Una sera ho cominciato a leggere un libro, e lo ho chiuso alle prime luci dell’alba. Non mi capitava da “Il nome della rosa”. Un libro che ha esaurito quattro edizioni in un mese, e che è oggetto di una congiura del silenzio da parte della grande stampa. Ho sempre pensato che i tre poteri sui quali il nostro sistema di istituzioni si regge hanno visto, negli ultimi decenni, un colpo di stato strisciante operato da uno dei tre– il giudiziario – a danno degli altri due, il legislativo e l’esecutivo. Ma una cosa è pensarlo, una cosa leggerlo nei dettagli con nomi e cognomi, a firma di uno che di questa vicenda è stato protagonista e, per una decina di anni, forse il principale regista. Il libro è quello di Luca Palamara, il magistrato clamorosamente radiato dall’ordine giudiziario. E’ una chiamata alla corresponsabilità che finora ha trovato orecchie sorde. Non mi risulta che abbia ricevuto smentite, e questo è forse l’aspetto più drammatico di tutta la faccenda. Elencherei tre punti fra i molti che il libro fa emergere con chiarezza. Il primo: la deriva che l’autore denuncia è una deriva politica e ha come protagonisti i magistrati che chiamerei figli e nipoti del vecchio PCI, dai quali il sistema è egemonizzato. Secondo punto: una riforma della giustizia dovrebbe mirare – si sa – a eliminarne le lentezze che producono disastri di varia natura; e questo forse è un obiettivo raggiungibile. Ma l’obiettivo che resterà a lungo fuori portata è un altro, quello che emerge da un brano del libro: “Un procuratore della Repubblica in gamba, se ha nel suo ufficio un paio di aggiunti e di sostituti svegli, un ufficiale di polizia giudiziaria che fa le indagini sul campo altrettanto bravo e ammanicato con i servizi segreti, e se questi signori hanno rapporti stretti con un paio di giornalisti di testate importanti – e soprattutto con il giudice che deve decidere i processi frequentandone magari l’abitazione… Ecco, se si crea una situazione del genere, quel gruppo e quella procura, mi creda, hanno più potere del Parlamento, del premier e del governo intero. Soprattutto perché fanno parte di un sistema che lì li ha messi e che per questo li lascia fare, oltre ovviamente a difenderli”. Chiamiamolo strapotere della magistratura inquirente? Terzo punto, e con questo chiudo. La divisione dei magistrati in correnti (a colorazione politica) che gestiscono i meccanismi delle promozioni e delle cariche è il vero cancro del sistema. Ad avviso del sottoscritto (che però non è il solo a pensarlo) potrebbe essere debellato solo da meccanismi di estrazione a sorte. L’ho chiamato “il libro di Palamara”, e me ne scuso col giornalista – Alessandro Sallusti – che ha avuto il ruolo di promotore e intervistatore. Ma so che è destinato a restare “il libro di Palamara”.
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