cui veline hanno affollato nei lunghi mesi della pandemia le redazioni italiane. Prima intoccabili, ora messi alla gogna. Adesso che è Mario Draghi il presidente del Consiglio, è lui il nuovo deus ex machina dalle cui labbra tutti pendono. Anche i partiti non si sono sottratti a questa logica mortificante, da chi sosteneva «o Conte o morte» a chi professava «mai con Salvini al governo». Ma si sa, i politici cambiano idea in fretta. In fondo, sono espressione di chi li vota. L’Italia è una nazione in cui ci si “innamora” politicamente dell’uomo forte troppo in fretta, salvo poi dimenticarlo con ancor più rapidità. È successo con Crispi, con Mussolini, con Craxi, poi con Berlusconi e Renzi. Anche Conte ora rischia di finire nel dimenticatoio, nonostante un’apparente popolarità sui social. I giornali spesso seguono le tendenze, a volte le assecondano, altre le prevedono. È un costume tutto italico quello di salire sul carro del più forte, rinnegando, con una giravolta non indifferente, quanto sostenuto e creduto poco prima. Noi liberali, invece, siamo sempre lì, dalla parte della libertà, del merito, dell’individualismo. Più che le singole persone, sosteniamo le idee e quelle no, non passeranno mai.Commuta il pannello: Yoast SEO

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