È opinione diffusa negli italiani che la campagna a favore dell’abolizione della pena di morte nascesse da un senso di pietosa commiserazione per i condannati all’estremo supplizio e che Cesare Beccaria avesse, con la sua opera Dei delitti e delle pene, scosso le coscienze più inclini alla commozione. Se questo fatto è in certo modo vero, non è poi del tutto esatto. Nel suo libro Beccaria si limita a chiedersi ripetutamente e sistematicamente a che cosa serva la pena di morte e scopre che non serve a niente e a nessuno. Che tale consapevolezza potesse poi scuotere le coscienze dei lettori della sua opera è effetto secondario, anche se probabilmente voluto. Solo che a essere scosse non furono le coscienze più deboli, ma quelle più salde, turbate dalla scoperta che la condanna a morte non risponde a nessuno scopo concreto, a nessun fine politico, tanto da far balenare il sospetto che tale misura estrema nasconde il volto terribile di un potere invisibile, che, vedessi mai, nascondiamo a noi stessi, come nascondiamo le nostre paure. Se non credo probabile che Beccaria pensasse a tutto questo, è certo che nel seguito di una storia della civiltà occidentale cose del genere sono affiorate alla coscienza di filosofi, scrittori e artisti. Arancia meccanica di Stanley Kubrick e 1984 di George Orwell sono diventati non a caso due classici della cultura contemporanea. Inoltre i progressi compiuti successivamente nel campo delle scienze sociali hanno dato pienamente ragione a Beccaria. La pena di morte non ha neanche l’effetto deterrente in cui tanti speravano. Lo dimostra il fatto che dove si applica, non c’è alcuna sensibile variazione di quel particolare genere di delitti che sono puniti con la pena di morte. La psicologia ci spiega benissimo il fenomeno. Da un lato agisce in chi commette il delitto quello che potrebbe chiamarsi l’ottimismo del fumatore incallito che non dà retta al medico che lo ammonisce dicendo che il 60% di coloro che fumano quanto fuma lui muoiono in pochi anni. Il fumatore continua a fumare pensando di rientrare nel 40% di coloro che sopravvivono. È uno (sciocco) ottimista, ma l’ottimismo è oggi quasi un obbligo sociale, ed è quindi rispettato. Sempre la psicologia ci dice che chi giudica la pena di morte quale utile deterrente a scongiurare un’alta percentuale di delitti, non tiene conto di quanto doloroso, disgustoso, sofferto sia compiere per esempio un omicidio. Chi riesce a superare la soglia di questo naturale orrore del sangue facilmente difetta di quel tipo di ragionevolezza che lo sconsiglia di fare gesti che potrebbero eufemisticamente dirsi “avventati” e che sono atti delinquenziali. Se tutto questo dà, a distanza, ragione a Beccaria, va ora spiegata in che cosa consista, per gli studi di diritto e criminologia, il nuovo orientamento che a tali studi diede questo grande filosofo e giurista. Beccaria visse al tempo dei grandi sistemi metafisici, che furono tutt’altra cosa da quello che il comune lettore ritiene che fossero. Nel Settecento non è metafisico chi, in uno slancio fideistico indaghi una realtà soprannaturale; è “metafisico” chiunque si ponga problemi relativi alle nozioni di base, ai principi di una scienza che indaga i fenomeni della natura. Il metafisico insomma era il filosofo che mediava il dialogo dell’intero mondo della ricerca col potere sia politico, sia religioso, entrambi diffidenti delle novità che oggi chiameremmo “scientifiche”. Non a caso era, per formazione – salvo poche e fortunate eccezioni – un filosofo legatissimo alle istituzioni. Già nel corso dell’Ottocento, ma sicuramente a partire dal Novecento, il fisico, il chimico, il meteorologo, stabiliscono autonomamente quali debbano essere i principi fondativi della scienza che ciascuno di loro pratica, sia perché non c’è più bisogno di appoggiarsi al filosofo che ne giustifichi l’operato di fronte al potere costituito, sia perché i governi e perfino l’opinione pubblica lo incoraggiano a farlo per poter poi procedere a quel lavoro di ricerca grazie al quale si mettono a disposizione della società civile invenzioni e scoperte nuove, utili al progresso. Ma all’epoca di Beccaria era la filosofia a tenere a battesimo la ricerca scientifica, a garantire che quella ricerca fosse attendibile nelle cognizioni di base, nelle argomentazioni, nel metodo. Spettava perciò, per dirla in due parole, a quel piccolo esercito di capoccioni che, insegnandole, conoscevano la logica e la metafisica, il compito di accogliere o respingere i ritrovati presunti delle scienze fisiche e naturali. Si partiva dall’alto e tutto doveva con coerenza discendere dall’alto, sulla base di principi saldi e certi, come i postulati della geometria euclidea, esempio paradigmatico in quell’epoca di una scienza “esatta”, ancorché proprio allora si prospettassero alla mente degli studiosi le geometrie non euclidee, con cui inizia a decadere il mito della matematica come scienza esatta. Vigeva la convinzione che fosse necessario tracciare la mappa organica e unitaria di tutto il sistema dei saperi, cominciando col superare quelli che apparivano gli equivoci del dualismo cartesiano. Era nel bene e nel male, un tentativo di far sopravvivere quello che oggi chiamiamo “pensiero unico”, grazie al quale nasce l’idea che il potere riesca a operare un controllo effettivo in tutti gli spazi della vita sociale, idea che a tanti dà conforto, anche perché questi tanti ignorano che è del tutto illusorio che il potere riesca in questo intento. Tale controllo infatti può generare più disordine di qualunque agognato ordine. Ma questo è un discorso difficile che ci porterebbe troppo lontano dall’epoca di Beccaria. Beccaria rivoluziona tutto. Rifacendosi ad alcuni spunti dell’utilitarismo anglosassone, non parte da un concetto generale di Giustizia, avendo già in mente quella giustizia umana, che, precariamente, si amministra per il bene e l’utile della comunità. In questo suo modo di procedere, si imbatte nella sistematica scoperta che la pena di morte non serve a niente, perché non modifica lo stato delle cose. Crea solo un morto in più. A chi legga Dei delitti e delle pene viene ben presto da pensare: “Ma che giustizia è la Giustizia, nel nome della quale si castiga e si premia?” e ancora “Che succede se alla metafisica si sostituisce il buon senso, arricchito di osservazioni puntuali, di riferimenti a casi concreti, di esperienze fatte, di errori commessi?” Non succede nulla di male, se non che si recupera quel tipo di sapere concreto che gli antichi romani, maestri del diritto, chiamavano “prudentia”. Questo per dire che con Beccaria rinasce la “jurisprudentia” che della metafisica può tranquillamente fare a meno. Non per nulla i Romani non ebbero una filosofia, ma ebbero in compenso un diritto che, per vie traverse, ha influito sul diritto moderno di tante nazioni europee. Nel seguito della storia d’Italia l’eredità di Beccaria apparve ad alcuni preziosa. Siamo nel 1864 e sta per spirare l’VIII legislatura, che era in realtà la prima del neonato regno d’Italia, proclamato il 17 marzo 1861. C’è in Parlamento un certo fervore creato da Pasquale Stanislao Mancini, illustre giurista, che si fa leader di un movimento che mira all’abolizione della pena di morte. Si mirava a un’unità sul piano legislativo, unità che appariva a portata di mano per quanto riguarda l’ordinamento giuridico civile, più difficile invece da realizzarsi per quello penale. Uno degli ostacoli era la diversa tradizione giuridica dei vari potentati cessati a seguito dell’unificazione. In particolare, diversamente da quanto era accaduto per gli altri stati italiani, nell’ex Granducato di Toscana la pena di morte era stata abolita già dai tempi di Leopoldo II. Si dibatté quindi se, su questo piano, ci si dovesse uniformare al diritto vigente nel cessato Granducato di Toscana o no. Il diritto è diritto e non deve sfuggire l’elegante insinuazione che anche l’ex Regno di Sardegna fosse uno dei cessati stati preesistenti al proclamato regno d’Italia. Ma fuori discussione parve a tanti che il Parlamento del neonato stato italiano fosse tenuto a rivendicare la preziosa eredità lasciata da Beccaria, anche nella considerazione che, accogliendo la lezione del grande giurista milanese, l’Italia si proponesse quale stato che guarda fiducioso alla modernità, perché la modernità è in quel capovolgimento logico per cui il concreto non si desume dall’astratto, ma al contrario l’astratto (ed è astratta la formula scientifica) deriva dal concreto da questo emancipandosi. Altrimenti si discute all’infinito di questioni di principio, senza mai venire a una conclusione. Il gioco valeva la candela. Lo dimostra il fatto che il “partito abolizionista” fu trasversale e che sia deputati di Sinistra, sia deputati di Destra votarono a favore della proposta che passò alla Camera dei deputati. La stessa fu però bocciata al Senato. Ma, a voler essere maligni, va detto il Senato era di nomina regia… La legislatura finì, si ebbero nuove elezioni e si temette che la questione passasse in cavalleria.
Rimaneva un’opportunità. Candidare un condannato a morte!
Diverse città italiane proposero la candidatura di un certo Giuseppe Mazzini, sul cui capo pendevano due pene capitali, l’una stabilita dal (cessato) regno di Sardegna, l’altra dalla Francia, dopo che Mazzini fu riconosciuto quale istigatore di Felice Orsini che aveva attentato alla vita di Napoleone III. Si puntava sul fatto che alla coscienza di tanti Giuseppe Mazzini appariva “Apostolo” della causa dell’Unità, cosa che ne giustificava la candidatura alle elezioni politiche. Accadde poi che i vari comitati cittadini che ne avevano proposto l’elezione dovettero arrendersi, quale prima quale dopo, alla difficoltà sia di trovare il consenso degli elettori (che fu superata) sia di quella che veniva dall’alto, per cui sarebbe stato estremamente difficile ottenere la “convalida” di quell’elezione. Risparmiando al lettore la ricostruzione di tutte le minute vicende della densa cronaca della mancata elezione di Mazzini a deputato del Parlamento italiano, mi limiterò a dire che si dispose un “lasciapassare” al candidato, nell’ipotesi che la convalida avvenisse. Ma a questo punto fu lo stesso Mazzini a far sapere che la sua fede repubblicana gli impediva di giurare, come prescritto, d’essere leale alla monarchia. Forse Mazzini sbagliò perché avrebbe potuto accelerare i tempi dell’abolizione di una pena all’estremo supplizio che si sarebbe avuta in Italia col Codice Zanardelli, cioè oltre trent’anni dopo e quando le battaglie di civiltà si perdono, ogni anno che passa ne vale due. Vorrei dire, in conclusione, che quel che di bello ha la scienza, qualunque essa sia, è quella sorta di composta e serafica serenità con cui si rendono semplici cose apparentemente complicate. Un gusto oggi imperante segue il percorso inverso e mira a complicare le cose semplici. E nascono perfino “scienze” intorno a saperi assai presunti, su cui un bravo antropologo basterebbe a soddisfare la legittima curiosità di chi volesse saperne di più. In tempi in cui gli chef che impazzano su tutte le reti televisive, ricordandoci che il pane si fa con la farina e che l’acqua bolle a 100 gradi arrivando in alcuni lodevoli casi a specificare che l’altitudine influisce sul fenomeno, ci si dimentica che i problemi esistono per essere risolti e nelle case degli italiani papà si mette le mani ai capelli in un eloquente gesto di disperazione. Il curioso è che poi lo stesso papà incoraggia il figlio che gli chiede che cosa lo turbi, dicendogli che bisogna essere ottimisti e guardare al futuro fiduciosi. È questo il risvolto di quella medaglia che chiamiamo consumismo. La pubblicità ci persuade che acquistiamo prodotti di valore e la ricchezza dell’offerta vale garanzia di progresso e di benessere. E noi, oltre alle merci, di qualità talvolta scadenti, consumiamo anche le idee con cui disinvoltamente queste merci sono immesse sul mercato. E siamo ottimisti. Detto da chi non sa guardare a un palmo dal suo naso la cosa, di per sé comica, suscita più sgomento che divertita sorpresa.