Nel seder pasquale ogni ebreo è invitato ad attardare, a vegliare. In questo ordine, rituale (in ebraico seder) che gli ebrei compiono ancora oggi per commemorare l’esodo, la notte è una dimensione fondamentale. Ma lo è anche in Esodo 12, dove si dice “questa sarà una notte di veglia per tutto il popolo”. Nel seder pasquale vi è un canto bellissimo che recita: “Che cosa c’è di diverso in questa notte rispetto a tutte le altre notti?”.

         Nel Poema delle Quattro Notti, facente parte del targum (che costituisce un insieme di traduzioni in aramaico della Bibbia ebraica assieme a dei commenti sempre in aramaico), è palese l’ambiente spirituale della notte di Pasqua, cioè ci fa vedere come gli ebrei hanno vissuto quella notte fondamentale. Il testo in questione, tratto dal Targum Neofiti, è il commento a Esodo 12, 42 (“Notte di veglia fu questa per il Signore per farli uscire dal paese d’Egitto. Questa sarà una notte di veglia in onore del Signore per tutti gli Israeliti, di generazione in generazione”). Il Poema così dice: “Questa è la notte preparata per la liberazione in nome del Signore, per l’uscita dei figli di Israele … Quattro notti sono state scritte nel libro dei memoriali. La prima quando Dio creò il mondo, nel momento in cui le tenebre ricoprivano l’abisso. La seconda notte fu quando il Signore si rivelò ad Abramo perché si compisse ciò che prescriveva la Scrittura … andando a sacrificare il figlio Isacco. La terza quando il Signore uccideva i primogeniti degli egiziani per liberare gli ebrei dal giogo iniquo. La quarta notte sarà quando il mondo giunto alla sua fine e allora le generazioni dell’empietà saranno annientate e Mosè ritornerà”. Quindi la prima notte è quella della creazione, la seconda quella della fede, la terza quella della liberazione, la quarta è la notte della liberazione definitiva, quando verrà il Messia.

         Nella Pasqua ebraica si commemora la liberazione dagli egiziani. La Pasqua cristiana commemora la risurrezione di Cristo e quindi la liberazione dalla morte a favore di tutto il genere umano. Il termine ebraico ziqqaron non significa solo un “ricordo”, ma un “memoriale” nel senso che quell’evento è ancora vivo e vero, sia per gli ebrei sia per i cristiani. Lo stesso Gesù quando istituisce l’Eucaristia, nell’Ultima Cena, dice: “Questo è il mio corpo, che è dato per voi; fate questo in memoria (anamnēsin) di me” (Luca 22, 19).

         Genesi 22 narra di come il Signore si rivela a Abramo chiedendogli di uccidere il figlio Isacco come sacrificio sul monte Moria. Abramo accetta ma nel momento cruciale un angelo lo ferma. In questo modo Dio riesce a capire la fede di Abramo nella sua parola. Nella tradizione ebraica Isacco viene legato, quindi il suo sacrificio da parte di Abramo è detto “legatura”, in ebraico ‘Aqedah. Nella tradizione ebraica Isacco non è offerto in maniera passiva da Abramo ma egli stesso si offre spontaneamente alla passione, facendosi legare per il sacrificio. Giuseppe Flavio ricorda che Isacco ha 25 anni, quindi è un giovane adulto, consapevole di quello che compie (il targum riferisce 37 anni).

         Il monte Moria è dove sorgerà il tempio di Gerusalemme e secondo alcune tradizioni il sacrificio avviene il 14 di Nissan, cioè quando gli ebrei celebrano la Pasqua. È nella tradizione ai tempi di Gesù che Isacco si offre liberamente al sacrificio, cosa non presente in Genesi 22. Gesù deve aver ascoltato questo racconto.

        Anche l’agnello pasquale nel tempio di Gerusalemme viene legato. Lo fanno ancor oggi i samaritani, a forma di croce. Nel tempio l’agnello pasquale viene offerto da un sacerdote, ma ogni padre di famiglia ebreo a Pasqua uccide un agnello nella propria abitazione comportandosi come un sacerdote. Questa tradizione degli ebrei risale alla prima Pasqua ebraica, quando, nella notte dell’esodo, Dio ordina agli israeliti di uccidere un agnello.

             Ma c’è un’altra coincidenza. L’agnello pasquale deve essere mite, non deve recalcitrare troppo al sacrificio. Il targum dice che Abramo e Isacco si dirigono al monte “con cuore perfetto”, l’originale aramaico adopera la radice shalam, “essere integro, perfetto” ma anche “essere senza macchia”. Le vittime sacrificali devono essere senza macchia fisica né difetti. E pure senza macchia interiore, cioè l’agnello deve essere mite, non deve opporre resistenza alla morte provocata. Per questo gli ebrei non sacrificano i maiali, che fanno un fracasso terribile quando capiscono di andare al macello. 

          Gesù deve avere presenti questi riferimenti ebraici quando, nella sua volontà divina, decide di morire nei giorni di Pasqua come l’agnello sacrificale degli ebrei, dando così compimento a tutti i sacrifici antichi. Gesù è l’agnello senza macchia che decide volontariamente di morire a Gerusalemme per la salvezza del genere umano.   

            La tradizione della assimilazione di Cristo a Isacco è cristiana. Clemente Romano scrive che, conoscendo il futuro, Isacco come Cristo si fa condurre volontariamente al sacrificio. Ciò si ritrova anche nella Omelia pasquale di Melitone da Sardi, una delle più antiche in assoluto, in cui si scrive che Gesù soffre molto, in Abele viene assassinato, in Isacco viene legato, in Giuseppe venduto, in Davide circondato da fiere, nei profeti disprezzato.

          È possibile che anche non cristiani si salvino, se sono persone giuste, ma sempre per i meriti del sacrifico di Cristo, unico Salvatore del mondo.

          Quale grande amore ha Dio Padre nell’inviare suo Figlio Gesù nel mondo per morire e quale grande amore ha Gesù per offrirsi liberamente a questa sorte!

          Non ci sono parole per esprimere un mistero così grande. Dio che si incarna nella debolezza e precarietà della condizione umana. Giovanni 1, 14: “E il Verbo si fece carne”, dove il sostantivo greco sarx, “carne”, traduce l’ebraico basar, che indica il corpo inteso nella sua fragilità. Egli poi muore tra due ladroni ad un supplizio diffamante. Infatti la crocifissione è ai tempi di Cristo la peggiore pena di morte, data ai criminali più iniqui, come gli zeloti (terroristi antiromani). Per questo i cittadini romani ne sono esentati, Paolo per l’appunto non incorre in questo genere di castigo ma viene decapitato. Nella Basilica della Natività in Terra Santa c’è una porta molto bassa detta Porta dell’Umiltà. Nella Lettera ai Filippesi (2, 6-8) San Paolo proclama che Cristo “pur essendo di natura divina, non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio ma spogliò sé stesso assumendo la condizione di servo e divenendo simile agli uomini. Apparso in forma umana, umiliò sé stesso facendosi obbediente fino alla morte e alla morte di croce”. È ciò che i Padri greci chiamano kenōsis, lo “svuotamento” di Dio, che rinuncia alle sue prerogative per amore del genere umano. 

       In Osea 11, 4 si leggono queste parole stupende dette da Dio: “Io li attiravo con legami di bontà, con vincoli d’amore; ero per loro come chi solleva un bimbo alla sua guancia; mi chinavo su di lui per dargli da mangiare”. In queste poche parole ebraiche si può scorgere il grande amore che Dio ha sempre nutrito nei confronti dei suoi figli. In Geremia 31, 3 Dio esclama: “Ti ho amato di amore eterno”. Da una parte il testo di Osea sembra riecheggiare toni presenti già nelle culture vicine del tempo, per esempio, in una iscrizione assira, la divinità si rivolge al re: “Quando eri piccolo, io ti ho sostenuto”. Ma dall’altra Osea sta in polemica contro i culti idolatrici cananei, che costituiscono la grande tentazione di Israele: è Dio che ha cura del suo popolo e non i Baal di turno dei popoli vicini!   

        E la stessa misericordia è chiamata a usare la chiesa, Una, Santa, Cattolica e Apostolica. La chiesa è formata da uomini, peccatori come tutti, ma è santa in quanto guidata dallo Spirito Santo. Nella chiesa si manifesta l’unico Dio, che le conferisce il carisma di Madre e Maestra. Lettera agli Efesini 3, 10-11: “… affinché sia ora svelata ai Principati e alle Autorità nei cieli, mediante la chiesa, la multiforme sapienza di Dio, secondo il progetto eterno che ha realizzato in Cristo Gesù”. Sottolineiamo l’avverbio greco nun, “ora”: è nella chiesa tutta, anche quella pellegrina sulla terra, cioè quella di “ora”, che si manifesta la sapienza di Dio, e persino gli angeli ne sono ammirati. Significativo altresì l’aggettivo greco polupoikilos, tradotto dalla CEI con “multiforme”. Poikilos significa in greco letteralmente “variegato”, come la tunica “variopinta” di Giuseppe in Genesi 37, 3. L’aggiunta di polùs rafforza questa varietà. La chiesa, infatti, ha in sé molti carismi, tra cui quello della carità spirituale e materiale.  

        I cristiani non costituiscono delle comunità di perfetti, questa semmai è stata la eresia dei Catari, in greco “puri”. Dio sceglie gli ultimi, anche i peccatori. 1Corinzi 1, 26-31: “Considerate infatti la vostra chiamata, fratelli: non ci sono tra voi molti sapienti secondo la carne, non molti potenti, non molti nobili. Ma Dio ha scelto ciò che nel mondo è stolto per confondere i sapienti, Dio ha scelto ciò che nel mondo è debole per confondere i forti, Dio ha scelto ciò che nel mondo è ignobile e disprezzato e ciò che è nulla per ridurre a nulla le cose che sono, perché nessun uomo possa gloriarsi davanti a Dio. Ed è per lui che voi siete in Cristo Gesù, il quale per opera di Dio è diventato per noi sapienza, giustizia, santificazione e redenzione, perché, come sta scritto: Chi si vanta si vanti nel Signore”. Non sono gli uomini di chiesa, con i loro molti difetti, a salvare, ma è Dio che salva manifestandosi in loro. Romani 5, 20: “Laddove è abbondato il peccato, ha sovrabbondato la grazia”.

         Lo stile di Dio è sempre stato questo, sin dagli inizi. Giacobbe è un fuggiasco per via di una sua colpa, non ha niente, ma in sogno ha una visione di Dio e dei suoi angeli e il sasso sul quale dorme sarà la pietra d’angolo del futuro tempio di Gerusalemme. Nella genealogia di Gesù di Matteo 1, 1-16 compare Racab (cioè Raab), una prostituta, la quale è una locandiera di Gerico che protegge le due spie israelitiche inviate da Giosuè in perlustrazione prima dell’assedio (nel mondo antico le locande sono equiparate a bordelli). Nella genealogia di Cristo secondo Matteo compare anche la moglie del generale Uria, alle dipendenze di Davide: il re Davide vede per sbaglio questa donna nuda, se ne invaghisce e con lei pecca di adulterio, generando il figlio Salomone, che poi fa costruire il tempio di Gerusalemme. Compare in seguito anche Rut, una brava donna, ma non ebrea, bensì moabita. Nel Nuovo Testamento Giuda, del collegio apostolico, è il traditore che fa arrestare Gesù. Nel momento della passione e della croce tutti gli apostoli scappano, addirittura Pietro, il capo della chiesa istituito da Cristo, rinnega Gesù per ben tre volte. Dopo la risurrezione Tommaso non ci crede. In seguito Barnaba e Pietro vengono definiti da Paolo “ipocriti”. Le prime comunità cristiane non brillano per santità, vi sono innumerevoli problemi, specie tra i cristiani di Corinto.

        Nonostante questo il vangelo si diffonde ad ogni creatura attraverso quegli uomini imperfetti. È Dio, infatti, che scrive dritto sulle nostre righe storte. E anche oggi la chiesa continua ad essere “in uscita”, nella carità materiale e nell’annunzio del vangelo.     

         Papa Francesco (Evangelii Gaudium 24) così afferma: “La Chiesa “in uscita” è la comunità di discepoli missionari che prendono l’iniziativa, che si coinvolgono, che accompagnano, che fruttificano e festeggiano. “Primerear – prendere l’iniziativa”: vogliate scusarmi per questo neologismo. La comunità evangelizzatrice sperimenta che il Signore ha preso l’iniziativa, l’ha preceduta nell’amore (cfr 1 Gv 4,10), e per questo essa sa fare il primo passo, sa prendere l’iniziativa senza paura, andare incontro, cercare i lontani e arrivare agli incroci delle strade per invitare gli esclusi. Vive un desiderio inesauribile di offrire misericordia, frutto dell’aver sperimentato l’infinita misericordia del Padre e la sua forza diffusiva. Osiamo un po’ di più di prendere l’iniziativa! Come conseguenza, la Chiesa sa “coinvolgersi”. Gesù ha lavato i piedi ai suoi discepoli”.

         La serata del 24 dicembre 2024, quando papa Francesco ha aperto la Porta Santa di San Pietro inaugurando il Giubileo del 2025, per essa passano dapprima i fedeli del popolo di Dio e solo dopo i cardinali. Si tratta di un segno profetico calato nel gesto liturgico, per il quale la missione della chiesa ministeriale è quella di servire il popolo di Dio. Tutti i cristiani, laici e sacerdoti ministeriali,  nel battesimo partecipano all’unico sacerdozio di Cristo, pertanto ogni battezzato ha il compito di servire gli uomini nell’annuncio del vangelo e nelle altre buone opere.

        Il giubileo, nelle varie religioni, è un periodo speciale ricorrente presieduto dal sovrano per ottenere benefici da parte delle divinità, che risale addirittura all’antico Egitto con la festa detta Heb-Sed. Nell’Egitto preistorico il re troppo vecchio viene ucciso perché incapace di reggere il Paese, quindi sorge l’esigenza di istituire la festa detta Heb-Sed, con lo scopo di ridare forza al monarca. Infatti il termine egiziano sed deriva dalla coda del toro, simbolo di potenza. Nell’ebraismo il giubileo è un anno speciale con lo scopo di ottenere da Dio il perdono dei peccati, così come avviene tuttora nel cristianesimo. Sin dal cristianesimo più remoto le opere buone placano l’ira di Dio nei confronti dei peccatori.

         Infatti è nel progetto di Dio, realizzato nella creazione, che gli uomini siano benevoli verso i loro simili. Lo Spirito Santo, ricevuto nel battesimo, semplicemente porta a perfezione ciò che è già insito nella natura umana. “La grazia non elimina la natura ma la porta a compimento, gratia non tollit naturam sed perficit” (San Tommaso d’Aquino, Scriptum super Sententiis  lib. 2, d. 9, q. 1, a. 8 arg. 3). È significativo che il passo di Osea 11, 4, che abbiamo testé richiamato, “li attiravo con legami di bontà” è una congettura, il testo masoretico ha letteralmente “con legami umani li attiravo”, be-ḥable ‘adam ‘emškem. La bontà usata da Dio verso il suo popolo è conforme al genuino senso di umanità. Dio si comporta come una tenera madre nei confronti di ogni uomo.   

        Le buone opere sono rimedi continui contro il male che imperversa nel mondo. Sin dalla creazione del mondo vi è sulla terra una lotta continua tra le forze del bene e le forze ostili a Dio e all’uomo. Il male è penetrato nel mondo per via di queste seconde entità, a causa di quel serpente di cui parla il libro della Genesi che tenta i progenitori, Adamo e Eva. Il male non fa parte del progetto di Dio, ma si è insinuato in questa dimensione perché gli uomini, liberi di scegliere tra bene e male, hanno dato retta al Nemico.

         Per questa ragione è stato necessario l’intervento nella storia nientemeno che del Figlio di Dio, il quale ci ha liberati dal potere delle tenebre. Ma Dio vuole la nostra collaborazione in questo progetto di salvezza per meritarla con le buone opere. Sant’Agostino dice che Dio, il quale ti ha creato senza di te, non può salvarti senza di te.

         È difficile fare le opere di Dio in quanto le forze del male sono tuttora operanti nel cuore dell’uomo e nel mondo. È il mistero della tentazione. San Paolo parla espressamente di Mistero di Iniquità (to mustērion tēs anomias, 2 Tessalonicesi 2, 7). Satana e i suoi angeli tentano l’uomo al male spingendolo a non meritare la salvezza gratuita che Dio dona a ogni uomo.

         Lo scopo ultimo di Satana è quello di essere adorato al posto di Dio. Egli in principio è stato l’angelo più potente ma talmente grande che ha avuto il desiderio di mettersi al posto di Dio. Per questo è stato punito e declassato al rango di diavolo. Angeli e uomini devono scegliere da che parte stare: quella del Ribelle o quella di Dio. Mentre gli angeli sono spiriti purissimi, senza un corpo, quindi possono scegliere in un istante (se essere a servizio di Satana oppure di Dio), l’uomo ha sì una natura spirituale ma calata in un corpo, pertanto la materia lo limita nella scelta, allora necessita di tutta una vita terrena per capire da che parte stare.

          Satana, intuendo questo, roso per di più dal desiderio di essere adorato dalle creature, con questo scopo blasfemo e superbo, offre agli uomini dei falsi beni con lo scopo di sedurli illudendoli. L’uomo desidera nel più profondo della sua anima nientemeno che Dio, adorare Dio e cantare il suo Nome per l’eternità. Allora Satana come fa a farsi adorare? Mediante le sue arti malefiche egli e gli angeli ribelli fanno credere agli uomini di aver bisogno di adorare le cose del mondo. Denaro, successo, sesso, cupidigia.

         I diavoli sono assai astuti nel nascondere agli uomini la fame di Dio suscitando in loro le fami di mondo. Ma l’unica cosa veramente necessaria è Cristo, tutto il resto è accessorio. I diavoli fanno invece credere che di Dio se ne possa fare a meno e che le cose necessarie siano quelle esteriori.

        Il tempo migliore è quello speso al cospetto di Dio. La vera fame è quella di Dio, la fame di cibo materiale è importante ma non indispensabile. Pertanto, come dicono i santi, nella Eucaristia, che è allo stesso tempo cibo materiale e spirituale, abbiamo il dono più grande che Dio ci fa nel nostro pellegrinaggio terreno. Salmo 110, 5: “Egli dà il cibo a chi lo teme, si ricorda sempre della sua alleanza”.

       In Osea 11, 4 la CEI traduce “ero per loro come chi solleva un bimbo (‘ul) alla sua guancia”, ma si tratta di una congettura, l’originale ebraico ha “ero per loro come chi solleva la museruola (‘ol) dalle loro mascelle”. Allora, secondo un’altra interpretazione, Dio si comporta con i suoi fedeli come un buon allevatore, che toglie all’animale la parte superiore della museruola per farlo mangiare. In Deuteronomio 25, 4 abbiamo: “Non metterai la museruola al bue, mentre sta trebbiando”. Nell’Antico Testamento Dio si definisce anche pastore per le sue pecore, in Ezechiele 34, 11-13 abbiamo: “Ecco, io stesso cercherò le mie pecore e ne avrò cura. Come un pastore passa in rassegna il suo gregge quando si trova in mezzo alle sue pecore che erano state disperse, così io passerò in rassegna le mie pecore e le radunerò da tutti i luoghi dove erano disperse nei giorni nuvolosi e di caligine. Le ritirerò dai popoli e le radunerò da tutte le regioni. Le ricondurrò nella loro terra e le farò pascolare sui monti d’Israele, nelle valli e in tutte le praterie della regione”.  

         Come fanno i diavoli a perpetrare questo inganno? Questo sovvertimento di valori? Essi inducono in errore gli uomini facendo preferire il pane materiale rispetto al pane spirituale. Il Vangelo di Filippo afferma che i diavoli cambiano nome alle cose. Innanzitutto essi riescono nell’intento mediante i falsi ragionamenti.

         Apriamo una parentesi erudita, ma che reputiamo molto istruttiva. Aristotele nei Topici presenta la sua dottrina riguardo il sillogismo dialettico, cioè il ragionamento mediante il quale il filosofo giunge alla verità. Il sillogismo dialettico si basa su una premessa che è costituita dagli endoxa. In greco antico gli endoxa sono le “opinioni autorevoli”. In un pregevole contributo Enrico Berti rileva come Aristotele nei Topici non dica nulla sulla natura epistemologica di questi endoxa, ma li considera lo stesso basilari nel corretto ragionamento. Ma nella Retorica (I 2, 1357 a 30-31) Aristotele usa la parola endoxa per dire che le premesse degli entimemi sono talvolta necessarie e talvolta valide per lo più (ōs epì to polù). Pertanto esistono endoxa sempre validi e endoxa solo probabili (cioè validi quasi sempre ma non sempre, quindi non necessari). Certamente per il sillogismo dialettico Aristotele si rifà al primo significato di endoxa (opinioni autorevoli necessarie), invece per gli entimemi (sillogismi retorici, falsi) gli endoxa possono essere anche non necessari, probabili, quindi fonte di errore, non idonei a raggiungere la verità, come invece accade con i sillogismi dialettici, che conducono alla verità.

         Secondo noi, se Aristotele utilizza un solo termine greco (endoxa) per indicare le premesse necessarie (vere) e quelle non necessarie (false), allora Aristotele vuole rimarcare in questo modo che esistono ragionamenti capziosi che sembrano veri ma non lo sono. Sono quelli della retorica. Pertanto è facile essere ingannati dai falsi ragionamenti!

        Diciamo:

  • Bere e ribere fa passare la sete;
  • Le sardine salate fanno bere e ribere;
  • Allora le sardine salate fanno passare la sete.

       Si tratta di un entimema, un discorso falso basato soprattutto su una premessa probabile e non necessaria: non sempre bere e ribere è un atto idoneo a far passare la sete, come quando – ed è questo il caso – l’atto sia provocato dal sale delle sardine e non dalla volontà di far passare la sete.

        Però, allo stesso modo, questo entimema è assai capzioso, dal punto di vista squisitamente logico. I diavoli usano ragionamenti simili – capziosi ma falsi, simili al vero ma totalmente inutili – per ingannare le persone con le tentazioni.  Insinuano dubbi e falsi desideri che sembrano ragionevoli, ma solo all’apparenza. 

        Per sapere la giusta strada da percorrere bisogna “meditare”, verbo che in greco è detto sumballein. Il verbo sumballein significa di per sé “congiungere”. Pertanto per capire la volontà di Dio occorre congiungere la nostra anima con Dio. Allora è necessaria quanto mai la preghiera! È mediante la preghiera che ci avviciniamo a Dio. 

         È difficile, ripetiamo, ascoltare la nostra anima che ci dice di adorare solo Dio, placando le voci interiori dei nemici. Pertanto è necessario uno sforzo continuo: i seduttori sono implacabili. Confessarsi una volta al mese, partecipare alla Santa Messa almeno la domenica, fare la comunione almeno la domenica, fare vita di preghiera personale, leggere la Parola di Dio, ascoltare il Papa.    

         Isaia dice che Dio è nascosto, e questo rende il combattimento spirituale per la nostra salvezza ancora più ostico. In Esodo 32 Dio non si manifesta al popolo ma soltanto a Mosè, il quale inoltre tarda a scendere dal monte, quindi facilmente gli israeliti perdono fiducia:

“1 Il popolo, vedendo che Mosè tardava a scendere dalla montagna, si affollò intorno ad Aronne e gli disse: «Facci un dio che cammini alla nostra testa, perché a quel Mosè, l’uomo che ci ha fatti uscire dal paese d’Egitto, non sappiamo che cosa sia accaduto». 2 Aronne rispose loro: «Togliete i pendenti d’oro che hanno agli orecchi le vostre mogli e le vostre figlie e portateli a me». 3 Tutto il popolo tolse i pendenti che ciascuno aveva agli orecchi e li portò ad Aronne. 4 Egli li ricevette dalle loro mani e li fece fondere in una forma e ne ottenne un vitello di metallo fuso. Allora dissero: «Ecco il tuo Dio, o Israele, colui che ti ha fatto uscire dal paese d’Egitto!». 5 Ciò vedendo, Aronne costruì un altare davanti al vitello e proclamò: «Domani sarà festa in onore del Signore». 6 Il giorno dopo si alzarono presto, offrirono olocausti e presentarono sacrifici di comunione. Il popolo sedette per mangiare e bere, poi si alzò per darsi al divertimento.

7 Allora il Signore disse a Mosè: «Va’, scendi, perché il tuo popolo, che tu hai fatto uscire dal paese d’Egitto, si è pervertito. 8 Non hanno tardato ad allontanarsi dalla via che io avevo loro indicata! Si son fatti un vitello di metallo fuso, poi gli si sono prostrati dinanzi, gli hanno offerto sacrifici e hanno detto: Ecco il tuo Dio, Israele; colui che ti ha fatto uscire dal paese di Egitto»”.

         La traduzione “si affollò intorno” non rende ragione dell’originale ebraico, in quanto il verbo qhl’al indica scontro. Infatti in Numeri 16, 3 abbiamo: “Radunatisi (wayyiqqahalu) contro Mosè e contro Aronne, dissero loro: «Basta! Tutta la comunità, tutti sono santi e il Signore è in mezzo a loro; perché dunque vi innalzate sopra l’assemblea del Signore?»”. Quindi l’originale ebraico suppone una ribellione del popolo contro le sue guide. È facile perdere la speranza quando abbiamo un Dio nascosto e i capi si comportano come non vogliamo.

         Significativo anche il v. 4: “li fece fondere in una forma”, dove il verbo wayyaṣar deriva da yaṣar, “formare, plasmare”, che in Isaia 44, 9 è adoperato per indicare la costruzione di un idolo. È facile trasformare l’oro, che Dio ci dona affinché lo usiamo a suo servizio, in un idolo, che erigiamo al posto di Dio. Si tratta della tentazione di sempre, mettere i doni di Dio al posto di Dio stesso. Il peccato è aversio a Deo et conversio ad creaturas, allontanamento da Dio e conversione alle creature: pertanto le cose create sono utili ma non vanno mai anteposte a Dio. 

         Il piacere è un dono di Dio, che serve a rallegrare la vita, ma non va mai posto contro la legge del Signore. Al v. 6 “si alzò per fare baldoria” è nell’originale ebraico saḥaq, dai molti significati, tra cui quello della attività sessuale. Quando Sara vede Ismaele “far baldoria” (Genesi 21, 9), teme la perdita della eredità, facendo pensare che il verbo ebraico veicoli una idea di sessualità. La sessualità è voluta da Dio ed è anche benedetta, in quanto il matrimonio è un sacramento officiato dalla chiesa e Maria viene invocata come Regina della Famiglia. Ma il sesso diventa un peccato quando si oppone alla legge di Dio.    

         Tutte le cose create da Dio – ogni bene e ogni piacere – non hanno uno scopo proprio bensì uno scopo relazionale, insomma sono pensate solo se subordinate al vero bene dell’uomo, che è la legge di Dio. Solo Dio è sapiente e l’uomo non può competere con Dio. Isaia 55, 8: “I miei pensieri non sono i vostri pensieri, le vostre vie non sono le mie vie”. Da sempre la sapienza è prerogativa di Dio. Nella formula 273.6 dei Testi delle Piramidi (incisi sulle pareti interne delle grandi costruzioni egiziane, sono i più antichi testi religiosi dei quali si serba memoria) è scritto riguardo al re, considerato dagli egiziani una divinità: NN pj nb zAbwt, “il re (NN) è signore della sapienza”. Si tratta di una proposizione nominale, ma in prima posizione non vi è il predicato nominale bensì il nome del re, la parte più importante dell’enunciato (come spesso accade in antico egiziano). Pj è la forma antica egiziana per il pw del medio egiziano, la fase classica della lingua. Nb ha anche il valore di prefissoide, che si traduce con “dotato di”, quindi si potrebbe tradurre anche: “il re è dotato di sapienza”, “il re è sapiente”. Anche in arabo e ebraico, dove però il prefisso è rab-, “dotato di” (rabbino significa “signore”). 

        Stesso discorso si può fare per ogni altro aspetto della legge di Dio. Dio ha stabilito dei riti, che gli uomini sono chiamati a officiare per il loro bene. È la sapienza di Dio che ha deciso tutto questo a vantaggio dell’uomo, quindi questi non deve farsi tante spiegazioni. Il termine latino ritus ha la radice in comune con il sanscrito vedico ṛta, l’ordine cosmico, che contempla ogni aspetto della creazione. Nel mondo biblico l’anima di una persona è anche il suo corpo: per questa ragione la religione biblica contempla preghiere fatte anche con il corpo, come alzando le braccia. I riti cristiani hanno tale scaturigine.  

         Si va a Messa per seguire la prescrizione divina espressa dalla chiesa. Partecipare alla Messa equivale a comunicare alla fonte e al culmine di tutta la vita cristiana: l’Eucaristia serba la presenza vera e reale del corpo, del sangue, dell’anima e della divinità di Nostro Signore Gesù Cristo, quindi essa è la fonte di tutte le grazie che provengono al mondo intero.

          Dopo la Santa Messa, la preghiera più importante è quella del Rosario alla Beata Vergine Maria. San Pio da Pietralcina la chiama l’Arma contro gli assalti del Nemico.

        La Madonna viene invocata quale Vergine Potente contro il Male. Soprattutto Maria è la Mediatrice attraverso la quale passano tutte le grazie che il buon Dio riversa quotidianamente sull’umanità.

           La Santa Vergine viene così pregata da Efrem il Siro, 306-373:

“O fontana di bontà, avvocata dei peccatori,

porto dei naufraghi, vita di tutti,

non scacciarmi da te perché peccatore,

ma anzi, perché tale,

ascolta e consola la mia preghiera.

Tu sei veramente purissima, o Madre di Dio!

Conciliami la benevolenza del Divino Giudice.

Io ho peccato, e il mio peccato

mi sta sempre dinanzi agli occhi.

Sfolgora sulla tenebrosa e sordida mia mente

il lume supremo.

Sperdi la nebbia dei miei torbidi pensieri,

affinché, ravvivato dalla serena e

tranquilla luce del tuo sguardo,

io possa offrirmi vittima accettevole

al tuo Figliolo e mio Dio,

venuto al mondo per chiamare i peccatori a penitenza.

Accogli la mia umile preghiera e fammi salvo!

Mostra in me, che sono il più miserabile,

quanto grandi siano le tue misericordie,

o speranza mia, o Madre del mio Signore!

Rendimi benevolo il tuo Figlio e mio Giudice,

o tu che sei l’asilo dei peccatori pentiti”.