Nella loro vita terrena gli esseri umani hanno molti scopi. La famiglia, il lavoro, la salute, gli amici, e così via. Ma hanno un solo fine, anche se non ne sono consapevoli: quello di avere la pace. La pace non può essere donata dalle cose del mondo, che lasciano sempre una insoddisfazione, un po’ per dirla con Schopenhauer. La pace può essere ottenuta solo mediante l’incontro con le essenze, con le divinità. Il grande errore dell’essere umano è quello di cercare Dio all’esterno. Invece Dio è presente nella nostra anima, come l’amico più intimo che abbiamo. La nostra anima, infatti, è una scintilla di Dio, vive della essenza di Dio, è Dio stesso. Cercare la pace nelle cose del mondo, pertanto, equivale ad allontanarci dalla vera pace, che abita nell’uomo interiore. Non diciamo che Dio è l’uomo. L’uomo è semplicemente una creatura fatta da Dio all’alba dei tempi. Ma Dio decide di dimorare nell’anima umana, come il tempio più splendido che possa esserci. Leonida baciava il petto del figlio Origene appena battezzato, in quanto riconosceva in esso la presenza di Dio. Isaia 57, 21: “Non c’è pace per gli empi”. Questo perché gli empi non seguono le vie di Dio, quindi non lo trovano, allora non ottengono la pace. È Gesù, l’Uomo Dio, che dice: “Vi lascio la pace, vi do la mia pace. Non come la dà il mondo, io la do a voi” (Giovanni 14, 27). È nella mente umana che si manifesta la divinità. Per questo Dio lascia agire le cause seconde senza intervenire e quindi molto viene demandato alla autorità degli angeli e pure degli uomini, che hanno il dominio del creato. È dalla volontà umana che si manifesta Dio e la sua provvidenza. Dio interviene mediante la volontà umana. Per questo è capitale essere persone buone e oneste. È come se Dio decidesse nella sua onnipotenza di non avere mani: ha solo (o quasi) le nostre per certi affari. È da ciò che l’uomo può progettare e immaginare che deriva la forma concreta della creazione in alcuni ambiti. Efesini 4, 1-6: “Fratelli, io, prigioniero a motivo del Signore, vi esorto: comportatevi in maniera degna della chiamata che avete ricevuto, con ogni umiltà, dolcezza e magnanimità, sopportandovi a vicenda nell’amore, avendo a cuore di conservare l’unità dello spirito per mezzo del vincolo della pace. Un solo corpo e un solo spirito, come una sola è la speranza alla quale siete stati chiamati, quella della vostra vocazione; un solo Signore, una sola fede, un solo battesimo. Un solo Dio e Padre di tutti, che è al di sopra di tutti, opera per mezzo di tutti ed è presente in tutti”. Ma il nostro discorso è vero anche in un altro senso. Gli esoteristi sostengono che ogni essere umano possiede il Fattore X, cioè delle capacità magiche latenti, che solo alcuni riescono a sviluppare diventando esoteristi veri e propri. La magia altro non sarebbe che la capacità della mente umana nella sua immaginazione e volontà di influenzare la realtà esterna. Luca 17: “Se aveste fede quanto un granello di senape, potreste dire a questo gelso: Sradicati e vai a piantarti nel mare, ed esso vi obbedirebbe”. La fede e la preghiera agirebbero concretamente come capacità magica dell’individuo. Non che Dio non esiste, ma Egli, abitando nell’anima umana, si manifesta mediante la volontà della creatura. Vale a dire che nella preghiera, l’orante stimola con la sua immaginazione la creazione esterna di una forma, realizzando il miracolo. Sempre secondo questo principio, nella scultura sacra induista, ci sono tre momenti:

  • Brahman: Dio, che è Signore di tutte le forme, non manifeste e manifeste;
  • Avyaktarūpa, Forma non manifesta: immaginazione nella mente dello scultore della forma da incidere sulla pietra secondo un “significato preciso” (nirdiṣṭārthaka);
  • Vyaktarūpa, Forma manifesta: scultura eseguita e adatta al culto.

Soltanto se la scultura è dapprima immaginata dall’artista, essa può essere realizzata con efficacia religiosa. Sulla base di questa linea, in India l’iniziazione consiste certamente in un insegnamento ma prima di tutto è immaginale, cioè il passaggio della energia spirituale dal maestro all’allievo. Quindi l’iniziazione si compie soprattutto nella immaginazione, in una forma-pensiero entro il maestro, che, trasmessa al candidato, struttura in quest’ultimo la materia e lo spirito. Shaktipat, in sanscrito Śaktipāta, è termine composto da śakti, che significa “energia”, “forza”, “potere”, e pat, che significa “andare”, “muovere”, “scorrere”, o anche pāta, che descrive più propriamente la “caduta”, la “discesa”. Il termine appartiene alla tradizione mistica dell’India e con esso si intende sia il passaggio dell’energia chiamata Kundalinī da un maestro spirituale ad un allievo, sia la discesa di quest’Energia rivelatrice direttamente da Dio. Alla stessa stregua, la forma del sacrificio vedico, in sanscrito yajña, starebbe nella mente dell’officiante che nel rito realizza la propria volontà. Il dio così evocato sarebbe la volontà del mago, potenziata dalla esecuzione rituale, che compie miracoli. Nel Ṛg-Veda, il più antico dei Veda, i testi sacri dell’induismo, è scritto:

babhrur eko viṣuṇaḥ sūnaro yuvāñjy aṅkte hiraṇyayam (VIII.29.1), che si può tradurre: “è uno: marrone, vario nella forma, gioioso, giovane: si adorna con un ornamento dorato”.

Si tratta di un inno a indovinelli, nel quale ogni strofa descrive le caratteristiche di un dio senza menzionarne il nome. Questo verso, in metro ārcīgāyatrī, descrive il dio Soma, che corrisponde al soma, cioè il succo vegetale che il sacerdote induista versa sul fuoco durante il sacrificio detto libagione. L’epiteto “di varia forma” (nell’originale vedico: viṣuṇaḥ < viṣuṇa) si riferisce all’aspetto che assume il succo quando si mescola con il latte e il miele. Soma è “giovane”, perché prodotto nuovo a ogni spremitura. Ma se vogliamo interpretare in chiave esoterica questo verso vedico, “varia forma” significa che c’è sia il dio sia l’uomo che con la propria volontà fa realizzare il sacrificio. “Giovane” vuol dire che l’uomo ha pochi anni rispetto a una divinità ma, nonostante questo, compie miracoli. Pertanto le religioni hanno un valore assoluto. In esse si manifestano le divinità mediante l’agire degli uomini, nel culto religioso e nelle buone opere. Le religioni sono formate da esseri umani per progetto divino, anche con tutti i limiti che la cosa comporta. Il grande teologo cattolico Guardini scriveva: “Anche la Chiesa sta sotto il segno tragico di tutto ciò che è umano per il fatto che i valori incondizionati sono legati all’umano e quindi deficienti. La verità è legata alla conoscenza e all’insegnamento umani; l’immagine della perfezione è legata al modo umano di rappresentarla; la legge e la forma della comunità sono affidate alla loro umana realizzazione; la Grazia, anzi Dio stesso – si pensi alla Santa Messa – sono vincolati ad atti che uomini eseguono. L’assoluto e perfetto si fonde con il limitato e imperfetto. Questa è la tragedia dell’Eterno stesso che deve calarsi in tutto ciò quando entra nella sfera dell’umano”. Il cuore dei vangeli sinottici (Matteo, Marco, Luca) è il cammino di Cristo verso Gerusalemme dove celebrerà la Pasqua e verrà ucciso. I tre sinottici raccontano un solo cammino di Cristo verso Gerusalemme, orientato all’unica Pasqua che celebra, invece Giovanni presenta varie salite. Addirittura Marco dedica una sezione del suo vangelo a questo itinerario. È interessante che tale sezione è aperta e chiusa dal racconto di due ciechi: il primo è quello di Betsaida e il secondo è Bartimeo, il cieco di Gerico, che seguirà Gesù a Gerusalemme. Il vangelo di Marco si apre con queste parole: “Inizio del vangelo di Gesù Cristo, Figlio di Dio”. Queste poche battute marcano tutto il racconto di Marco, ne sono il programma: Gesù è il Messia (in greco Cristo) e il Figlio di Dio. Titoli usati pochissimo da Marco, ma solo in punti chiave, come nella professione solenne di Pietro (8, 20): “Voi chi dite che io sia?”. Pietro risponde: “Tu sei il Cristo!”. Il primo uomo che lo riconosce quale Messia, durante il cammino verso Gerusalemme, è Pietro. Invece sarà alla fine del cammino, sotto la croce a Gerusalemme, un pagano (il centurione romano) che lo riconosce quale Figlio di Dio (15, 39). Tutto il vangelo di Marco è un percorso di rivelazione progressiva della identità di Cristo. I suoi seguaci sono chiamati ad un certo momento “cristiani” ad Antiochia, invece prima la dottrina era detta la Via. In tutti i vangeli, specie quello di Marco, gli occhi dei discepoli si aprono progressivamente, essi sono spessissimo increduli e non sanno bene chi è Gesù e la sua missione. Per questa ragione i due ciechi guariti sono programmatici nel cammino: Gesù vuole rivelarsi come a dei ciechi. Anche i discepoli devono fare un cammino perché non vedono bene la realtà di Dio. Sono anche sordi, come ogni uomo prima della iniziazione cristiana. In Marco 7 si racconta della guarigione di un sordo, a cui Cristo sospira e dice Effatà, una forma verbale dall’aramaico ‘ippetach, letteralmente “sii aperto”. Alla fine della voce verbale vi è una gutturale, la quale si pronuncia in maniera da far sentire il soffio. Gesù soffia e usa la gutturale, quindi Egli, nel far udire il sordo, sta svolgendo una nuova creazione, come quando Dio nella Genesi alitò sulle creature il soffio vitale. È il soffio dello Spirito che permette al sordomuto di ascoltare il messaggio di Dio, la sua rivelazione. Subito dopo (capitolo 8) c’è la seconda moltiplicazione dei pani e dei pesci. Solo quando si ascolta la Parola di Dio, si deve mangiare il pane. Prima la Parola, poi l’Eucaristia. Segue la richiesta di un segno. E Gesù racconta il segno di Giona. Passiamo a Matteo 16, 1-4:

“I farisei e i sadducei si avvicinarono per metterlo alla prova e gli chiesero che mostrasse loro un segno dal cielo. Ma egli rispose: «Quando si fa sera, voi dite: Bel tempo, perché il cielo rosseggia; e al mattino: Oggi burrasca, perché il cielo è rosso cupo. Sapete dunque interpretare l’aspetto del cielo e non sapete distinguere i segni dei tempi? Una generazione perversa e adultera cerca un segno, ma nessun segno le sarà dato se non il segno di Giona». E lasciatili, se ne andò”.

Matteo scrive un vangelo molto radicato nella mentalità ebraica. Egli, nella richiesta di segni fatta da Cristo, si riallaccia a Mosè, il quale era venuto per mostrare i segni di Dio affinché il popolo fosse salvato. Nella tradizione ebraica il Messia deve compiere segni come il primo redentore, che è Mosè, per dimostrare di essere inviato da Dio. La tradizione ebraica crede certamente ai miracoli, ma per alcuni ebrei non bisogna confidare troppo in essi, che poi per certi potrebbero essere falsi (sadducei). Abbiamo quindi due linee di pensiero nell’ebraismo di ieri e di oggi: una che crede fortemente ai miracoli e una che è scettica. Il grande filosofo ebreo Mosè Maimonide (1135-1204) nella sua opera intitolata La mano forte sosteneva che il re Messia non farà prodigi nel mondo, mentre in un altro scritto egli diceva il contrario (i segni confermeranno l’azione del Messia). Oggi i rabbini dicono che non si tratta propriamente di una contraddizione. Infatti Maimonide offrirebbe questa visione: se gli ebrei se lo meriteranno, il Messia verrà con segni, altrimenti in segreto e senza far parlare di sé, i suoi miracoli si manifesteranno solo più tardi. Gli ebrei increduli e malvagi non riceveranno la visione diretta del Messia, ma resteranno ancora nel dubbio. Con questa chiave si giustifica il racconto del segno di Giona. Una generazione malvagia cerca un segno? Le sarà dato solo il segno di Giona. Nell’originale greco “segno di Giona” è un genitivo epesegetico, cioè non è un miracolo che ha fatto Giona ma un segno di spiegazione, “miracolo che è Giona”, Giona stesso è il segno. Gli ebrei non avranno altri miracoli di conferma del Messia se non Gesù stesso! Secondo la tradizione ebraica, Giona è un profeta della Galilea, la stessa regione di Cristo. Giona è anche il profeta inviato ai pagani, come Cristo che alla fine del vangelo invia i discepoli a evangelizzare fino ai confini del mondo. Giona viene detto nell’Antico Testamento “segno” e lo è per Ninive, considerata dagli ebrei veterotestamentari la città peccatrice per eccellenza, ma che si converte. Non sembra la figura di Roma? La città pagana per eccellenza ma che si convertirà e diverrà addirittura sede del dominio petrino. Tiriamo le fila del discorso. Abbiamo ciechi e sordi: la incredulità che circonda Gesù Cristo. Poi Gesù si rivela ad alcuni, che sono i primi cristiani. Quindi a questi Egli dà il pane, che è il suo corpo e sangue. Gli ebrei restano nel dubbio, in quanto ancora oggi la maggior parte di essi attende il Messia. Ma qual è il senso più recondito del miracolo, del segno? Il vero miracolo è la fede. Come Ninive si convertì nel vedere il “segno che è Giona”, così ogni uomo di oggi è chiamato a far spazio dentro di sé a Cristo. A noi di tutti i tempi, generazione malvagia, è dato solo il segno di Giona, vale a dire una Persona che nasce umilmente in una grotta, la quale venne uccisa e attualmente non è direttamente visibile. Siamo tutti come gli ebrei di duemila anni fa! Dio abita in noi, nella nostra anima. Come facciamo a riconoscere Dio, che è Cristo? Volgendo l’attenzione ai doni di grazia che l’uomo ha in sé, che permette ad esso di dominare il mondo. Dalla mente umana nasce la forma attuale del mondo, che è una estrinsecazione della sua immaginazione. Ireneo di Lione diceva che la Gloria di Dio è l’uomo vivente. Ogni cosa ci ha dato Dio sotto il sole, tutto sta nelle nostre mani, nella nostra volontà, nella scienza, che è un dono di Dio. Poi Egli si è nascosto. Non abbiamo ancora capito che è nell’uomo che splende Dio? come fa un essere limitato come l’uomo a dominare il mondo? È questo il grande miracolo. Dio guida la storia scrivendo dritti sulle righe storte degli uomini. Senza Dio, che abita e guida gli uomini, il mondo semplicemente non esisterebbe o saremmo ancora alla preistoria. È nella fede che riconosciamo Cristo nella storia e lo possiamo incontrare nella Eucaristia, vedendolo con gli occhi dell’anima. Nella fede eliminiamo i dubbi e abbracciamo Cristo! È il battesimo la porta per l’incontro autentico con il Messia!

Bibliografia

  • R. Guardini, La realtà della Chiesa, Brescia 2021;
  • Ṛgveda. Le strofe della sapienza, a cura di S. Sani, Venezia 2000;
  • Vāstusūtra Upaniṣad. Fondamenti della Scultura Sacra nell’India Antica, Milano 2017.