1. Le novità delle Operette morali
Le Operette morali di Giacomo Leopardi sono un libro di filosofia che alla filosofia introduce. Non per nulla l’opera ha un suo corrispettivo nella kantiana Critica della ragion pratica che segna nel pensiero europeo una svolta epocale. Mi riferisco all’abbandono del teoreticismo e alla rivalutazione della prassi. Per Leopardi non sono importanti i bei ragionamenti, quanto piuttosto la serietà nell’impegnarsi a portare a compimento un’impresa. Nicolò Copernico, Cristoforo Colombo e Giuseppe Parini, attori di vicende ricostruite nelle Operette, sono per lui meritatamente grandi. Di qui il dialogo leopardiano che è assai tipicamente agito, cioè teatrale, come il Copernico. Il dialogo leopardiano ha di caratteristico che i personaggi, che siano l’Islandese e la Natura, ovvero folletti e gnomi, o ancora filosofi come Plotino e Porfirio, si pongono in discussione, non fanno lezione, son fatti rivivere nella loro più umana dimensione, alle prese con problemi esistenziali. Si leggano le Dissertazioni filosofiche del giovanissimo Leopardi e si comprenderà come lo Zibaldone segni il passaggio dall’esercizio accademico compiuto sotto la guida di un maestro a un riflettere vivo, sincero, appassionato della autenticità dell’uomo. I personaggi delle Operette non hanno studiato a tavolino prendendo appunti su quel che dovessero dire, avanzando tesi precostituite. Per meglio dire la finzione letteraria c’è, ma ai personaggi si dà spontaneità e perciò carattere. Sono morti e rivivono. Leopardi fa rivivere perfino Stratone di Lampsaco, un filosofo morto e sepolto con la sua stessa opera del quale si sa poco e nulla, a dispetto del fatto che se ne sia conservata la fama. Inoltre i suoi personaggi dibattono problemi che riguardano l’umanità, la sua storia, nello sfondo della questione circa gli Antichi e i Moderni lasciata cadere in fretta nel nome della tradizione, a cui guardava allora il romanticismo.
La nuova cultura che tutto ammanta di letteratura crea una narrazione che non aiuta a capire quel che invece la questione del rapporto Antichi e Moderni aveva agitato: Dove siamo, a che punto del percorso storico ci troviamo? Domanda che accomuna ancora una volta Leopardi a Kant, il quale non ha una filosofia della storia da proporre, ma comincia a guardare alla storia non più come historia rerum gestarum ma come storia vera dell’umanità vera.
2. Leopardi come Kant?
Già Kant, nato nel 1725 nel pieno dell’antico regime, aveva tuttavia riconosciuto che l’uomo ha i suoi affanni che gravano sul filosofo e vuol sapere di dio, del cosmo e della sua anima su cui un’ipotizzabile ragion pura è tuttavia incapace di dire qualcosa di definitivo. Serpeggia in tutta la Critica della ragion pura l’ansia di voler sapere, dove la volontà di venire a capo di certi problemi si scontra con la constatazione che le capacità dell’intelletto umano sono limitate, fatto certo e tuttavia non definibile, perché non è possibile varcare certe soglie. Lo dichiara serenamente lui stesso nella prefazione alla prima edizione della Critica della ragion pura, dove dice:
La ragione umana, in una specie delle sue conoscenze, ha il destino particolare di essere tormentata da problemi che non può evitare, perché le son posti dalla natura della stessa ragione, ma dei quali non può trovare la soluzione, perché oltrepassano ogni potere della ragione umana.
In tale imbarazzo cade senza sua colpa. Comincia con principi, l’uso dei quali nel corso dell’esperienza e inevitabile, ed e insieme sufficientemente verificato da essa. Con essi (come comporta la sua stessa natura) la ragione sale sempre più alto, a condizioni sempre più remote. Ma, accorgendosi che in tal modo il suo lavoro deve rimanere sempre incompiuto, perché i problemi non cessano mai d’incalzarla, si vede costretta a ricorrere a principi, che oltrepassano ogni possibile uso empirico…
Si noti il tono sincero per cui, nonostante si metta il dito sulla piaga, non si compromette la serenità delle affermazioni, lucide e chiare. Il finale della Critica della ragion pura è drammatico, non meno dei romanzi di Dostoevskij. Dietro questo “voler sapere”, questo interrogarsi, c’è qualcosa che noi oggi chiameremmo un problema esistenziale che chiede d’essere risolto. E, a differenza di Raskolnikov, Kant propone una soluzione. Egli ci dice che le idee di dio, di cosmo e di anima ci sono necessarie a gestire la vita nel rapporto con i nostri simili. Per dirla in termini più brutali, esse ci servono. E Kant, a questo punto, finisce col dare ragione ad Aristotele che aveva definito l’uomo politikòs cioè essere civile, sociale che è quanto dire leopardianamente “incivilito”.
Può senz’altro dirsi peraltro che esista una leopardiana Critica della ragion pura e la si può individuare nello Zibaldone. La scelta però di non pubblicare quell’opera, con cui Leopardi giunse alla conclusione che filosofia e apologetica religiosa non possono più camminare a braccetto, come per Kant scienza e metafisica, ha nei fatti legittimato la natura più letteraria che non filosofica dell’opera di Giacomo Leopardi. Oggi, anche per il modo in cui il pensiero di Leopardi è stato divulgato, l’interesse del poeta per le questioni filosofiche può apparire marginale e poco originale. Per me è vero invece il contrario.
3. Il punto di vista di Leopardi
Come mi sforzerò di dimostrare, Leopardi si colloca, per ragioni storiche, su una linea che lo pone in parallelo ai filosofi hegeliani (e antihegeliani), come Feuerbach, Marx, Schopenhauer e Kierkegaard, riconosciuti quantomeno come promotori di quella svolta che ha dato vita alla filosofia del sospetto. Può dirsi tuttavia che tanto lui quanto Kant antivedessero chi fosse Adamo, come nel tempo si sarebbe scoperto, a cominciare da Kierkegaard in poi. Non il primo uomo nel senso zoologico, ma semmai biologico, usando i termini nel significato originario della lingua greca antica, per cui c’è differenza tra zoè e bìos. Adamo non è il primo uomo a sopravvivere come esemplare di una specie diversa. È piuttosto il primo a soffrire perché è consapevole d’essere un uomo civilizzato. È probabilmente il primo patriarca che viva con angoscia le terribili responsabilità di un potere di fronte al quale ha momenti di smarrimento fino al panico. E si colloca dopo la mitica età dell’oro. Volendo rifarsi a letture care a Leopardi, Adamo è il prototipo del “capo”, del “monarca”, come apparve a Vittorio Alfieri: o è despota o è eroe e, in quest’ultimo caso, ha come antieroe dio in persona che finisce col sovrastarlo. E a questo punto Leopardi concluderà che la sua epoca non è più un’epoca in cui si possa più aspirare alla gloria, semmai agisce su alcuni un certo senso dell’onore. Ma non sono la stessa cosa.
Insomma si può concludere che Kant e Leopardi fossero entrambi antesignani di quella che oggi è l’antropologia filosofica, dalla cui pianta nasceranno le scienze sociali e l’antropologia culturale in particolare. Scienze che oggi consentono di indagare nel passato dell’uomo analizzando i traumi culturali che ne hanno segnato la storia. Per quanto riguarda Leopardi sono le Operette morali a testimoniarlo, ma anche il Saggio sopra gli errori degli Antichi, secondo un’indicazione che ci viene da Luigi Lombardi Satriani che teneva in gran conto quest’opera leopardiana. Per quanto riguarda Kant, ci sono pagine in questo senso illuminanti della sua Antropologia dal punto di vista pragmatico, “resuscitata” dall’attenzione che vi ha dedicato Michel Foucault. Preziose a riguardo sono le riflessioni di Kant sull’immaginazione e il suo potere sull’uomo. L’uomo è infatti per Kant fortemente condizionato da quanto la sua mente partorisce. Facilmente si entificano i simboli e una bandiera si confonde per quel che rappresenta, ovvero si attribuisce a certi numeri un carattere tra il sacro e il magico per pure suggestioni spesso avallate dalle religioni per cui il tre, il sette e il dodici sono numeri da tanti ritenuti “particolari”.
Si dirà: ma Leopardi non è poeta più che non filosofo? Qui un altro equivoco. Non sta scritto da nessuna parte che un filosofo debba, per esser tale, scrivere trattati. Si esprime utilizzando il linguaggio che sente essere più efficace. Filosofo dell’io, l’io di Leopardi è più spersonalizzato e assai meno lirico di quanto appaia. È più scarno ancora dell’Io penso kantiano. Non a caso nel perdersi gioisce, perché, in quel perdersi, si scopre finalmente vivo. È nudo ed è questa sua nudità a consentirgli di confidare a chi lo legge che “il naufragar m’è dolce in questo mare”. Compiaciuta espressione, che nella trattatistica filosofica si cercherebbe invano. Si pensi a Husserl che nel suo vestibolo si spoglia, restando però con tanto di camicia addosso che è poi la famosa “coscienza di”, dove quel “di” sembra una foglia di fico che rivela quanto la decenza e il decoro siano obbligo nel relazionarsi agli altri. Leopardi abbatte l’orizzonte e trova la beata in-coscienza. Il mare nel quale felicemente naufraga è quello del pensiero, un mare tutto da scoprire, annegandoci dentro. Prima infatti quel che si cercava erano le regole, i paletti, i limiti del pensabile, del concepibile. Le regole? Me le do io! Ed ecco la canzone leopardiana, studiata su misura per le esigenze del suo modo di esprimersi. Ne nasceranno dei capolavori. Il canto notturno di un pastore errante dell’Asia dove, a somiglianza di quanto aveva fatto Alexander Pope nel suo Essay on man (letto da Leopardi a undici anni e forse perfino tradotto) le domande si sommano alle domande perché la filosofia non dà risposte, come pure per tanti filosofi s’è per lungo tempo ancora preteso che fosse. Oggi il filosofo non sa che cosa sia la verità. È bravo se riesce a mettere a fuoco qualche menzogna. E se, nel bellissimo canto A Silvia, che è un’operetta morale in versi, Leopardi – sull’esempio di Giordano Bruno, di Ludovico Antonio Muratori e, se non mi sbaglio, di Lucrezio – chiama matrigna la Natura, poi nel Dialogo della Natura e di un Islandese, deve riconoscere che la Natura non ha alcun obbligo nei confronti dell’uomo. E che dire della Ginestra? E dei Nuovi credenti? Sono solo poesie? Non c’è la volontà di uscire dalla caverna di platonica memoria, dove il respiro è strozzato dagli arredi consunti del fuoco e delle ombre che si riflettono sulla parete a cui lo sguardo si rivolge con l’obbediente sguardo dello schiavo che è fisso ad accogliere la volontà del padrone?
Anche qui torna Kant il quale si pone il problema di quali siano i limiti e le possibilità dell’intelletto umano. E se sui presunti limiti, si è calcata la voce, più del necessario, il kantiano ortodosso che legge la Critica della ragion pura come un severo trattato academico e non come un’appassionata ricerca di cui rendere partecipe il lettore, ha poi sottovalutato la commedia delle possibilità che si offrono all’intelletto umano. Una commedia che quanto più si disconosce, tanto più si volge in tragedia.
4. Il Dialogo di un Venditore d’almanacchi e un Passeggere
Tornando alle Operette, quella che mi pare sia la più massacrata dalla critica è il Dialogo di un Venditore d’Almanacchi e di un Passeggere della quale mi interesso ormai da anni.
Si tratta veramente di un dialogo che è agito, che ha una dimensione teatrale, come tanti altri di Leopardi. Si pensi al delizioso Dialogo della Moda e della Morte o al Copernico che è un vero capolavoro.
Non occorre un grande sforzo di fantasia per domandarsi se per caso il Passeggere ha qualche dubbio circa l’utilità di vendere almanacchi. Nuovi per quanto, gli almanacchi sono sempre vecchi. Le informazioni che contengono non sono diverse da quelle dell’almanacco stampato per l’anno precedente. Le stagioni son quelle, i mesi pure, c’è la questione dell’anno bisestile che tutti conosciamo. Le ricorrenze sono sempre nelle medesime date e ci si potrebbe aggiustare col calendario di qualche anno prima perfino per quanto riguarda l’avvicendarsi delle settimane. È proprio alla luce di questa taciuta considerazione che il Passeggere invita il Venditore di almanacchi a dire quale differenza promette d’avere il nuovo anno rispetto a quello vecchio. E il Venditore, che sull’affare della vendita ci campa, avrà la modestia di ammettere che effettivamente è difficile dire che l’anno nuovo sarà più bello e felice dell’anno vecchio. Le feste comandate sono sempre quelle e, per chi come Leopardi conosca l’astronomia, non è certo un problema calcolare il giorno in cui cadrà il mercoledì delle ceneri o la domenica di Pasqua nell’anno nuovo.
Considerando che il dialogo in questione fu scritto dopo che la prima edizione delle Operette non aveva avuto il successo che l’autore sperava, è chiaro che Leopardi lamenta invece il successo degli almanacchi che si vendono perfino agli angoli della via. A parte l’astronomia, l’almanacco dava informazioni sulla casa reale, ducale o granducale regnante nel luogo in cui si stampava. Spesso conteneva anche i nomi di quanti lavorassero nel mondo dorato della corte, con tanto di titolo che a ciascuno competesse. A stuzzicare la vanità degli uomini si vince sempre!
Ma, a parte questo, c’è la funzione che da secoli svolge il calendario. C’è la gioia fuggevole del sabato, la tristezza e la noia della domenica e l’angoscia del lunedì quando, fin dalla domenica, al travaglio usato / ciascuno in suo pensier farà ritorno. Ci sono gli obblighi a cui la vita consociata ci costringe.
5. I panni poco fini della filosofia
Verrebbe veramente da domandarsi se il calendario non sia la prima rudimentale ma funzionale intelligenza artificiale capace di condurre l’uomo a ritenere vera e veritiera quella che in fondo è solo una costruzione. È il calendario ad aver stabilito che il sole sorge e tramonta, che la giornata è fatta di ventiquattr’ore, che dobbiamo lavorare, fare una pausa e quindi tornare allo sgobbo per poi fare rientro a casa. È stato il calendario il primo a dirci che cosa è normale e che cosa no. È normale il ciclo delle stagioni, è normale che, dopo il solstizio d’inverno, le giornate comincino piano piano a farsi più lunghe… La verità pura e semplice è che è normale tutto quello che accade, perché se non lo fosse, semplicemente non accadrebbe. Ma questo il calendario non ce lo dice. Esercita il suo imperio sulle nostre coscienze con estrema disinvoltura, costituendo un primo abbozzo della Legge. Il punto è che parli di ciò che è normale e sbuca fuori l’anormale. La luce e il buio, dove il buio è solo assenza di luce. Tanto di cappello al talento poetico di chi per primo s’è inventato la parola inquietante e tenebrosa. Cose a cui Leopardi presta molta attenzione. Infatti sa che la negazione ha una forza evocativa che la sciocca implorazione non possiede e non possiederà mai. In questo senso aveva ragione Luigi Blasucci a dire che è sempre valida l’osservazione del De Sanctis nel suo saggio su Schopenhauer e Leopardi: “Leopardi produce l’effetto contrario a quello che si propone […] Chiama illusioni l’amore, la gloria, la virtù e te ne accende in petto un desiderio inesausto”.
Solo – precisava giustamente Blasucci – bisogna aggiungere che è proprio questo l’effetto che Leopardi si propone” ( L. Blasucci, Le ragioni storiche della satira leopardiana, in R. Ceserani – L. De Federicis, Il materiale e l’immaginario. Manuale e laboratorio di letteratura, vol. IV, Società e cultura della borghesia in ascesa, Loescher, Torino 1993, p. 1162).
Detto secondo me benissimo. È infatti nel mondo presente che si rende necessario allo scrittore riscattare la propria credibilità e, per bocca di Parini, protagonista dell’omonima operetta leopardiana, “si delinea – scrive Gino Tellini – un’acutissima diagnosi sulla sorte della letteratura nella moderna civiltà di massa, che con i suoi meccanismi produttivi manipola e sovverte i valori più autentici.” (G. Tellini, Leopardi , Salerno Editrice, Roma 2001 p. 151). Allusione evidente, a mio modo di vedere, di una divulgazione che, per spiegare le cose, si appella all’ovvietà dei giudizi correnti. In tal modo però il divulgatore rinuncia al compito fondamentale di stuzzicare l’intelligenza e la curiosità del lettore ai temi che propone, arrivando magari a usare un linguaggio proprio, a tratti tecnico, della materia che affronta. Solo così sarà onesto nell’affrontare il suo compito che è quello di suscitare interesse nel lettore che deve poi andare a informarsi su altra fonte circa quel che il divulgatore illustra sommariamente.
6. Concludendo
Ma c’è molto di più, per poco che si voglia fare lo sforzo di domandarsi quanto attuali possano essere queste considerazioni. Oggi un calendario o un’agenda continuano ad essere regalati, mentre i libri di filosofia restano negli scaffali delle librerie, dove sempre più spesso passano come meteore, per esser poi destinati al macero.
Eppure si sarebbe potuto fare, per gusto se non per amore di modernità, lo sforzo di dar conto al fruitore del calendario e delle agende circa i progressi compiuti negli ultimi secoli nel campo dell’astronomia. Sono tanti a pensare che l’alternanza delle stagioni dipenda dal fatto che l’orbita terreste sia ellittica e che, trovandosi il Sole in uno dei “fuochi” dell’ellisse, la maggiore lontananza o vicinanza alla stella spieghi le variazioni di temperatura sulla superficie della Terra. È una balla! Lo dimostra il fatto che le stagioni si alternino nei due emisferi terrestri. Sicché è il diverso incidere dei raggi solari a fare la stagione dell’anno. È estate nell’emisfero australe quando è inverno in quello boreale. Sono nozioni elementari, come lo è il moto di precessione dell’asse terrestre. Un po’ più complicata è l’esperimento del pendolo di Foucault con cui si dimostra il movimento di rotazione della Terra attorno al proprio asse. Ma che su un calendario o un almanacco si accenni alla cosa tanto per dare un’informazione non guasterebbe. Non guasterebbe un cenno sulla teoria di Kant – Laplace circa la formazione delle nebulose, quando è ancora diffusa nella coscienza collettiva l’idea di una “volta celeste”.
Mi domando infine perché un calendario delle feste civili e delle ricorrenze storiche dell’Italia nata dal cosiddetto risorgimento, e rinata con la Liberazione, non sia riuscito a togliere di mezzo i vecchi calendari dove si annota, tanto per fare un esempio, la presentazione al tempio di Gesù, fatto che dobbiamo pensare sia pure accaduto ma di cui non conosciamo la data certa che tuttavia tanti calendari indicano diligentemente, calcolandola probabilmente dal giorno di Natale, festa la cui origine pagana è ormai accertata e che solo convenzionalmente è adottata quale momento della nascita di Gesù di Nazareth. In fondo è vero che con Gesù il mondo rinasce, torna la luce e la festa del Sole invitto è la più adatta ad alludere a una svolta storica dell’Occidente diventato nei secoli cristiano.
Nei calendari, che siano quelli profumati, con figurine osée, che quando ero ragazzino regalavano le barberie, o quelli in carta lucida dei supermercati e delle farmacie rionali, non c’è nulla per dire che l’Assemblea Nazionale Costituente si riunì per la prima volta in data 25 giugno 1946; nulla circa l’insediamento della prima Camera e del primo Senato in età repubblicana; nulla circa l’elezione del primo Presidente della Repubblica italiana; nulla che ricordi, oltre i santi, anche i campioni del pensiero democratico o la sottoscrizione di accordi internazionali che abbiano mirato al progresso civile e culturale dei popoli. Della vita delle Istituzioni i calendari, che oggi ci vengono graziosamente regalati, non danno alcuna traccia. I nostri studenti ignorano che cosa sia stata la legge Coppino e circa la tassa sul macinato ritengono si tratti di una tassa sulle polpette, infine scambiano la Destra Storica col Fascismo e sostengono che Giolitti fosse socialista. In compenso non mancano sui moderni almanacchi i proverbi e le ricette. Ed è perfino possibile trovarvi i “rimedi” della Nonna.
Mi domando se ancora oggi il calendario non riveli l’affezione del popolo italiano all’antico regime. Assai coerentemente a tutto questo la tv di Stato ci dice che tempo farà domani, ci ricorda quando si corre il Palio di Siena, quando la finalmente regina Camilla ha il raffreddore, quando ci sarà il concerto di Al Bano, quando inizierà l’attesissimo Festival di San Remo e ci sarà la notte dei premi Oscar. Questo il contesto culturale vero nel quale il calendario, moderno almanacco dei tempi d’oggi, continua ad avere un senso.
Il calendario, la tv e i social “aiutano” a pensare senza fatica perché pensare con la propria testa è pericoloso. Si potrebbe anche sbagliare. Meglio obbedire restando nel solco della tradizione, per cui c’è sempre chi ne sa più di noi, a cominciare dall’anonimo inventore del calendario che scandisce per noi, con una logica da Leviatano, i tempi della nostra vita, rivelandoci quando dobbiamo lavorare e quando è finalmente lecito riposarsi, celebrando la grandezza di un universo di cui peraltro sappiamo ancora oggi poco o nulla.
Da Giordano Bruno a Giulio Giorello, passando per Leopardi, un po’ tutta la filosofia italiana si rivolta nella tomba. Ma pazienza! In Italia il desiderio di sapere è un amore rigorosamente socratico. Non per niente è figlio della povertà e dell’arte dell’arrangiarsi.