Nel tardo pomeriggio di domenica 10 agosto 1975, appena rientrato da Bardonecchia e accingendomi a recarmi a cena con una dolce amica anche lei cittadina, mi stavo rilassando pigramente in ammollo nell’acqua tiepida del bagno quando la radiolina portatile (ben lontana dall’acqua), che mi offriva ottima musica inframmezzata da relative notizie e informazioni, annunciò la morte di Dmitrij Dmitrevič Šostakovič avvenuta il giorno precedente a Mosca per un ennesimo infarto cardiaco. Rimasi assai spiacente per la perdita, a soli sessantanove anni (era nato a San Pietroburgo il 25 settembre del 1906), di un compositore a me sostanzialmente gradito; ma anche pensieroso all’idea che con lui finiva, o doveva comunque finire, un’epoca caratterizzata da una configurazione del rapporto arte-politica (o, se si vuole, cultura-politica) che è auspicabile non si realizzi  più nel mondo civile, vale a dire in base al quale l’artista, rischiando perfino la vita, deva obbedire alle direttive del Potere o tutt’al più, rischiando ugualmente, possa cercare di venirne a patti camuffando con abilità e scaltrezza i propri sentimenti e la propria espressività. Così come fu per il povero Dmitrij. Ma era davvero fondata la mia speranza? Non si può mai dare risposte definitive, in questo campo.

            Dei tre più eminenti compositori russi del Novecento, Stravinsky è colui che all’avvento della Rivoluzione optò decisamente per la residenza in Occidente (come Rachmaninov, Grečaninov e, più tardi, Glazunov); Prokof’ev quello che, senza rinnegare gli originari valori innovativi e vitalistici della Rivoluzione stessa, sentì la necessità culturale e spirituale di un lungo soggiorno in America e in Europa (dal 1918 al 1932) per far poi ritorno definitivamente (e incautamente) in patria; Šostakovič – il più giovane dei tre – fu l’unico a svolgere la propria attività interamente in àmbito sovietico, attraversando non senza fasi a dir poco drammatiche e perigliose tutte le tappe in cui si è articolato il regime comunista, cioè la terrificante èra staliniana, il “disgelo” di Chruščëv e la brutale restaurazione brežneviana.

            Differenti sono state, sia in Unione Sovietica sia in Occidente, le valutazioni etico-politiche (oltre che artistiche) sulla figura e sull’opera di Šostakovič: c’è chi lo ha giudicato un fervido e zelante patriota intensamente impegnato, con i mezzi a lui consoni, nell’edificazione del socialismo, non senza cedimenti alle lusinghe e agli allettamenti del “formalismo” e del “decadentismo” borghesi; c’e chi lo ha visto come un opportunista servo del Potere, sempre pronto a sottomersi alle direttive del padrone di turno; chi lo ha in parte giustificato con la necessità di salvare la pelle; chi, più generosamente, lo ha considerato come colui che, insieme con la pelle, ha cercato di salvare il salvabile nel campo dei valori umani fondamentali, etici e artistici, esprimendoli nella sua musica travestiti e contrabbandati ma pur sempre riconoscibili, tanto è vero che più volte, a cominciare dal 1936, egli non poté evitare i fulmini delle più aspre e dure censure, in apparenza artistiche nella sostanza ideologiche e politiche. Infatti, sulla «Pravda» del gennaio ’36 comparve un feroce articolo «Caos anziché musica» – evidentemente ispirato dall’alto – che stroncava il capolavoro operistico di Šostakovič, Una Lady Macbeth del distretto di Mtsensk, composto nel 1930-32 e dal ’34 rappresentato con strepitoso successo nei teatri sovietici, in molte capitali europee (Londra, Praga, Copenaghen) e a Cleveland negli Stati Uniti. Tale fu il raccapriccio del Maestro che, interrompendo prudentemente le prove della sua Quarta Sinfonia (1935-36), capolavoro di linguaggio musicale straordinariamente ardito e complesso (ebbe la prima esecuzione nel 1961!), si affrettò a comporre la Quinta, di conio più “tradizionale” e presentata in prima esecuzione nel ’37 con fulmineo e immenso plauso mondiale: definita dal suo autore con proclamata compunzione «risposta  a una giusta critica»,  la Sinfonia, carica di un infinto trionfalismo ottimistico e roboante, è in realtà un poderoso sberleffo ironico e beffardo nei confronti del burocraticismo ufficiale che sembrò non accorgersene. In séguito, nel 1948, Šostakovič, insieme con altri musicisti tra cui Prokof’ev e Chačaturjan, fu violentemente attaccato per “formalismo” dalla Lega dei compositori sovietici e in particolare dal famigerato Andrej Ždanov che bollò le sue opere come « perverse, formalistiche e antipopolari».

            Quando, dopo la morte di Stalin nel 1953, il compositore poté esprimersi con agio e libertà relativamente maggiori e il riconoscimento della sua statura artistica crebbe ormai incontrastato in patria e all’estero, egli fu propenso, senza mai rinnegare la sua convinta adesione al comunismo umanisticamente inteso, a sottolineare non tanto un suo presunto atteggiamento di resistenza passiva all’interno del mondo e del sistema sovietici (che in ogni caso non lo avrebbero tollerato), ma il fatto di avere cercato di non tradire mai l’autenticità e la purezza delle proprie convinzioni e della propria ispirazione, semmai sforzandosi – non per opportunismo, ma per suo intimo sentimento di cittadino e di artista – di farle coincidere con i principi ufficialmente e burocraticamente proclamati dalle autorità del suo Paese[1].

            Le diverse valutazioni del “caso S.” non devono comunque oscurare la grandiosa importanza del lavoro del musicista pietroburghese, anche se quello, a partire come si è visto dalla metà degli anni Trenta, con la sua robusta rilevanza si attuò necessariamente al di fuori dei canoni estetici e creativi caratteristici del Novecento musicale occidentale più avanzato, nelle sue varie esperienze ed estrinsecazioni[2].

            La copiosa produzione di S. comprende quattro opere teatrali, un’operetta, otto musiche di scena, tre balletti, tre riviste, trentasei musiche per film, quindici sinfonie (tra cui emergono a nostro parere, o a nostro gusto: la Quarta, 1935-36; l’Ottava, 1943; la Decima, 1953; l’Undicesima, 1957; la Quattordicesima, 1969; la Quindicesima, 1971[3]), molte composizioni per orchestra (anche d’occasione e di propaganda), due Concerti per pianoforte e orchestra, due Concerti per violino e orchestra, due Concerti per violoncello e orchestra, composizioni corali con orchestra o per coro a cappella, musica da camera (tra cui quindici Quartetti per archi, alcuni dei quali capolavori assoluti, e due Trii per pianoforte, violino e violoncello, il secondo un capolavoro), composizioni per pianoforte (tra cui spiccano i Ventiquattro Preludi, 1932-33), liriche per voce e pianoforte o voce e strumenti, e altro ancora.

            Non è senza un profondo ed eloquente significato che le pagine dove l’arte di Šostakovič raggiunge i vertici più elevati e talora sublimi siano quelle, ascrivibili ai più diversi generi musicali,  in cui assiduamente si evince un senso angosciato e invincibile di lancinante dolore, di immedicabile lacerazione, di tesa e sgomenta tragicità. E non è soltanto l’incubo dell’invasione nazifascista e della guerra a incupire queste pagine. Un’eterna e polverosa questione di estetica musicale (una «idle question», un ozioso problema, l’avrebbe definita il Foscolo) discute se la musica esprima sentimenti o esprima con supremo autoriferimento solo sé stessa (salomonicamente e accortamente Massimo Mila, se rammentiamo bene,  proponeva la musica come “espressione di sentimento”…): ammesso che la musica, sia pure in termini impropri ed indiretti, esprima sentimenti, mi sono spesso chiesto quale sia il sentimento prevalente  espresso dalla musica di S., e sono sempre giunto alla immodificabile convinzione che quel sentimento –  angoscioso, brividente, soffocante –  è la paura, il terrore. Superfluo aggiungere altro. Se ciò è vero, non sia di ostacolo all’approccio a quella musica bensì un dato consapevole  per comprenderla e amarla con maggiore adesione.


[1]Una forte e affascinante  rappresentazione della vita di S., nella lunga e spossante lotta per la difesa della propria vita e della propria opera dalle tenaglie del Potere, è contenuta nell’avvincente romanzo-saggio The Noise of Time (2016) dello scrittore inglese Julian Barnes (trad. it. Il rumore del tempo, Einaudi 2017).

[2]La prima fase dell’operosità di Dmitrij Dmitrevič si era svolta all’insegna del più spavaldo e aggressivo avanguardismo,  con l’occhio attento all’evoluzione internazionale della musica moderna da coniugarsi con la tradizione russa e ancora legato ai criteri della  tonalità. Successivamente egli cercò di non rinnegare sé stesso, pur dovendo fare i conti con un contesto politico e culturale in certo modo strangolatorio.

[3]Prima della scomparsa l’Autore avrebbe completato due movimenti della Sedicesima Sinfonia, ma le autorità sovietiche hanno smentito l’esistenza di questa Sinfonia.