Nell’articolo, “Un Paese normale?” ( Il Foglio’ del 18 agosto u. s.), Sabino Cassese cita il libro di Raffaele Ajello, Civiltà moderna. Lineamenti storici e problemi italiani ( Istituto Italiano di Studi Filosofici, Napoli 2019). Nel volume si sostiene che «la modernità si diffonde in Italia con tre secoli di ritardo, a causa delle discordie, del sottosviluppo, dell’assenza di democrazia, del fallimento del riformismo illuministico (oltre che, sul piano intellettuale, del formalismo, del dogmatismo, dell’hegelismo e del crocianesimo)». Non ho ancora letto l’opera dell’autorevole storico delle istituzioni ma la sintesi che ne fa Cassese – in verità, della sola parte relativa alla “modernizzazione”- mi lascia perplesso. Molto perplesso. Discordie italiane? Sottosviluppo? Assenza di democrazia? Fallimento del riformismo illuministico? Ma di cosa stiamo parlando: di un Paese che già nel XVI secolo avrebbe potuto darsi un assetto politico unitario? E in virtù di quali risorse militari, dinastiche, culturali in senso lato? In realtà, come sanno bene gli scienziati politici che si sono occupati degli “stadi dello sviluppo” politico, l’Italia è stata penalizzata dal fatto che la costruzione dello Stato – a differenza di quanto era avvenuto in Francia, in Inghilterra e in altre piccole e medie nazioni europee è avvenuta in contemporanea con la costruzione della Nazione. L’ “Italia fatta” – cioè lo Stato italiano – per citare la celebre frase di Massimo D’Azeglio ha dovuto ‘ fare gli Italiani’ e lo ha fatto, bene o male, nelle condizioni peggiori anche perché a quei due primi stadi dello sviluppo politico ( la costruzione dello Stato e la costruzione delle Nazione) fecero seguito gli altri due: la crisi di partecipazione – la rivendicazione attiva del diritto di voto per tutti – e la crisi di distribuzione – la richiesta di una più equa ripartizione del prodotto sociale. Se si guarda al nostro passato ci si stupisce non per quanto non è stato fatto ma per quanto si è riusciti a fare: «un volgo disperso che volto non ha» è diventato, nel giro di alcuni decenni, una grande potenza l’ultima delle grandi potenze, certo, ma pur sempre tale da poter rappresentare il peso determinante, alleandosi con l’una o con l’altra delle grandi coalizioni europee. Certo pesò, e non poco, l’annessione del Sud, ma la fine del Regno delle Due Sicilie era inevitabile giacché il suo pessimo governo ne avrebbe fatto il refugium di tutti i nostalgici dell’ancien regime del centro e del nord; una centrale permanente di cospirazioni antiliberali e le cose non sarebbero andate meglio se le rivolte endemiche contro i Borboni avessero portato a regimi rivoluzionari e populisti, anch’essi nemici giurati del moderatismo liberale lombardo- piemontese. E tuttavia come ha mostrato un grandissimo storico (siciliano!) della questione meridionale e del Risorgimento, come Rosario Romeo, i problemi enormi delle “due Italie”, che i Padri Fondatori lasciarono alle generazioni successive, non rendono l’unificazione un’operazione in passivo. Ma de hoc satis anche perché esiste al riguardo una saggistica seria e documentatissima. Capisco ancora meno «il fallimento de riformismo illuministico». A cosa si allude: alla Repubblica partenopea di cui Vincenzo Cuoco – implacabile oppositore di Ferdinando e Carolina – mise in luce l’astrattezza suicida? O alla presunta incapacità riformatrice della Destra storica – ’ l’areopago di Soloni’(Luigi Einaudi) – che per la sua laicità venne definita “giacobina”? E quanto all’”assenza della democrazia”, ha senso un discorso che non faccia riferimento al metodo comparatistico? Gli altri Stati europei erano sempre più avanzati dell’Italia in fatto di diritti politici? A rendermi dubbioso, però, è soprattutto il cenno all’hegelismo e al crocianesimo come fattori di arretratezza. Che una scuola di pensiero possa ‘ rovinare’ intellettualmente un Paese è davvero una fisima da professori o da avanguardie iconoclastiche come quelle che, nel primo Novecento, addossavano tutte le colpe del ‘ritardo italiano’ all’odiato positivismo che sarà stato filosofica-mente sprovveduto ma che pure ebbe il merito di far conoscere, con le sue inchieste, l’Italia reale e i suoi mali antichi ( si pensi solo a Pasquale Villari). Che l’hegelismo possa aver trattenuto il Paese al di qua della modernizzazione è un’altra idea balzana se si fa mente locale al rinnovamento che l’idealismo tedesco portò nel diritto, nella filosofia, nella letteratura. Non fu Bertrando Spaventa uno dei costruttori dello Stato nazionale? E un’ispirazione idealistica non permea la vasta produzione saggistica e letteraria di Francesco De Sanctis? Quanto a Croce è mai possibile che ancora si metta in questione il suo altissimo magistero spirituale – il che non significa certo riconoscersi nelle strettoie della ‘ filosofia dello spirito’? Nel mio primo incontro con Norberto Bobbio, il prestigioso punto di riferimento del neo- illuminismo italiano del secondo dopoguerra, nel bunker di libri di Via Sacchi, rimasi stupito dalla bellissima fotografia di Benedetto Croce che teneva sulla sua scrivania. «Vede Cofrancesco – mi disse – Croce non ha tutte le carte in regola con il liberalismo ma la sua teoria dell’autonomia di morale ed economia, di arte e filosofia è il fondamento della civiltà liberale. E l’anticrociano Luigi Firpo racconta di aver visto, andando a trovare Luigi Einaudi, alle sue spalle l’opera omnia del filosofo napoletano con il quale il Presidente si era scontrato, negli anni Trenta, in tema di rapporto tra liberalismo e liberismo. Se pensiamo a storici come Federico Chabod e Rosario Romeo, a filosofi come Carlo Antoni o a pubblicisti come Mario Pannunzio, che trovarono in Croce una guida e un maestro – e che, come tutti i grandi allievi non rinunciarono, all’occorrenza, a prenderne le distanze anche su questioni teoriche di grande rilievo – è difficile negare che quel poco di cultura dello spirito che ancora ci resta la dobbiamo al vecchio signore di Spaccanapoli.
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