Il giornale del Centro Pannunzio, del quale sono socio fin dai tempi della sua fondazione, mi chiede di tracciare un ricordo dello storico processo che nel 1978 si concluse alla Corte d’Assise di Torino e che venne senz’altro denominato” Processo alle Brigate Rosse”. Vi presi parte nel ruolo di difensore di ufficio di un brigatista di punta, Alfredo Buonavita, malgrado il rifiuto di essere difesi espresso unitariamente e documentalmente da tutti  i brigatisti imputati. La loro diffida l’avevano anche rafforzata con tanto di condanna a morte per…gli inadempienti; urlandola anche da dietro le sbarre che li rinchiudevano entro l’aula del processo.
Mi limito ad una breve testimonianza personale
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Ricordo che la mia nomina d’ufficio a difensore BR cadde in un momento difficile della mia vita. Mi andavo districando fra inghippi e delusioni – e nell’esercizio della professione forense, e nell’insegnamento universitario (alla vigilia ormai del concorso per l’ordinariato)- e a tutto questo si erano aggiunti problemi di salute. Da una decina di giorni avevo subito un intervento chirurgico, e mi si era fistolizzata la ferita dell’incisione operatoria. Con conseguenze anche emorragiche, incresciose ed avvilenti quando mi sorprendevano.
Quando mi piovve addosso la nomina defensionale al processo BR, sentii subito tuttavia che non mi sarei sentito di rifiutarla, e che le mie buone ragioni per farlo sarebbero cadute nel sospetto, dopo le centinaia di rifiuti opposti da avvocati e da sorteggiati quali giudici popolari. Sentii soprattutto, che dovevo continuare a credere in me stesso.
Compresi che in fondo la cosa la più difficile sarebbe stata avere il coraggio di dire di no, e non il coraggio di dire di sì. Presi dunque la decisione che mi riuscì la più facile, la decisione altresì che a mio avviso doveva essere presa. Accettai la difesa, ed al mattino del primo sabato libero dal processo mi sottoposi ad un …ritocco chirurgico -a volerlo così definire-il quale ebbe buon esito. E potei andare avanti di buon grado.
In Corte d’Assise il clima di udienza era molto teso. La posizione dei BR era molto precisa, ed inequivocabile: dovevano riuscire a tutti i costi a fermarlo il processo. Ci avevano già provato: con il nefando assassinio di un loro difensore di ufficio, l’Avv. Fulvio Croce, Presidente dell’Ordine degli Avvocati di Torino. Il processo dovette allora essere rinviato, senza che potesse essere indicata la data della sua riapertura. Alla sua ripresa i brigatisti accentuarono subito il clima di tensione e di paura attorno agli avvocati difensori loro imposti.
Noi avvocati eravamo contati, e non si sarebbe potuto trovare ancora un collega disposto ad esser dei nostri in caso fosse venuto meno uno di noi: era stato raschiato il fondo del barile per mettere assieme il numero dovuto per comporre il collegio defensionale, ed inflitte multe ed aperti procedimenti disciplinari. Scopo mirato dai brigatisti era quello di rendere impossibile per lo Stato, amministrare la giustizia nei loro confronti, nei confronti delle Brigate Rosse, e di imporgli di prendere atto della loro i invincibilità. Accamparono una massima sul piano ideologico: non si processa la rivoluzione!
” La giustizia, quella ufficiale e corrente, e la pubblica opinione, chiesero a noi avvocati appartenenti ad una categoria professionale sempre disunita e ritenuta per sua natura intesa soltanto al profitto personale, di difendere compatti lo Stato di diritto. Tanto, parve una contraddizione in termini, ma tutto andava pur tentato: ai più timorosi, le BR sembrava avessero ormai mano libera per raggiungere il loro scopo: togliere autorità allo Stato, sbancarlo.
Per parte loro gli avvocati si trovarono di fronte a difficoltà molto difficili da superare, in quanto uomini ed in quanto avvocati. Difficoltà’, che lasciano comprendere perché alcuni fra i tanti avvocati che non accettarono la difesa dei brigatisti, non riuscirono a superare resistenze motivate da pur comprensibili ragioni. Infatti, come era possibile “difendere” i mandanti morali dell’assassinio di un collega amatissimo, quale Fulvio Croce, divenuto il simbolo più nobile dell’avvocatura piemontese? Con quale animo e con quanto diligente perizia professionale potevano difendere chi li avrebbe minacciati di morte, se avessero accettato di difendere un imputato contro la stessa volontà di questi?
Non si può non rendersi conto dei sentimenti e della incompatibilità giuridica stridente, nella quale i difensori di ufficio vennero a trovarsi, in un processo reso tanto irrituale, ma che lo Stato, in chiave ormai di estrema emergenza, voleva tuttavia che continuasse a tutti i costi…anche seguendo principi contra legem! I difensori di ufficio dovettero superare loro forti repulsioni, ma compresero che stavano presidiando l’ultima spiaggia: ormai – giunte le cose ad un tal punto- si doveva passare al di sopra di tutto, per difendere principi che andavano ritenuti prioritari. Limitarono la loro difesa al piano tecnico, per poter far valere interessi che ritennero non più che procedimentali degli imputati; reputarono che altrimenti non sarebbe stato, a …buon diritto , superabile il rifiuto di questi ultimi di essere da loro difesi.
Sostennero la tesi ch’era stata del loro presidente, e lo fecero sollevando importanti questioni a livello di costituzionalità le quali  finirono purtroppo disattese; sostennero la tesi dell’autodifesa, una tesi che venne apprezzata da reputati giuristi europei, in autorevoli riviste.
Ma era una tesi contraria allo spirito di leggi ancora vigenti: figuriamoci se un  codice osa fascista del 1930 poteva accettare che lo Stato concepisse…la non onnivalenza di se stesso!
Con l’autodifesa i brigatisti avrebbero automaticamente potuto porre in atto quella “difesa-non difesa” che ritenevano loro confacente. L’autodifesa era comunque un tema di discussione che al momento non li interessava affatto: credevano di poter avere in mano, e presto, la situazione, e ribadirono la condanna dei difensori di ufficio loro imposti, quali “reazionari, collaborazionisti in toga”.
Se la liberale proposta dei difensori fosse stata accolta, il processo avrebbe potuto essere ripreso dopo pochi mesi!
Una volta respinta la loro eccezione di incostituzionalità, gli avvocati restarono al processo quali garanti sul piano della verifica tecnica della legittimità degli atti processuali che sarebbero stati compiuti. Per quanto riguardava la difesa su temi di fatto contestati agli imputati, non violarono la volontà di costoro, ma non li difesero in ordine ad addebiti loro contestati e dei quali menavano vanto. Ritennero cosa imprescindibile non dover subire una illiberale ed imposta loro sovrapposizione difensiva rispetto agli imputati.
Concludendo: a distanza di quarant’anni, ci si lasci ancora dire che pur fra tante ambasce personali, in uno sfondo tanto drammatico…la difesa al processo BR fu per gli avvocati, quale umana avventura professionale…una esperienza bellissima!
Lo ricordo ora con commozione il nostro sodalizio di avvocati; fra uomini diversi, di discordanti orientamenti politici, e di differenziati interessi culturali e di vita. Fu un sodalizio che si stabili’ in un contesto professionale e ideale meravigliosamente unitario. E che cementò amicizie.
Tanti sarebbero gli episodi e gli aneddoti, anche caustici, da ricordare! Sapemmo anche sorridere fra le pieghe d’udienza. Ma se ci sentiamo inteneriti – quei pochi che siamo rimasti, da diciannove che eravamo – nell’incontrarci oggi, è per il cupo ricordo di come abbiamo vissuto quei tre mesi e mezzo di un processo d’Assise, nell’aria rappresa dell’androne di una caserma abbandonata, trasformato in aula di giustizia e presidiato da fuori come una fortezza. Li abbiamo trascorsi assieme con affetto di colleghi ed in aperta confidenza di spirito. Professionalmente tutti d’accordo in ciò che si doveva fare. E che assieme si fece.
                                        Emilio Raffaele Papa