Vent’anni sono lunghi da passare e, in un tempo che copre l’età della formazione di un uomo, tempo che, per darne un’idea, può abbracciare il periodo della nostra vita che va dai dieci ai trent’anni, cioè il tempo della formazione. In quei vent’anni tante cose sedimentano nella coscienza delle persone, al punto che queste cose si trasmettono quando sarà, anche senza volerlo, ai figli.
Io credo che quattro siano state le scomode eredità che il fascismo ha lasciato agli italiani.
1. La prima è nel pensare che esista qualcosa come una “fede” politica.
2. La seconda consiste nel ritenere che si possa far carriera con la tessera del partito in tasca. Non è bello, ma lo si “tollera”, in nome della vecchia arte dell’arrangiarsi.
3. La terza che nelle riunioni di partito si possa fare a gara a chi riesce a imporre la linea da seguire, giungendo alle “conclusioni” quando il tempo della riunione sta per scadere, magari cavando di tasca, con grande faccia tosta, il documento “finale” sul quale essere tutti d’accordo.
4. La quarta consiste nell’attenzione data alla politica interna del Paese, trascurandosi invece quella estera.
La prima “eredità” è scomoda perché non risponde a quella che in un paese democratico dovrebbe essere una regola così basilare da descrivere una realtà di fatto. Voto per persone che riscuotono la mia fiducia e che badano a far promesse plausibilmente realizzabili, persone che abbiano magari un interesse personale a difendere una causa che sentono “propria” e nella quale io stesso mi riconosco. Un programma per il quale ci si batte per una giustizia migliore, per un mondo migliore, per una società migliore è un programma tanto vago da restare indefinito. Un programma che parta dall’analisi di problemi concreti che, una volta che siano risolti, faccia di un paese un modello da imitare è, per chi voglia ragionare sui fatti, sicuramente convincente. Ma le belle parole piacciono, specie quando siano accompagnate all’appello a “sani e giusti” principi.
Il ritenere che la politica sia una questione di fede ha portato coloro che vissero nel ventennio fascista ad essere favorevoli o contrari a Mussolini, che è ben altra cosa che non il valutare l’opera e le scelte di un capo di governo. Da quest’atteggiamento è nata, dal secondo dopoguerra in poi, una politica che è stata ora dominata dall’anti-fascismo, ora dall’anti-comunismo, due pregiudiziali che hanno concorso a impedire di fatto un’indicazione precisa circa la definizione dei problemi reali del Paese e della soluzione da dare a quelli più urgenti. Nell’indifferenza generale è cresciuto il potere della mafia, c’è oggi in Italia una povertà diffusa, ci sono spazi urbani in cui il degrado è visibile. Per non parlare dei ghetti costituiti da immigrati e della situazione delle carceri.
Quanto alla carriera facilitata dalla tessera del partito, è un malcostume che, come tale, va riprovato. A questo punto infatti la carriera dipende dall’attenersi, più o meno supinamente, alle direttive del partito, cosa che comporta o la rinuncia a critiche che si ritengono giuste o a un imbarazzante e poco concludente funamboilsmo. Si compromette, in tal modo, il rapporto tra la base e il partito, comunque questo si appelli a principi democratici. In particolare va detto che in Italia ha finito per qusto malcostume con l’essere screditata la figura dell’intellettuale che, per amore di carriera, “strizza” così visibilmente l’occhio al potere, da deludere le aspettative di quanti si rivolgono a lui per un’analisi corretta dei fatti e delle parole. La gravità di quest’ultimo fatto sta nell’ingiusto coinvolgimento di studiosi seri e politicamente seriamente impegnati a cui ormai nessuno più dà il peso che meriterebbero d’avere.
Circa il modo di condurre le assemblee di partito, sia ai vertici, sia nelle sezioni più periferiche, i giochi già fatti prima di incominciare sono un uso palesemente antidemocratico e turba sapere che all’interno di partiti “antifascisti” possano presentarsi situazioni del genere. Infatti la forma meno concludente di anti-fascismo è quello ipocrita e parolaio che poi replica nei fatti comportamenti di tipo fascista.
C’è infine quella sorta di cecità politica ai legami che l’Italia ha con altri paesi e quell’ interessarsi solo a quanto avviene dentro i confini nazionali, quasi che lo Stato sovrano non abbia né impegni da rispettare, né debiti da onorare o crediti da riscuotere. Tutto questo è falso, falsissimo poi in tempi di globalizzazione dove non ha senso che in uno Stato confinante con altri si legiferi in modo totalmente discorde rispetto a quanto fanno gli Stati oltre confine, con i quali si ha continuo e quotidiano commercio al punto che si condividono con quegli Stati problemi comuni.
In questa prospettiva ci si è abbandonati alla convinzione che il Paese possa al suo interno seguire, senza problemi, la politica imposta da una volontà “interna”. È un’ingenuità e, fascismo o antifascismo a parte, l’alleanza con la Germania stabilita dal governo Mussolini fu una mossa politica del tutto incauta per i problemi anche interni che creò al Paese. Già la campagna di Grecia aveva lasciato intendere a chi lo volesse che l’intervento della Germania fosse stato determinante ai fini della “vittoria italiana”. Ciò era segno certo del fatto che, in caso di vittoria delle forze dell’Asse, la Germania di Hitler avrebbe inglobato anche l’Italia nei suoi “possedimenti”. Gli italiani non hanno tratto la dovuta lezione dall’occupazione tedesca, vedendo nella guerra di Liberazione una sorta di conflitto civile. Si trattò invece di riconquistare un’indipendenza nazionale compromessa da una politica che, per motivi a tanti tutt’altro che chiari, si rivelò suicida.
Mi chiedo ora come queste eredità pesino sul Paese.
Io penso che il disamore alla politica in tanti italiani tragga la sua origine dal modo in cui, anche per effetto di queste scomode eredità, hanno considerato che fosse la politica.
Se poi guardiamo all’effetto complessivo che nasce dalla somma dei singoli fenomeni brevemente analizzati, risulta la difficoltà di emanciparsi da uno spirito di supina obbedienza che, disdegnato a parole, si manifesta nei fatti, per cui ci si rassegna a seguire il leader carismatico. Si ignora peraltro che il carisma, dote effettiva di alcune persone, si costruisce oggi a tavolino da capaci operatori dello spettacolo che vestono, truccano, valorizzano una persona modificandone all’apparenza l’indole. Accade così che un vago desiderio d’essere quel che non si è suggerisca a un piccolo esercito di manipolatori di tentare la via per trasformare in leader proprio chi non ne abbia la stoffa.
Metti a disposizione di un mediocre giornalista uno studio televisivo, dove seduti buoni e disciplinati (ma all’occorrenza anche rissosi) intervengono degli ospiti, dagli un microfono da tenere in mano e la possibilità di decidere a chi dare la parola e, se ha talento, l’uomo può trasformarsi e lanciarsi in politica con qualche successo. E tutti diranno che ha carisma. Poi nei fatti si scopre che è docile strumento di venti o trenta grandi elettori che gli consentono di tenere in piedi la baracca nella quale si muove, ovvero continua a servire di nascosto il vecchio “padrone” che lo ha lanciato alla vita politica.
Ma metterci la faccia non significa fare politica, che è, come abbiamo cercato di dire, trovare la soluzione ai problemi concreti di un paese.