Dal 24 febbraio scorso è in atto una guerra tra Russia e Ucraina, che ha scosso in modo improvviso, non solo le nostre coscienze, ma l’Europa intera, in quanto è dalla fine della seconda guerra mondiale che il nostro continente non si trovava in una situazione così drammatica, come quella che stiamo vivendo in questo ultimo mese. La guerra è sempre una sconfitta del dialogo e dell’intelligenza e, si pensa, istintivamente anche del diritto e dei diritti, in quanto laddove prendono il sopravvento le armi non può sopravvivere alcuna forma di legalità e di giustizia. In realtà, tale affermazione non è del tutto esatta, in quanto il diritto internazionale esiste sia al fine di evitare, preventivamente, che gli Stati risolvano le controversie in modo belligerante, sia a fare in modo che anche in situazioni di guerra sia assicurata una tutela, seppur minima, considerata la situazione, dei diritti della popolazione civile e dei militari e che successivamente al conflitto possa seguire una pace, la più duratura possibile. In questo breve scritto proverò a fare chiarezza, con le parole oggettive e precise del diritto, su alcuni proclami e alcune espressioni che vengono utilizzate, molte volte impropriamente, dalle parti belligeranti o dai mass media; e ciò, al fine di chiarirne il corretto significato, iniziando dalla dichiarazione del Presidente russo Putin, la notte tra il 23 e 24 febbraio scorsi, secondo la quale l’invio delle truppe russe nella Donbas sarebbe la conseguenza di una richiesta di aiuto della popolazione di detta regione alla Russia, tale da legittimare un intervento militare in Ucraina, conforme all’articolo 51 (capitolo VII) della Carta delle Nazioni Unite. Secondo il Presidente Putin, infatti, lo scopo della suddetta “operazione militare speciale”, come lui ed i russi che lo sostengono la definiscono, sarebbe quello di eseguire il Trattato di amicizia e mutua assistenza tra Russia e le Repubbliche Popolari di Luhans’k e di Donec’k, in caso di condotte aggressive da parte dell’Ucraina, in considerazione del prevalente stanziamento di popolazione russofona sui suddetti territori. Sotto il profilo giuridico, la dichiarazione di intervento proclamata da Putin, richiama, implicitamente, la sentenza della Corte Internazionale di Giustizia delle Nazioni Unite del 1986., la quale aveva dichiarato legittimo l’intervento militare degli Stati Uniti in Nicaragua, per ragioni di legittima difesa, a seguito delle dichiarazioni ufficialmente attribuibili agli organi statali. In realtà, a prescindere dalle dichiarazioni ufficiali, l’intervento militare russo in Ucraina costituisce, a tutti gli effetti, una violazione dell’articolo 2 d della Carta delle Nazioni Unite, in quanto ciò che è avvenuto è un attacco delle truppe russe in uno Stato indipendente e sovrano, al fine di minarne l’integrità politica o l’integrità territoriale, con modalità incompatibili con le finalità delle Nazioni Unite (le quali ammettono, quale unica eccezione all’uso della forza, come precisato, quella della legittima difesa successiva ad un attacco armato). Con precisazione, che la suddetta legittima difesa, può essere anche collettiva, nel senso che l’articolo 51 della Carta delle Nazioni Unite permette un intervento militare per la difesa di uno Stato, da parte di altri Stati, su richiesta dell’aggredito. Principio, questo, invocato dal Presidente Putin, al fine di sostenere l’intervento russo a sostegno delle c.d. Repubbliche separatiste di popolazione russofona, sopra citate. Il termine genocidio, che sentiamo nuovamente echeggiare in questa guerra, dopo il conflitto del 1992 nell’Ex Jugoslavia, viene utilizzato dal Presidente russo, sempre nella prospettiva di legittimare una presunta necessità di intervento armato russo in Ucraina, in appoggio alla popolazione del Donbas, vittima di un presunto genocidio perpetrato dagli ucraini, in danno alla popolazione russa della regione. Al riguardo, il richiamo del Presidente Putin al diritto internazionale, fa riferimento alla possibilità di intervenire a sostegno di popolazioni che subiscono gravissime violazioni dei diritti umani, quali un genocidio, appunto, seppur in assenza di un’autorizzazione del Consiglio di sicurezza ONU. Nel linguaggio dei media e nei reportage che leggiamo sui giornali e sui siti di informazione on line, genocidio significa uccisione di persone in massa, con bombe o altri strumenti bellici, ma nel linguaggio giuridico della convenzione ONU del 1948 relativa a questo crimine, il genocidio identifica lesioni fisiche o persecuzioni psicologiche dolose, volontarie, nei confronti di gruppi di persone ben identificati, al fine di sterminare o eliminare definitivamente un’etnia, anche mediante condotte, quali la segregazione e la violenza sessuale per modificane la genia e negarne qualsivoglia legittimità di esistenza, come avvenuto per il popolo ebraico, nel secolo scorso. Il frastuono della guerra, seppure ormai duri da troppo tempo, non spegne la voce del diritto, ed in particolare il ruolo di due organismi di giustizia sovranazionale: la Corte Internazionale di Giustizia e la Corte Internazionale Penale de l’Aja. Il Presidente ucraino Zelensky, in particolare, pochi giorni dopo l’inizio del conflitto, proprio alla luce di un presunto genocidio russo ha investito la Corte Internazionale di Giustizia delle Nazioni Unite di un ricorso contro la Russia, fondato proprio sulla Convenzione ONU del 1948 sul genocidio, al fine di far accertare la commissione di tale crimine in territorio ucraino, giustificato dalla necessità di un intervento russo a difesa della popolazione russofona sul territorio. La questione di fondo, che non si può, purtroppo, non tacere, è che l’esecuzione delle sentenze della Corte Internazionale di Giustizia è spontaneo e non coattivo, fatto salvo il ricorso al Consiglio di Sicurezza ONU in caso di rifiuto. Tuttavia, essendo la Russia parte del Consiglio di Sicurezza con diritto di veto, ogni decisione sull’esecuzione della sentenza ai sensi dell’articolo 94 della Carta ONU potrebbe essere bloccata proprio da chi ha dato origine all’attivazione della procedura. Emerge quindi, in tutta la sua espansione, le difficoltà che il diritto internazionale incontra nella sua concreta applicazione. Circa il possibile intervento della Corte penale internazionale de L’Aja, essa è pienamente titolata ad occuparsi di crimini di guerra, su militari e civili. E ciò, anche se la Russia non ha aderito al Trattato istitutivo della Corte, in quanto l’Ucraina ne ha accettato la giurisdizione, già nel 2013, in relazione ai crimini di guerra commessi nel precedente conflitto russo – ucraino, dal 2014 in poi. In ogni caso, l’Italia ha chiesto, nelle scorse settimane, formalmente, alla Corte de L’Aja di intervenire con una verifica della situazione relativa alla commissione di crimini di guerra in Ucraina, con possibilità, per l’organismo di giustizia sovranazionale, di condurre un’indagine approfondita sulla legittimità dell’aggressione russa all’Ucraina e sugli atti commessi in corso di conflitto contro civili e militari. Concludo questa breve nota con l’auspicio che la giustizia sovranazionale faccia al più presto il suo corso, in Ucraina come in ogni parte del mondo, in cui i diritti umani sono violati e sono commessi gravissimi crimini di guerra a danno delle persone più deboli, bambini in primis. Se così non sarà, si legittimerà l’uso arbitrario della forza e delle armi a danno di territori che godono di piena sovranità internazionale e della loro popolazione, con legittimazione, in futuro, di condotte simili a danno di altri Stati indipendenti. Uno scenario simile è assolutamente da scongiurare, in quanto cancellerebbe in un solo colpo secoli di civiltà giuridica e diplomatica, a favore del ritorno ad uno stato di natura, per dirla con il filosofo del diritto Hobbes, primitivo e fondato sull’uso della violenza, e non della ragione. E se così fosse, ne saremmo tutti responsabili.
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