Quando frequentavo l’università ad Urbino, avevo notato a mensa un signore ormai in età che si esprimeva con uno spiccato accento ligure del Ponente, quello che avevo nelle orecchie dalla mia infanzia, giacché la mia famiglia è da quelle parti che proviene. Era un maestro elementare in pensione e passava il tempo, invece che a starsene a giocare a briscola all’osteria, macinando con successo una laurea dietro l’altra. Gli chiesi donde provenisse quel suo marcato accento e, dopo qualche insistenza e con una certa ritrosia, mi disse di essere originario di Piena Bassa, un paesino già comune di Olivetta San Michele, in provincia di Imperia, ceduto alla Francia in virtù del trattato di pace del 1947. Viveva a Roma ma la “coccina” ligure non l’aveva persa e si mostrò stupito del fatto che conoscessi la storia della sua terra. Eh, sì, perché il trattato di pace non ci privò solo di Briga e Tenda per cui, a pezzi e bocconi, uno straccio di giustificazione storica si sarebbe potuto infine anche trovare (alla fine del Cinquecento la Contea di Tenda venne inglobata in quella di Nizza e nel 1860 Briga e Tenda passarono dalla provincia di Nizza a quella di Cuneo, giova ricordare che nel 1860 Briga e Tenda non divennero francesi per motivi di sicurezza militare, venendo già la Francia in possesso dello strategicamente fondamentale saliente di Saorgio in Val Roja), ma per quanto riguarda l’annessione alla Francia delle località liguri della bassa Valle Roja, fino al Congresso di Vienna sempre genovesi e mai sabaude, non esisteva altra logica se non quella della spada di Brenno. E, da parte italiana, non c’era allora alcun Furio Camillo e, qualora vi fosse stato, ci avrebbero pensato i quattro grossi (così Benedetto Croce definì una volta i quattro grandi) a calmarne la furia… Tutte queste vicende mi sono venute in mente leggendo il recente libro di Luigi Iperti, “Storie di frontiera. Il secondo dopoguerra ai confini occidentali” (pp. 366, Euro 22) pubblicato dall’editore genovese De Ferrari (www.deferrarieditore.it). L’autore è egli stesso un esule da un’antica frazione di Olivetta San Michele, ma il libro è scritto con estremo rigore scientifico, corregge diversi errori di pubblicazioni precedenti, sia francesi sia italiane e non si piange addosso (anche se non ci sarebbe nulla di male, intendiamoci, lasciare il paese natio per poter conservare la nazionalità cui si sente di appartenere non è uno di quei fatti che, notoriamente, inducano all’allegria…) e sorvola sui ricordi personali (affidati ad un libro pubblicato nel 2012 e due anni dopo tradotto in francese), anche se qualche momento commovente c’è, per esempio quando racconta dei vecchi che, molti anni dopo la guerra, durante la Messa cantano le canzoni religiose in italiano. L’apparato documentario su cui si basa il volume è, sostanzialmente, inedito, poiché si rifà all’archivio del Comitato per l’Italianità della Valle Roia, che esistette fino al 1990 e che fu fondato dalla sanremasca Nilla Gismondi (1901 – 1989), una patriota tutta d’un pezzo che riuscì a fare opera di assistenza, ma non solo, andando ad interessare ambienti governativi per leggi e provvedimenti che favorissero i rojaschi che avevano scelto la cittadinanza italiana.  La storia è ancora tutta da raccontare per filo e per segno e certamente il libro dell’Iperti è destinato a diventare, per lo storico futuro, un’opera di referenza. Tante storie sono state raccontate anche in maniera distorta. Per esempio una frazione di Briga non annessa alla Francia, Realdo (le altre frazioni rimaste all’Italia andarono a costituire il comune di Briga Alta in provincia di Cuneo che si sta spopolando ma, una bella notizia di qualche settimana fa, dopo 42 anni vi è nata una bambina, mi sembra un omen positivo!), venne aggregata al comune ligure di Triora, ma fu privata dei pascoli che davano da vivere alla popolazione. Le manifestazioni di protesta per questo sono state interpretate, spesso in assoluta malafede, come manifestazioni di francofilia da parte dei realdesi che, in realtà, volevano solo continuare a poter far pascolare i propri armenti senza dover tirare fuori il passaporto o pagare diritti doganali… Il Comitato, spesso in collaborazione con l’Associazione Esuli della Val Roja, che aveva sede a Torino, s’ impegnava per far risolvere anche problemi di questo tipo. Grande gioia suscitò nel 1953 l’elezione al Senato, per il Partito Liberale Italiano, del tendasco Stefano Perrier, un illustre medico (fu lui, in sostanza, a scrivere il codice deontologico dei medici italiani), che, però, scomparve prematuramente nel 1956. Intanto i problemi internazionali cambiavano e si capiva che Francia e Italia dovevano stare unite. Nilla Gismondi veniva considerata un po’ un’importuna e, comunque, per farla star tranquilla, Roma dava qualche contentino ai profughi della Val Roja e, piano piano, si provvide a risolvere alcune delle questioni più spinose cercando di dare un colpo al cerchio e uno alla botte. La controparte francese della Gismondi era il nuovo sindaco di Briga, tale Aimable Gastaud (soprannominato sarcasticamente Amabile Gastaldo dai suoi detrattori e dai suoi concittadini italofili). Questi, un brigasco francese già da molto tempo prima della guerra, venne utilizzato per favorire l’annessione di quelle terre alla Francia e per l’Italia provava un vero e proprio odio. Ma, come si è detto, i rapporti tra le due nazioni cambiarono e, così, Gastaud venne considerato molto più che importuno da Parigi e alla fine gli venne imposta la mordacchia, senza neppure i contentini che Roma dava ai sostenitori della Gismondi. Questa, per la sua attività patriottica, venne insignita, nel 1985,  del titolo di Grande Ufficiale dell’Ordine al Merito della Repubblica Italiana. Gli esuli da quelle terre dovrebbero essere stati circa un migliaio, otto/novecento autoctoni ed un altro centinaio costituito da persone provenienti da altre parti d’Italia, che in Valle Roja si erano trasferiti per ragioni economiche, di lavoro o d’amore. Non sono tanto pochi, se si pensa che quelle non furono mai zone densamente abitate. Io, nella mia adolescenza, ho girato molto per la Terra Brigasca, che mio nonno materno adorava. Si andava in casa di una famiglia italofila a Briga e, con aria da cospiratori carbonari, questi ci facevano vedere le foto dei loro parenti con l’uniforme militare italiana, gli encomi ricevuti, ecc., pregandoci di non parlarne assolutamente in giro. Ora i tempi sono cambiati e si è avverato l’auspicio formulato dall’esule rojasco Alessandro Bosis nel 1949: “…facciamo che non per fatti di guerra, bensì per la comprensione dei popoli, possiamo un giorno far ritorno alle nostre case…”. Adesso che Brenno e Monsieur Chauvin riposano in pace, e nessuno li rimpiange, i rojaschi hanno capito che, indipendentemente dal passaporto, appartengono alla medesima cultura e si sono svolte numerose manifestazioni culturali comuni, si traducono i libri, i giovani, pur essendo leali cittadini francesi (nessuno chiede abiure di alcun genere a chicchessia) riscoprono con un certo orgoglio le proprie radici e in quella casa cui ho fatto prima riferimento (così e in numerose altre), le foto dei parenti con l’uniforme italiana sono uscite dai cassetti per finire sulle pareti del salotto o del tinello. Ma la storia non va né dimenticata né ignorata, quindi dobbiamo ringraziare persone come Luigi Iperti che ce la presentano in maniera rigorosamente oggettiva. Di seguito un interessante link per vedere come il seguito cinegiornale de “La Settimana Incom” illustrò la dolorosa cessione di Briga e Tenda alla Francia: