Per quanto la cosa possa apparire strana, sono rari gli anni nei quali non si verificano fallimenti bancari. Per quanto riguarda gli Stati Uniti gli ultimi due anni consecutivi privi di bancarotte sono stati il 2021-22 e, prima di allora, il 2005-2006. Quest’anno ha posto fine alla tregua e nel giro di pochi giorni sono andate gambe all’aria ben tre istituti finanziari statunitensi. Il botto più fragoroso è stato quello prodotto dalla banca delle start up e delle società tecnologiche, la californiana Silicon Valley Bank (SVB). Con suoi 209 miliardi di dollari di attivi (al momento dell’annuncio della chiusura delle sue operazioni) è diventato il secondo maggior fallimento della storia bancaria americana (dopo i 307 miliardi della Washington Mutual del 2008). Negli stessi giorni è colata a picco la Signature bank di New York che con i suoi 118 miliardi si colloca direttamente dietro la SVB, al terzo posto della infausta classifica  e la Silvergate, la banca specializzata in criptovalute. Dopo la conta delle vittime dell’aumento repentino (forse troppo) dei tassi d’interesse, che facendo crollare il valore dei titoli obbligazionari nei portafogli delle banche in oggetto ne ha messo a nudo la fragilità, sono provvidenzialmente intervenute le massime autorità intimando metaforicamente, dopo l’un, due, tre subito: Stella! Tutti fermi! E’ stato infatti subito chiaro che il rischio “sistemico”, di un allargamento a macchia d’olio dei fallimenti, andava evitato a qualunque costo e lo schieramento compatto di governo americano, Federal Reserve e Fdic (la Federal Deposit Insurance Corporation, che assicura il rimborso dei clienti sino ai 250.000 dollari) ha garantito immediatamente che i clienti coinvolti non perderanno nessuno dei circa 300 miliardi di dollari depositati. La corsa agli sportelli per prelevare quanto formalmente non garantito (come detto sopra la garanzia bancarie arriva ai 250.000 dollari) sembra essere rallentata ma dovremo aspettare qualche tempo per fare il conto dei danni provocati. Quanto avvenuto potrebbe avere posto un freno al ciclo di rialzo dei tassi che il governatore della Fed, Jerome Powell, aveva riconfermato prima degli ultimi eventi, e aprire lo spazio, nell’ultima parte dell’anno, a dei tagli che contribuirebbero a migliorare le prospettive economiche e quelle dei mercati obbligazionari (i minori tassi d’interesse si riflettono automaticamente in prezzi dei titoli più elevati). Per non appesantire eccessivamente la lettura, se interessati potete trovare un maggiore approfondimento in questo mio articolo: https://iltorinese.it/2023/03/14/il-bastone-e-la-carota/ . Quando il gioco si fa duro occorre intervenire per fare rispettare le regole che la potentissima lobby bancaria statunitense rende periodicamente (nel proprio esclusivo interesse) meno stringenti aprendo il campo a disastri annunciati (era già successo nel 2007-8 e negli anni 80-90 con i massicci fallimenti delle banche specializzate nella concessione di mutui). Riusciremo ad imparare dagli errori commessi o continueremo a fare affidamento ad una buona stella?