Il corpo e lo spirito, di Marco Calzoli
La città di Gerusalemme è quella che Dio ha eletto tra tutte le città del mondo. Il popolo ebraico, infatti, è “consacrato”, cioè “separato” dal resto del mondo. Da esso è nato il Messia, Gesù Cristo, l’Uomo Dio incarnato in questa dimensione terrena per redimere l’umanità e portarla alla salvezza definitiva.
Gli ebrei non hanno accolto la visita del Figlio di Dio, Gesù Cristo. Gerusalemme quindi è il mistero, al tempo stesso, del peccato e della elezione. E questo è il mistero non solo del popolo ebraico ma anche di tutti noi. Tutti noi, uomini e donne della terra, siamo peccatori ma nonostante questo amati e voluti da Dio. Questo è l’enigma più grande: una creatura fragile e per natura meritevole di condanna ma che Dio crea per amore, e per amore viene a visitare intendendo salvarla dalla dannazione eterna che si merita per i suoi peccati.
Nell’Antico Testamento Gerusalemme è il luogo dove si cercava il Volto di Dio, esattamente nel tempio della città, il posto più sacro per gli ebrei di allora, che venne distrutto definitivamente nel 70 d.C. dai romani. Ogni ebreo doveva andare tre volte all’anno al tempio di Gerusalemme per vedere il Volto di Dio. Adesso gli ebrei non hanno più questo edificio sacro e attendono l’avvento del Messia affinché lo ripristini. Tutti noi cristiani, come gli ebrei, siamo alla ricerca di Dio, che sembra nascosto, lo intravediamo come in uno specchio opaco, in maniera imperfetta, solo nella fede. Siamo tutti alla ricerca di Dio e mai lo troveremo su questa terra in pienezza: Egli ci aspetta nel mondo futuro, in paradiso, dove lo vedremo faccia a faccia.
La condizione esistenziale dell’uomo sulla terra è come l’amata del Cantico dei Cantici, che cerca il suo uomo per tutta la città. L’essere umano è costantemente alla ricerca di Dio. L’Onnipotente lancia qualche messaggio attraverso le religioni. Dio ama essere cercato e si fa trovare, anche se imperfettamente, già qui.
Perché Gerusalemme è tanto importante per il mondo? Il profeta Ezechiele terminava il suo libro con un gioco di parole. Egli proclama che Gerusalemme avrà un nome nuovo: “là” (shamma) sarà il suo nome (shem), perché il Signore (Adonai) sarà là (shamma). Questi richiami fonetici della lingua ebraica fanno intuire che a Gerusalemme Dio è sceso. Quando vi era il tempio, Dio abitava nel Santo dei Santi (il luogo più sacro di quell’edificio) e con la incarnazione di Cristo Dio si è fatto uomo e morì a Gerusalemme.
Gerusalemme è quindi il luogo del Signore, cioè del Salvatore del mondo, l’unico e il vero. La Bibbia chiama la città con 70 nomi diversi, e questo numero, nella mentalità ebraica, evoca la perfezione. In arabo Gerusalemme è detta Al-Quds, letteralmente “Il Santo”, perché nella tradizione il Santo dei Santi è il nome del tempio, inoltre per i musulmani essa è la terza città più importante del mondo.
Il nome ebraico più significativo è Yerushalayim, che sembrerebbe derivare dalle radici semitiche yry e Shalem, letteralmente “fondazione di Shalim” (quest’ultimo una divinità cananea). Dal nome della divinità derivano l’ebraico Shalom e l’arabo Salam, “pace”, quindi il nome potrebbe significare “Città della Pace” o “Dimora della Pace”. Il suffisso -ayim indica un duale, il ché potrebbe riferirsi ai rilievi su cui era situata l’antica città. Nelle lettere di Amarna si fa menzione di un insediamento chiamato dagli egizi rwsh-lmm, derivata dal cananeo Urushalimum, cioè altura della pace, questa rappresenta la prima menzione di Gerusalemme nella storia.
La tradizione ebraica insiste sul fatto che grammaticalmente Gerusalemme è un duale, quindi i rabbini dicono che ci sono due città sante: una Gerusalemme terrestre e una celeste, che deve ancora venire. Secondo Apocalisse 21, la Gerusalemme celeste si basa su 12 colonne, che rappresentano gli apostoli.
Quindi la Bibbia finisce con Gerusalemme ma anche inizia con Gerusalemme. Infatti leggiamo in Genesi 2:
10 Un fiume usciva da Eden per irrigare il giardino, poi di lì si divideva e formava quattro corsi. 11 Il primo fiume si chiama Pison: esso scorre intorno a tutto il paese di Avìla, dove c’è l’oro 12 e l’oro di quella terra è fine; qui c’è anche la resina odorosa e la pietra d’ònice. 13 Il secondo fiume si chiama Ghicon: esso scorre intorno a tutto il paese d’Etiopia. 14 Il terzo fiume si chiama Tigri: esso scorre ad oriente di Assur. Il quarto fiume è l’Eufrate.
Ebbene, il fiume Ghicon è una sorgente di Gerusalemme, che si trova verso la fine della valle del Cedron, dove tale valle si incontra con quella della Geenna, attorno al sud est della città vecchia, lì c’è anche la piscina di Siloe.
Questa sorgente è importantissima, è come un miracolo, e lo sa bene chi ha visitato Gerusalemme: la città infatti è al limitare del deserto ed è viva grazie a due sorgenti, questa e quella di Rogel, che si trova dall’altra parte della città.
Inoltre come Dio all’inizio si manifestava in un giardino, passeggiando assieme ai progenitori Adamo e Eva, così nei vangeli Gesù risorgerà da morte in un giardino. Maria Maddalena andò a cercare Cristo, deposto nel sepolcro di Gerusalemme, per profumare il suo corpo, ma non lo trovò, perché era risorto. Tutti noi siamo come Maria Maddalena che cerca Dio, ma non lo trova tra i morti, quale fosse un idolo che non può salvare, perché Dio è l’Eterno Vivente. Solo il vero Dio può donare la vita perché Egli è vivo in eterno, avendo sconfitto la morte, e quindi aperto ai cristiani il passaggio alla vita eterna.
Cosa si aspetta Dio da noi? Dio vuole il nostro amore. Prima di amarlo dobbiamo però conoscerlo razionalmente, come diceva sant’Agostino.
In Giovanni 17 è scritto che la vita eterna è conoscere Dio. Nel mondo semitico la conoscenza non è semplicemente una dimensione intellettuale, ma è soprattutto un atto di intima relazione. In egiziano antico un solo verbo, rekh, indica sia l’amare sia il sapere, cambiando il determinativo. Sempre nello stesso capitolo 17, le parole di Cristo pongono in stretta relazione la conoscenza di Dio Padre e l’amore, per cui l’una spiega l’altro: “E io ho fatto conoscere loro il tuo nome e lo farò conoscere, perché l’amore con il quale mi hai amato sia in essi e io in loro”. In questo rapporto di stretta unione tra Dio e la creatura, un posto spetta anche alla dottrina, ma la vera conoscenza non è razionale bensì un atto di amore. Non possiamo amare chi non conosciamo anche con la mente, ma tale sapere è solo preparatorio in vista dell’intima unione.
Cosa bisogna conoscere razionalmente di Dio? Innanzitutto il suo immenso amore misericordioso per le povere creature. Solo così riusciremo ad unirci spiritualmente in un abbraccio di vivo affetto. Santa Caterina da Siena, si chiedeva: quale cuore indurito non amerebbe a sua volte un Dio che lo ama così tanto?
I santi riferiscono di aver incontrato un Dio “pazzo di amore” per gli esseri umani. Cristo infatti è morto in croce in sacrificio a Dio Padre per ottenerci il perdono dei peccati e la vita eterna. Questo sacrificio cruento sulla croce si rinnova in maniera non cruenta in ogni Santa Messa. Il pane e il vino consacrati diventano realmente e veramente il corpo e il sangue di Cristo, che ripete il sacrificio. San Pio da Pietralcina riusciva a vedere nella Messa Cristo che si immola e Maria, la sua madre verginale, che lo assiste. San Giovanni Crisostomo ebbe una visione: miriadi di angeli che si affollano attorno al sacerdote durante la consacrazione della Messa. Gli angeli scendono dal cielo per assistere al grande miracolo di Cristo che sta sul patibolo in ogni Santa Messa fino alla fine del mondo!
In ogni religione il sacrifico è l’atto fondamentale. Nel mondo vedico il sacrifico è ciò che permette il mantenimento dell’ordine cosmico (ṛta).
Infatti leggiamo nel Ṛg-Veda (I.164.35), il più antico dei Veda, i testi sacri dell’induismo, ove è scritto in sanscrito vedico:
iyaṃ vediḥ paro antaḥ pṛthivyā ayaṃ yajño bhuvanasya nābhiḥ | ayaṃ somo vṛṣṇo aśvasya reto brahmāyaṃ vācaḥ paramaṃ vyoma ||
“L’altare è l’ultimo limite della terra;
questo sacrificio compiuto da noi è il centro del mondo;
Soma è il seme prolifico, essenza di virilità;
la nostra preghiera è il cielo più alto dove abita la Parola”.
In Ṛg-Veda IV.23.10 si gioca sul valore del termine vedico ṛta, che oscilla tra “rito” e “ordine cosmico”, in uno splendido metro nicṛttriṣṭup:
ṛtaṃ yemāna ṛtam id vanoty ṛtasya śuṣmas turayā u gavyuḥ | ṛtāya pṛthvī bahule gabhīre ṛtāya dhenū parame duhāte ||
“L’(adoratore cerimoniale) che sottopone ṛta (alla sua volontà) gode veramente di ṛta; la forza ṛta è (sviluppata) con velocità ed è desiderosa di (possedere) acqua; a ṛta appartengono il cielo e la terra ampi e profondi; vacche sublimi, cedono il loro latte a ṛta”.
Il sacrificio vedico è l’atto cultuale più importante che ci sia in quanto permette la armonia dell’universo. Così si legge nel Śatapatha Brāhmaṇa XIV, 3, 2, 1:
sarveṣām vā eṣa bhūtānām sarveṣāṃ devānāmātmā yadyajñastasya
“Tutto ciò che è, compresi gli esseri celesti,
ha un solo principio di Vita, un solo Sé: il Sacrificio”.
Come mai nelle varie religioni l’atto cultuale più importante, il sacrifico, è spesso associato alla violenza? L’uomo ha in sé parti aggressive e parti libidiche. La violenza quindi fa parte dell’essere umano.
Facciamo questo esempio. Franz Schmidt conosciuto come “Mastro Franz” (Hof, 1555 – Norimberga, 1634) è stato un boia tedesco attivo ad Hof dal 1573 sino al 1578 e a Norimberga dal 1578 fino al 1617. Nato ad Hof nel 1555, suo padre Heinrich (1531-1578) era un boscaiolo. Quando Alberto Alcibiade di Brandeburgo-Kulmbach mandò tre uomini sul patibolo nel 1547, scelse proprio Heinrich tra la folla come boia per eseguire la sentenza. Da lì la reputazione del padre e della famiglia venne distrutta: i boia erano di solito visti male e i loro figli erano esclusi dalla società. Quindi all’età di diciott’anni Franz decise di seguire le esecuzioni di suo padre presso Bamberga nel 1573. Alla morte di suo padre, nel 1578 ottenne il posto come boia a Norimberga dove si sposò con Anne Eisenbach (1559-1591) con la quale ebbe sette figli. Acquisì una notevole notorietà in tutta Norimberga a tal punto da diventare la persona con lo stipendio più alto in tutta la città. Dopo il ritiro nel 1617, lavorò come medico e morì in età avanzata nel 1634. Disse pubblicamente. Eseguì 361 esecuzioni in quarantacinque anni di carriera. Gli furono dati i funerali di stato e fu sepolto al Johannisfriedhof accanto alle tombe di Albrecht Dürer e di Hans Sachs. Egli scrisse un diario delle sue esecuzioni, che si può trovare in rete, in cui andava anche nei dettagli.
Già mentre faceva il boia studiò medicina e divenne un abile medico, e poi come abbiamo detto proseguì la professione medica dopo la fine della attività di boia. Si stima che in tutto guarì migliaia di persone, quindi più di quelle che aveva ucciso.
Questa storia dimostra che l’animo umano è lacerato da tensioni contrastanti. Quindi non stupisce che Dio, il quale si adatta alla barbarie e alla grandezza presenti nell’essere umano, abbia deciso di essere onorato anche con sacrificio cruenti.
Ma il cristianesimo dimostra che è Dio stesso che per amore dell’essere umano si sacrifica a favore degli uomini. Dio ribalta la logica della violenza sacrificale, alla quale si era sottomesso per rispetto della durezza del cuore umano, e inaugura con il cristianesimo la religione dell’amore.
A Gerusalemme si eseguivano sacrifici di animali, invece adesso è Cristo che muore in croce. La Gerusalemme terrena viene superata e in quella celeste (Apocalisse 21) non c’è più il tempio, che viene sostituito da Cristo stesso.
L’uomo viene educato da Dio, il quale dapprima si adatta alle usanze tribali per condurre l’uomo, progressivamente nella storia, verso la vera religione, quella dell’amore.
Qualcosa del genere è avvenuto anche nell’induismo, dove per influenza buddhista è stata sostituita gran parte dei sacrifici cruenti di animali.
È che l’animo umano si evolve nel tempo, grazie alla grazia di Dio, che opera in tutte le latitudini.
In Ṛg-Veda I.90.5 è scritto:
uta no dhiyo goagrāḥ pūṣan viṣṇav evayāvaḥ |
kartā naḥ svastimataḥ ||
Pūṣan, Viṣṇu, Marut, fate sì che i nostri riti siano di beneficio per il nostro bestiame; rendeteci prosperi.
Si tratta di una forte frase ottativa, desiderativa. Infatti uta è sì principalmente connettivo, ma compare con particolare rilievo nelle frasi ottative (cfr. latino utinam). Quindi il poeta vedico chiede con insistenza agli dei cui è rivolto il sacrificio, di far prosperare il bestiame.
Il bestiame era fondamentale per il mondo vedico del passato. Adesso con la società moderna le esigenze materiali, pur presenti, vengono sempre più sublimate dai valori dello spirito.
È il progresso umano secondo la teoria rosacrociana: la materia non va eliminata, ma va sublimata secondo schemi più spirituali.
Semplicemente Dio ha educato in millenni di storia a pensare non solo al ventre, ma anche alla virtù e al sapere. L’uomo era centrato sul corpo, adesso è centrato sullo spirito.
L’educazione impartita a tutti, come voluto da Comenio, che ha dato origine alla scuola statale, ha ingentilito progressivamente i costumi.
C’è stato un colossale spostamento dalla materia allo spirito. Le persone si sono sempre più spiritualizzate. In passato erano una accozzaglia di plebei, a cui i nobili facevano di tutto. Adesso le persone hanno tutte diritti civili e politici (almeno nel mondo civilizzato).
Soprattutto nel cristianesimo, anche il sacrificio si è evoluto: dalla presenza della vittima a Dio stesso, che si offre per la salvezza di tutti e non pretende più uccisioni delle sue creature.
Prima del cristianesimo, gli esseri inferiori alle divinità erano in quanto tali carne da macello, destinate al nutrimento dei divini. Tale concezione si ritrova anche nella lingua, se vogliamo. In ebraico biblico “corpo” si dice gewijja, da una radice semitica che si ritrova anche nel neo-babilonese gabbu, che vuol dire “carne per il sacrificio”. Un altro termine ebraico è basar, che veicola l’idea della fragilità. Analogo alla parola sanscrita sharīra, “corpo”, dal tema shṝ, che al passivo ha senso riflessivo e significa “rompersi”, “deteriorarsi”: l’idea è che è il corpo fisico rappresenti un’entità fragile che va incontro spontaneamente a decadenza e a distruzione nel corso del tempo. In Omero il termine greco sōma, di etimologia oscura (che nella lingua posteriore significherà il costituente corporeo di una persona), indicava semplicemente il cadavere.
Dio non vuole più sacrifici di soave odore del quale nutrirsi, come le divinità pagane, ma desidera amore. Osea 6, 6: “Amore voglio e non sacrificio”. Non vuole più che i corpi siano destinati ai sacrifici, ma desidera nell’uomo potenzialità spirituali: più di tutto che l’uomo rispetti di vero cuore la legge di Dio.
Il termine latino corpus sembra essere un ampliamento in –es– di un tema indoeuropeo, *kṛp-, che si ritrova in vedico come kṛpa, “forma, bellezza”. Gli dei antichi erano attirati dalla bellezza dei corpi delle creature e, tramite il sacrificio, volevano possederli portandoli nel loro mondo, oppure volevano nutrirsi delle loro energie vitali.
In un testo chiave sulla interpretazione del sacrificio vedico, il Purva Mimaṃsa (n. 3), è scritto:
tasya nimitta pariṣtiḥ
un’indagine sui mezzi per la vera conoscenza
(del sacrificio diventa necessaria).
L’autore vuole dire che per conoscere il sacrificio vedico bisogna conoscere i Veda, che lo prescrivono.
Pertanto possiamo arguire che in tutte le religioni occorre partire dai testi sacri per capire il sacrificio. Però gli stessi testi sacri spesso si evolvono in una tradizione successiva e il significato originario del sacrificio muta, con l’evolversi della rivelazione. In pratica la rivelazione successiva abolisce quella precedente, oppure la porta a pieno compimento, come anche avviene tra Antico Testamento e Nuovo Testamento.
È curioso che in arabo la parola “califfo” deriva da una radice che significa “seguire”, perché il califfo viene dopo il Profeta Maometto. Ma all’VIII forma lo stesso verbo arabo vuol dire “differire, cambiare”. È nella natura delle cose, in tutte le latitudini, che ciò che viene dopo cambia il passato, molte volte lo perfeziona, conformemente alla nota immagine medioevale di Bernardo di Chartres: siamo “nani sulle spalle dei giganti”, e questo ci permette di vedere meglio.
Il sacrificio viene compiuto per ricevere dei benefici, che vengono attesi con fiducia. In italiano il verbo “attendere” è derivato del latino attendĕre, con il significato di “volgersi a”, composto di ad- e tendĕre. Questa parola ha un’incisività formidabile. Fra il momento in cui un evento è annunciato o previsto e quello in cui si verifica c’è un lasso di tempo: se ci interessa, in quel tempo attendiamo l’evento. Etimologicamente ad esso siamo rivolti, su di esso siamo concentrati – tesi come il gatto davanti al buco da cui sa che uscirà il topo.
Ogni religione si basa sulla speranza dell’attesa viva che qualcosa di buono/bello avverrà e tale evento positivo è un dono di Dio.
Se noi siamo ciò che desideriamo, allora da ciò che attendiamo possiamo vedere ciò che siamo veramente, nel profondo. Desiderare i valori spirituali significa innalzarci dalla condizione materiale a una più elevata.
Il termine italiano “spirito” significa originariamente in latino “soffio, respiro”: rientra nel gruppo semantico di quei termini che designano in generale la vita e l’attività cosciente dell’individuo riferendosi a quella funzione del respiro che della sua vita fisiologica è il sintomo principale.
Allora siamo veramente vivi quando siamo rivolti alle verità eterne, quando ci stacchiamo dal corpo e ci rivolgiamo allo spirito. Le attività spirituali sono quelle che ci rendono veramente esseri superiori, diversi dalle bestie.
Il sacrificio di Cristo duemila anni fa è una verità di fede così come la presenza vera e reale del suo corpo e sangue risorti in ogni ostia consacrata del mondo.
Le rivelazioni private (alle quali la chiesa non obbliga a credere non essendo la Rivelazione, ma che essa accetta e considera autentiche) testimoniano che nell’ostia vi è precisamente il cuore di Cristo, nascosto dalle apparenze del pane.
I miracoli eucaristici, come quello di Legnica in Polonia, dove un’ostia si sarebbe parzialmente trasformata in tessuto miocardico, e quello di Sokółka in Polonia, dove un’ostia caduta sarebbe stata ritrovata come tessuto miocardico umano, hanno suscitato l’interesse della scienza per comprendere le trasformazioni che hanno avuto luogo. Le analisi scientifiche su questi miracoli hanno rivelato che le fibre miocardiche osservate nelle ostie presentano segni di grave sofferenza, simili a quelli riscontrati in pazienti sottoposti a forte stress cardiovascolare. Queste fibre, infiammate e frammentate, mostrano un processo di distruzione che si riscontra in situazioni di stress catecolaminico, come in persone che hanno subito un infarto o un attacco di panico.
Questi risultati scientifici, insieme alle testimonianze dei fedeli, confermano che nell’ostia consacrata dalla chiesa sia avvenuto un evento di transustanziazione (la sostanza del pane che si trasforma nella sostanza del corpo di Cristo risorto), come testimoniato dalla fede cattolica. Si tratta di manifestazioni di una trasformazione fisica che coinvolge il tessuto miocardico e che potrebbe essere interpretata come prova scientifica della presenza reale di Gesù nel sacramento dell’Eucarestia.
Altri studi sul sangue fuoriuscito dalle ostie in alcuni miracoli eucaristici, confermerebbero che il sangue analizzato appartiene sempre al gruppo ab.
La vera fede non ha bisogno di miracoli per credere, sperare e attendere con tutto il cuore il Signore che verrà nella Gloria alla fine dei tempi. I miracoli sono testimonianze per le persone fragili che ancora non vedono con gli occhi dell’anima il Risorto vivo nella sua Chiesa. Come lasciano intendere gli evangelisti, il miracolo è un “segno” (in greco sēmeion) per corroborare la fede e fortificare la speranza.
Salmo 129:
1 Dal profondo a te grido, o Signore;
2 Signore, ascolta la mia voce.
Siano i tuoi orecchi attenti
alla voce della mia preghiera.
3 Se consideri le colpe, Signore,
Signore, chi potrà sussistere?
4 Ma presso di te è il perdono:
e avremo il tuo timore.
5 Io spero nel Signore,
l’anima mia spera nella sua parola.
6 L’anima mia attende il Signore
più che le sentinelle l’aurora.
7 Israele attenda il Signore,
perché presso il Signore è la misericordia
e grande presso di lui la redenzione.
8 Egli redimerà Israele
da tutte le sue colpe.
L’espressione ebraica mimma’amaqim, “dal profondo”, è rara nell’Antico testamento e collegata alle “grandi acque”, che nella Bibbia sono simbolo del male e della negatività in genere. Quindi il salmista vuole quasi evocare l’idea che il cuore umano è un baratro, nel quale si agitano le acque tempestose del male e del peccato. Ma è in quella notte oscura che è il cuore dell’uomo che si fa strada l’anelito per la risurrezione. E quindi l’uomo, nei bassifondi, cerca Dio e lo troverà veramente in Gesù Cristo.
L’atteggiamento giusto di Dio nei confronti del male umano sarebbe il non-ascolto, come adombrato in Isaia 59:
1Ecco non è troppo corta la mano del Signore
da non poter salvare;
né tanto duro è il suo orecchio,
da non poter udire.
2 Ma le vostre iniquità hanno scavato un abisso
fra voi e il vostro Dio;
i vostri peccati gli hanno fatto nascondere il suo volto
così che non vi ascolta.
L’accusa del profeta Isaia è molto forte. Il termine ebraico panim, “volto”, è qui usato in senso tecnico per indicare la “presenza” di Dio. I peccati fanno nascondere Dio, lo fanno allontanare dal suo popolo, un po’ come nel diluvio, quando Dio si pente di aver creato l’umanità.
Ma, nel Salmo 129, Dio si muove a pietà dei suoi figli e usa per loro tutta la misericordia. Il termine ebraico rachamim, “misericordia”, indica etimologicamente le “viscere materne”. Dio ama il suo popolo come una tenera madre e non può rinnegarlo. Anzi, in Isaia 49, 15 è scritto:
Si dimentica forse una donna del suo bambino,
così da non commuoversi per il figlio delle sue viscere?
Anche se queste donne si dimenticassero,
io invece non ti dimenticherò mai.
E le “sentinelle” evocate dal Salmo 129 (in ebraico shomrim, letteralmente “veglianti”) attendono con ansia questa risposta benevola di Dio. Il termine ebraico indica in genere tutti coloro che vegliano, pertanto potrebbe riferirsi anche ai sacerdoti, i quali aspettavano con ansia la luce dell’alba per iniziare il loro turno del culto del Signore nel tempio (Salmo 134, 1). Se poi consideriamo che nell’epoca tarda il numero dei sacerdoti era così alto che ognuno di loro faceva in pratica il turno una volta nella vita, possiamo quindi pensare che il salmista intenda questa attesa come qualche cosa di memorabile e eccezionale.
Invece nell’accezione dei “veglianti” quali sentinelle, avremmo qui l’immagine del soldato che attende la luce dell’alba per ritrarsi dai terrori della notte e del nemico per ritornare felicemente nel luogo del riposo: il pericolo è finito. In Isaia 21 è scritto:
11 Oracolo sull’Idumea.
Mi gridano da Seir:
«Sentinella, quanto resta della notte?
Sentinella, quanto resta della notte?».
12 La sentinella risponde:
«Viene il mattino, poi anche la notte;
se volete domandare, domandate,
convertitevi, venite!».
Questa sentinella sta alludendo alle sue veglie notturne e al passaggio da giorno a notte, e viceversa. Sta in una continua attesa, come il vegliardo del Salmo 129.
Nella rilettura cristiana di questo Salmo, il fedele attende Cristo che verrà nella Gloria da un nube, come profetizzato da Daniele 7.
I salmi sono la grande preghiera dell’umanità, sono stati composti in un preciso contesto storico ma toccano corde dell’animo di tutti i tempi. Ancora oggi i salmi vengono pregati nella Santa Messa e nella Liturgia delle Ore.
Il Salmo 129 appartiene al sottogenere delle suppliche, che chiedono a Dio qualche cosa. Lutero aveva detto che tra tutti i salmi preferiva quelli “paolini”, cioè nei quali il nemico, contro cui supplicare aiuto al trono di Dio, altro non è che l’uomo stesso, cioè il suo peccato, come nel Salmo 129.
Nella presente preghiera dal perdono nasce il timore di Dio. Per la mentalità odierna, se una persona viene perdonata prova riconoscenza e non timore. Abbiamo a che fare, allora, con una concezione antica, semitica, che si ritrova anche nel grande filosofo musulmano AL-Ghazali. Questo pensatore immenso descriveva il perdono con i connotati di una offesa tra due persone che si amano: allora il perdono è la radice del dolore, per via dell’offesa alla grandezza del partner. Il filosofo descrive innanzitutto la reazione che le persone hanno di fronte all’offesa (“come l’uragano che sconvolge le chiome degli alberi”), che sembra quasi giustificare una reazione spiacevole, ma quando Dio concede il perdono, il peccatore si rende conto della malvagità della propria reazione e inizia a temere un Dio così grande, che merita solo la lode e l’adorazione.
Inoltre, il Salmo 129 inizia in prima persona ma finisce coralmente, è tutto Israele che attende il Signore. Nella rilettura cristiana, qui abbiamo il tema della salvezza collettiva, come dimostrato dagli studi di De Lubac. Dio verrà alla fine dei tempi per tutti i battezzati e li farà risorgere.
Chi attende Dio, non sarà mai deluso. È interessante che in arabo classico la radice ḏhb ha dato luogo al verbo “andare” (ḏahaba), ma veicola anche l’idea dell’ “oro” (ḏahabun). Chi procede lungo la via di Dio, in una continua attesa, alla fine trova l’oro, cioè la salvezza.
Concludiamo questa riflessione con il Salmo 78 (77). È di questo Salmo il più antico frammento della Antico Testamento tradotto in arabo (ritrovato nel 1901 nella Moschea Omayyade a Damasco e studiato approfonditamente da Bruno Violet). Invece nel Monastero di Santa Caterina sul Sinai abbiamo il più antico manoscritto del Nuovo Testamento tradotto in arabo (Mt. Sinai Arabic Codex 151, del 867 d.C. e redatto a Damasco da Bishr Ibn Al-Sirri).
Le varie traduzioni della Bibbia in arabo furono sostanzialmente eseguite in ordine da ebrei, cristiani e samaritani, a partire da testi biblici tradotti in varie lingue (copto, greco, ebraico, latino, siriaco). L’arabo classico fa la sua ribalta nella storia come lingua scritta a partire dal VII secolo d.C. con la stesura del Corano, ma le origini di questa lingua risalgono almeno al V secolo a.C. nel nord della Penisola arabica. Quindi l’arabo non era parlato solo da musulmani e da arabi ma, essendo di molto anteriore, anche da altre popolazioni e di altre fedi religiose. Per esempio anche i nabatei parlavano arabo ma non erano arabi. Però l’arabo divenne una lingua scritta in connessione stretta con la redazione del Corano. Quindi è da allora in poi che ebrei, cristiani e samaritani iniziarono a tradurre la Bibbia in arabo. I primi manoscritti in nostro possesso di queste traduzioni risalgono a non prima del IX secolo d.C. (perché non sono stati ancora ritrovati altri di epoca anteriore). Tali manoscritti sono traduzioni da un testo di partenza siriaco (quindi traduzioni di traduzione). È successo in pratica quanto accaduto con il Corano, che per alcuni sarebbe la traduzione araba di un originale siriaco.
Della Bibbia tradotta in arabo si usa accademicamente soprattutto (per fare i vari studi) la edizione Smith Van Dyck, opera nata nel 1847 per opera di due missionari protestanti che a Beirut lanciarono un progetto di traduzione della Bibbia in arabo.
Il Salmo 78 (77) è stato scritto in arabo ma usando i caratteri greci. Si tratta di un arabo dialettale, infatti compare l’articolo arabo al- ma scritto “el-“, come si pronuncia tuttora nei dialetti arabi (lo sappiamo perché la traslitterazione greca conserva le vocali).
Ebbene, il Salmo in questione elenca brevemente la storia di Israele e invita a seguire le leggi del Signore per non commettere gli errori dei padri, che a volte furono infedeli a Dio.
La via della salvezza è seguire gli insegnamenti di Dio, che preferisce continui atti spirituali di amore, più importanti del sacrificio, anche se non lo annulla. Non c’è altra via! In ebraico derek significa sia “via” sia “vita”.
È curioso che in arabo safar significa “viaggio”, ma il verbo corrispondente è soltanto alla III forma (una forma derivata), ed è sāfara, “viaggiare”. Ci si chiede perché l’arabo moderno non abbia, per tale radice, la I forma (quella base, che si trova sul vocabolario), ma ce l’ha solo l’arabo classico, ed è safara, che significa però “rivelare”. Perché il “viaggio” ha a che fare con il “rivelare”? Si ritrova la stessa radice nell’ebraico sefer, “libro”. Allora è stato ipotizzato che attraverso gli insegnamenti (contenuti in un libro) si compie un viaggio interiore per conoscere molte cose. La poetessa statunitense Emily Dickinson scriveva che non c’è vascello più veloce di un libro per conoscere il mondo.
Seguire gli insegnamenti di Dio ci fa intraprendere il viaggio della nostra trasformazione interiore, fino alla salvezza.