“Ti bacio quando torno – Storia di Santina”, autori Cataldo Lo Iacono e Salvatore Lombardo, è stato pubblicato recentemente con Amazon. Un libro che affronta un tragico fatto di sangue avvenuto nel 1954 a Marianopoli, paese in provincia di Caltanissetta, nel cuore della Sicilia; è la storia di Santina, ragazzina, studentessa quindicenne uccisa  con sette colpi di pistola dal suo spasimante: un uomo che aveva undici anni più di lei; lui, due anni prima, se ne era invaghito dopo che la ragazzina aveva dato qualche primo innocente riscontro amoroso adolescenziale alla corte di  quell’uomo che poi aveva perso la testa quando Santina gli dice  che per lei era stata solo una piccola e innocente cotta adolescenziale e tutto finiva lì anche perché lei (quattordicenne) aveva solo l’obiettivo di continuare a studiare, fino alla laurea. E in quell’uomo, scatta un lento e maniacale atteggiamento che lo portò all’omicidio premeditato (una sorta di malcelato delitto d’onore). Ero in curiosa attesa dell’uscita di questo libro, anche perché la storia si svolge nel mio paese d’origine, dove sono nato e cresciuto, e sapevo che da un po’ ci stavano lavorando i due autori, anch’essi di Marianopoli e cari amici di gioventù. Ma c’era soprattutto la curiosità intellettuale per una storia avvenuta quasi 70 anni fa, io avevo due anni, ma sulla quale, pur trattandosi di un tragico evento, di grande risonanza per una piccola comunità, dove non succede mai nulla, da subito era calato il silenzio, o meglio una sorta di nebbia composta da imbarazzi, pudori, sensi di colpa; così era stato anche negli anni successivi e quando si parlava del caso, le notizie erano sempre quelle: scarne ed essenziali.  Cosa comprensibile in una piccola comunità, dove si conoscono tutti, dove si intrecciano diffuse parentele, amicizie, relazioni tra le parti vicine alla vittima e quelle vicine al carnefice, a cui si aggiunge l’oblio del tempo e i grandi processi di emigrazione che in quei decenni svuotarono il paese.  Ebbene, il libro ha il  grande merito di fare uscire dall’oblio questa storia, sul quale lodevolmente si è impegnato da qualche anno l’avvocato Salvatore Lombardo, cercando tutti i documenti e gli atti relativi alle indagini della polizia e ai processi penali che ne seguirono, le cronache dei giornali dell’epoca, e di farci capire il contesto angusto della storia dal quale far emergere la figura importante di Santina, “femminista” ante litteram, ovvero una ragazza all’avanguardia, per il luogo e i tempi, che con la sua vita, il suo operato, pura, semplice e casta, inconsapevolmente, difende quella dignità, quei  diritti, quei valori che ancora adesso stentano ad essere riconosciuti alle donne, e la sua tragica fine è un caso emblematico di quella sequela infinita di violenze e omicidi, che oggi vengono definiti “Femminicidi”.  Questi elementi ricostruiti dall’avvocato Salvatore Lombardo costituiscono la seconda parte del libro, con il titolo “La Giustizia umana”.  Ed è su tali elementi che l’altro autore, Cataldo Lo Iacono, ricostruisce la storia di Santina, la sua biografia, anzi una sorta di storia romanzata e lo fa con una originale e interessante formula narrativa: l’Io narrante è Santina, è lei che racconta la sua storia, nella scansione dei fatti e degli avvenimenti e i suoi desideri, speranze, timori, e nei dialoghi con le altre persone che si intrecciano con la sua storia: i suoi genitori, gli amici, il suo spasimante carnefice. Direi che l’operazione narrativa di Cataldo Lo Iacono, che ha già dato prova delle sue doti di scrittore con altre pubblicazioni, è ben riuscita. L’autore ricostruisce abilmente la storia, romanzata, vera e verosimile, della breve e intensa vita di Santina e la fa rivivere, nel detto e nel non detto, in tutta la sua potenzialità, in quello che è stato e in quello che avrebbe potuto essere una persona come Santina. La lettura di questo libro ci riporta agli anni del dopoguerra, la fame e la povertà, la lenta ricostruzione e le avvisaglie del boom economico, che avrebbe apportato grandi cambiamenti sul piano dei costumi, della morale, dell’ordinamento sociale, la crisi del patriarcato, le rigide gerarchie nella famiglia e nella società, la lenta emancipazione della donna e del mondo femminile. Un processo che, con più difficoltà, investiva anche il Mezzogiorno d’Italia, molto più arcaico e arretrato; scoppierà nel 1966 il caso emblematico di Franca Viola, la ragazza diciassettenne di Alcamo, rapita e violentata, che rifiutò il “matrimonio riparatore”: previsto dal codice penale, che annullava quel reato che era (e lo resterà per tanti anni ancora) solo un delitto contro la moralità pubblica e il buon costume, e non contro la persona. Ma in quella Sicilia arcaica e arretrata dei primi anni ’50 del secolo scorso, con questo libro, scopriamo, come già detto, Santina e il suo emblematico caso di femminismo ante litteram, in questo paese che mi sento di dire più aperto ed evoluto sul piano civile e sociale, pensando anche alla determinazione di questa ragazzina di dodici anni, brillante, intelligente, che si sente portata per gli studi, ma che per continuare gli studi, alle medie e alle superiori, deve trasferirsi a Caltanissetta. E qui intravediamo la figura del padre (Gino Cannella), famiglia proletaria, pochi studi, ma brillante, arguto, popolare personaggio che si appassiona alla politica,  diventa segretario del PCI, consigliere comunale e assessore, che decide, pur con grandi sacrifici economici, di far continuare gli studi alla figlia a Caltanissetta; Santina, infatti, sarà una delle prime ragazze del paese che proseguono gli studi in città e forse la prima che non lo farà negli istituti scolastici gestiti dalle suore (dove rigorosamente andavano in quegli anni tutte le non molte ragazze che proseguivano gli studi, che erano quasi tutte da maestra elementare); tutto ciò in coerenza con i principi laici e le contrapposizioni con il mondo clericale del papà di Santina, che affiderà la figlia a una famiglia di sua fiducia e conoscenza di Caltanissetta dove la ragazza vivrà nei mesi scolastici, come vedremo nel racconto. Ancora una nota sul paese di Marianopoli e sulla sua diversità, direi dovuta al suo essere un paese giovane, nato alla fine del 1700, con la colonizzazione del feudo originario  con famiglie provenienti dal Montenegro e da tante altre provenienti da ogni parte della Sicilia; quindi molto più aperte al cambiamento; un paese giovane dove non si erano stratificate le subalternità, servitù, corvè e fenomeni mafiosi ampiamente diffuse in quei territori del latifondo (dove è nata la mafia), se pensiamo che i paesi vicini a Marianopoli sono Mussomeli (patria di Genco Russo) e Villalba (patria di Don Calò Vizzini; non a caso ha avuto da sempre una forte componente di sinistra e socialista in particolare. Un’ultima nota dedicata ai genitori di Santina, conosciutissimi, anche perché avevano un bar nel paese, che anch’io ho conosciuto, ma non sapevo dei particolari della fine di Santina; dal che ho dedotto in loro tutto il dramma dei genitori che sopravvivono alla loro prima figlia, morta giovanissima in un modo orribile, con tutto il sempiterno dolore, pudori, sensi di colpa, rimpianti e simili cose che inevitabilmente scattano. E rivedo suo padre, brillante, sarcastico e graffiante oratore politico comunista, ma sempre serio e compunto e che non si lasciava andare a frizzi e lazzi; una maschera che nascondeva un dolore e una sofferenza immensa. E la mamma di Santina, la signora Peppina, la ricordo sempre dietro la cassa o il bancone del bar, sempre vestita di nero, con il viso cupo e vacuo, afflitto dal dolore; un dolore esaltato dai suoi occhi spenti e asciutti: di quelli che non hanno più lacrime da versare.