Per Thomas Stearns Eliot poeta: appunti, spunti e schede, di Loris Maria Marchetti
I
Tra i maggiori poeti “danteschi” della prima metà del Novecento – insieme con Rainer Maria Rilke, Ezra Pound, Osip Ėmil’evič Mandel’štam, Eugenio Montale su lati e angoli diversi – Eliot può fregiarsi di tale predicato in quanto elaboratore di una poesia che lega progressivamente il mondo terreno a una prospettiva rivolta alla realtà cosmica attraverso un itinerario creativo che, nello spazio di circa un trentennio, si configura idealmente come un cursus implicante inferno, purgatorio e paradiso. L’ “inferno” abbraccia: Prufrock and Other Observations (Prufrock e altre osservazioni), Londra 1917; Poems, Richmond 1919; Ara Vos Prec (Ora vi prego)[1], Londra 1920; The Waste Land (La terra devastata, solitamente resa in italiano come ‘desolata’), New York 1922; Poems 1909-1925, Londra 1925 (comprende anche The Hollow Men[2]). Il “purgatorio” contiene: Ariel Poems, Londra 1930 (Ariel è nome ebraico, biblico: Leone di Dio, Altare di Dio, Dono di Dio, ma pure Cuore dell’altare, Altare; è anche nome di un Arcangelo e designa anche la città di Gerusalemme); Ash-Wednesday (Mercoledì delle Ceneri), ivi 1930; Collected Poems 1909-1935, ivi 1936. Il “paradiso” in fine comprende: Old Possum’s Book of Practical Cats (Il libro dei gatti tuttofare), Londra 1939; Four Quartets (Quattro quartetti), New York 1943 (la metafora musicale si riferisce ai quattro elementi costitutivi dell’universo inquadrati in una concezione circolare del tempo che si fonde conclusivamente con la suprema sintesi trascendente); The Cultivation of the Christmas Trees (La coltura degli alberi di Natale), Londra 1954; Collected Poems 1909-1962, ivi 1963; Poems written in Early Youth (Poesie giovanili), ivi 1967.
Tradusse in inglese Anabasis, poema di Saint-John Perse, Londra 1930.
L’operosità letteraria di Eliot, com’è noto, si concretò anche nel teatro e nella saggistica letteraria e culturale.
Il drammaturgo in versi compose Sweeny Agonistes («frammenti di un melodramma aristofanesco», 1932), The Rock (1934), Murder in the Cathedral («morality play», 1935), The Family Reunion (1939), The Cocktail Party (1949), The Confidential Clerk (1953), The Elder Statesman (1958).
Il saggista, la cui influenza sulla cultura occidentale del suo tempo è stata amplissima anche se non sempre ha ricevuto empatici consensi sul piano politico o religioso oltre che letterario, ha prodotto una trentina di volumi, tra cui di fondamentale importanza: Ezra Pound, His Metric and Poetry (1917); The Sacred Wood: Essays on Poetry and Criticism (1920); Homage to John Dryden (1924); Dante (1929; l’opera dell’Alighieri rappresenta al sommo grado l’unità spirituale del mondo cristiano); John Dryden (1932); The Use of Poetry and the Use of Criticism (1933: testi delle lezioni tenute a Harvard nel 1932-33); After Strange Gods (1934); Elizabethan Essays (1934); The Idea of a Christian Society (1939); The Music of Poetry (1942); What is a Classic? (1945); Milton (1947; il poeta è considerato il più autorevole esponente della tradizione giunta alla sua piena maturità); Notes Towards the Definition of Culture (1948); Poetry and Drama (1951); The Frontiers of Criticism (1956); Essays on Poets and Poetry (1957); To Criticize the Critic (1965).
II
T. S. Eliot nasce a Saint Louis, Missouri, il 26 settembre del 1888 ultimo di sette fratelli di una famiglia americana “aristocratica”, in quanto i genitori sono entrambi discendenti dei primi coloni sbarcati nella Nuova Inghilterra, famiglia che annovera mercanti, giudici, ecclesiastici, teologi.
Si iscrive alla Harvard University nel 1906, dimostrando un particolare interesse per la letteratura europea (Donne e i poeti metafisici inglesi del Seicento, Milton, Blake). La lettura del libro The Spirit of Romance (1910) di Ezra Pound gli apre il mondo della letteratura provenzale e stilnovistica e in specie di Dante che legge in italiano.
Si trasferisce a Parigi nel 1910 e studia alla Sorbonne, dove segue le lezioni di Henri Bergson e si interessa soprattutto alla poesia simbolista francese (Baudelaire, Laforgue, Corbière).
Nel 1911 si laurea in filosofia a Harvard.
Nel 1914, grazie a una borsa di studio, dopo una breve sosta in Germania si trasferisce a Oxford dove insegna filosofia greca al Merton College.
Nella primavera del 1915 sposa la danzatrice Vivienne Haigh-Wood, ma il matrimonio si rivelerà infelice a causa delle precarie condizioni mentali della moglie da cui si separerà nel 1922 e che morirà nel 1947 in una clinica per malati di mente. Sempre nel ’15 si stabilisce a Londra come insegnante.
Nel 1917 si impiega alla Banca Lloyds.
Nel 1922 fonda la rivista letteraria «The Criterion», che dirigerà fino al 1939; pubblicherà, tra gli altri, Pound, Yeats, Auden, Spender, Virginia Woolf, Pirandello, Montale (con la poesia Arsenio, tradotta in inglese da Mario Praz, giugno 1928), e sarà la prima rivista britannica a ospitare Proust, Valéry, Cocteau. Negli anni della guerra civile spagnola prenderà posizione a favore dalla causa republicana.
Nel 1925 lascia la banca per entrare nella casa editrice “Faber and Gwyer”, poi destinata a essere la celebre “Faber and Faber” di cui sarà direttore letterario fino alla morte.
Nel 1927 inizia a frequentare la Chiesa d’Inghilterra aderendo al ramo anglo-cattolico e ricevendo il battesimo il 29 giugno; nello stesso anno diviene cittadino britannico, il che gli consentirà la sua famosa autodefinizione di «classico in letteratura, royalist in politica e anglo-cattolico in religione» (nell’introduzione al volume For Ancelot Andrewes: Essays on Style and Order, Londra 1928).
È insignito del Premio Nobel per la letteratura nel 1948 e del Premio Goethe nel 1954, tenendo ad Amburgo una famosa conferenza su Goethe il saggio.
Nel 1957 sposa la propria segretaria Valerie Fletcher.
Muore a Londra il 4 gennaio del 1965.
III
Per Eliot, come del resto per Pound, è impossibile sottrarsi al richiamo dell’Europa come alvo e fulcro della civiltà e della cultura occidentali: «Erranti discepoli che dalla periferia della civiltà tornarono al suo centro in cerca di scuole e di maestri»[3]. Ma il “centro”, come la periferia in altro modo, è gravemente malato. In questo senso sentono e vivono la guerra (la prima guerra mondiale) come una immane tragedia della civiltà e della cultura di una Europa che si dilania e autodistrugge nei valori civili, morali, culturali.
Il mondo occidentale contemporaneo – socialmente, moralmente, culturalmente – è orrendo, disumano, anche in virtù del trionfo della visione scientifico-positivistica con relativa affermazione della società industriale di massa; ne conseguono l’alienazione e la solitudine più radicali, vacuità, fatuità, volgarità, banalità, grigiore, sfacelo; neppure la figura e la missione dell’artista si sottraggono a una tale catastrofe che anzi ne determina la sua inutilità. Sul piano letterario, nella sua poetica, che si può considerare erede e continuatrice di quella dell’Imagismo[4], Eliot polemizza contro la letteratura romantica, in particolare quella dell’età vittoriana, le sue degenerazioni decadentistiche, le forme poetiche ormai consunte. I poeti contemporanei sono poco espressivi, l’applaudito in America e altrove Edgar Lee Masters (Spoon River Anthology, 1915) è considerato il massimo esponente della «fiacca generale» (secondo il crudo giudizio di Pound). L’ipertrofia raggiunta dall’io lirico ne obbliga la sparizione, così per ogni forma di esaurita liricità, e si impone la necessità di oggettivismo poetico, nel quale si identifica il moderno, la novità. La novità letteraria – espressiva e stilistica – deve esprimere l’orrore, la violenza, il grigiore, il disagio, l’alienazione del mondo contemporaneo. Le forme nuove devono rappresentare e denunciare il presente, semmai fornirne il correlativo oggettivo[5], senza compiacersene o dolersene in modo individualmente lirico o patetico. Il moderno, in letteratura, esige il rifiuto dell’attualità storica, della sua incultura, inciviltà, immoralità, comporta il recupero della tradizione letteraria, culturale, civile attraverso forme inedite e sperimentali che guardino tuttavia non a un imprecisato futuro ma a un ben sperimentato passato.
Specie nella sua prima fase che abbiamo voluto definire “infernale”, il tessuto poetico di Eliot è di impianto narrativo, secondo un verso libero molto particolare, fintamente prosastico, in realtà straordinariamente rigoroso e calcolato. Presenta un accumulo di registri stilistici e linguistici diversi (anche da idiomi disparati) messi insieme per stridere a contrasto oppure per giustapporsi ed esaltarsi a vicenda. Le citazioni di altri poeti, le inserzioni in varie lingue sono da intendersi come collegamento con altre voci del passato sentite come fraterne e come “coscienza” del passato da comporsi in «un ordine simultaneo» (T. S. E.) con il presente. Come per Dante nel passaggio del linguaggio dell’Inferno a quello del Paradiso, così in Eliot, nel trascorrere dal suo “inferno” al suo “paradiso”, il linguaggio si purifica, si innalza, si impreziosisce rinunciando alle innovazioni più radicalmente sperimentali a favore di enunciazioni più congruamente metafisiche.
La poesia eliotiana – nel suo carattere epico-lirico-narrativo-discorsivo, paraprosastica, plurilinguistica, policomposita – comporta una ricezione sulle prime estremamente ardua e faticosa sia per la complessità del discorso materia-spirito, mondo-trascendenza (nello sperato approdo metafisico), sia per la difficoltà dell’identificazione di un preciso senso almeno letterale, scoglio sempre scoperto per ogni più rilevante esperienza poetica ma nel nostro caso ingigantito dalla particolare natura della lingua inglese, che lascia per ogni vocabolo ampie possibilità di significato in misura maggiore di altri idiomi. (Superfluo avvertire come una tale situazione, mirabile e seducente per un grande artista, renda più problematico anche il còmpito della traduzione, già delicatissimo, se non proibitivo, per quanto concerne la poesia).
IV
Com’è noto, i vertici della poesia di Eliot sono raggiunti nei “poemi” The Waste Land (5 sezioni), Ash-Wednesday (6 sezioni), Four Quartets (4 poemi per un totale di 20 sezioni): un’analisi ancorché sommaria di queste opere, per di più in assenza di testo, è seriamente impensabile in questa sede. Riteniamo però che per un primo approccio alla lettura e alla conoscenza di T. S. E. possano riuscire utilili le seguenti schede sintetiche di singoli componimenti oltremodo rappresentativi della sua esperienza artistica.
The Love Song of J. Alfred Prufrock (Il canto d’amore di J. Alfred Prufrock)
Composto nel 1911 e pubblicato per la prima volta sulla rivista «Poetry» di Chicago nel giugno del 1915, il testo è compreso nel volume Prufrock and Other Observations (Londra 1917) il cui titolo è già spia di intenzionale oggettività.
La raccolta ha un’epigrafe dantesca, «Or puoi la quantitate / comprender de l’amor ch’a te mi scalda, / quand’io dismento nostra vanitate, // trattando l’ombre come cosa salda» (Purgatorio, XXI, 133-136), parole in bocca al poeta latino Stazio. La poesia reca anch’essa un’epigrafe dantesca (Inferno, XXVII, 61-66), con parole espresse da Guido da Montefeltro: «S’i’ credesse che mia risposta fosse / a persona che mai tornasse al mondo, / questa fiamma staria sanza più scosse; // ma però che già mai di questo fondo / non tornò vivo alcun, s’i’ odo il vero, / sanza tema d’infamia ti rispondo»[6].
Tipica “poesia con personaggi”, derivante da archetipi formali del Medioevo europeo, e preannunziante in nuce l’autore drammatico, è un monologo descrittivo di panorami psicologici interiori piuttosto che di apparenze esterne. La banalità della condizione personale dell’io narrante coincide con la banalità della vita (anche urbana) e della cultura occidentali contemporanee. In questa fase del pensiero eliotiano è forte la convinzione della inesistenza di mondi o universi alternativi: tutto è indistinto, nebbioso, lo spirito è conscio che alla dissoluzione di un mondo e di una cultura non possono che seguire grigiore morale, noia, piattezza. Prufrock è consapevole ma impotente, velleitario, cosciente della palude e dell’inerzia, ma paralizzato. (Il clima generale sembra anticipare profeticamente la nausée sartriana).
Rhapsody on a Windy Night (Rapsodia su una notte ventosa)
Scritta a Parigi nel 1911, pubblicata per la prima volta sulla rivista «Blast» (11 luglio 1915) poi accolta nel citato volume Prufrock and Other Observations (1917).
Poesia sempre appartenente alla fase eliotiana più pessimistica, nel titolo preso dal campo della musica (rapsodia intesa come composizione strumentale libera da qualsiasi schema formale prestabilito, magari con parafrasi o allusioni a melodie popolari o nazionali, di carattere per lo più virtuosistico e coloristico) esprime l’impossibilità di una descrizione razionale e organica della realtà. Abbiamo una sorta di collage surrealistico o surreale (nulla, comunque, a che fare con il Surrealismo francese degli anni Venti), una grande ricchezza citazionistica, un’accozzaglia di elementi svariati, secondo un processo irrazionale di libere associazioni che obbediscono solo alle leggi della coscienza istintiva.
Di nuovo la banalità e l’inconsistenza del quotidiano, qui colto nel corso di una passeggiata notturna evanescente e surreale, ma di forte impatto simbolico, implacabilmente scandita, ma senza variazioni positive, dalle ore. Vige una reciproca incomunicabilità tra l’io narrante e le cose (a loro volta narranti, come proiezione della coscienza e della memoria peraltro inefficacie: «The memory throws up high and dry / A crowd of twisted things», “La memoria rigetta e dissecca / un mucchio di cose attorcigliate [o distorte]”[7]) che non possono o non sanno capirsi. Proverbiale, emblematico il verso conclusivo: «The last twist of the knife», “L’ultima trafittura del coltello” (ma twist indica anche la ripetuta azione vulnerante della lama).
Gerontion
Composto a Londra nel 1919 e pubblicato per la prima volta in Ara Vos Prec, ivi 1920.
Sorta di monologo descrittivo, di scena drammatica sempre più volta alla dimensione teatrale, un po’ come il Prufrock di circa dieci anni prima. In parte ispirato all’Ecclesiaste (o Libro di Qoelet) – quello della vanità e caducità del mondo e delle cose terrene – da cui ci sono significative citazioni («rented house», “casa d’affitto”, il corpo; «tenants of the house», “gli affittuari”, i vivi).
È un Prufrock invecchiato (Gerontion in greco vale ‘vecchietto, vecchierello’) che fa il bilancio, ovviamente negativo, della propria esistenza[8]: non ha partecipato ai grandi eventi della storia, non ha vissuto nobili ideali, si è sempre tenuto in disparte, è a un tempo vittima e responsabile del disfacimento. Affronta quindi il vicino e pauroso appuntamento con la morte senza essere riuscito a comprendere il senso della sua vita – cioè a dire il senso della vita in assoluto. Trionfa il dubbio, in assenza di un segno divino che giunga dall’esterno – è stato notato che l’insorgenza del dubbio è già indizio di una svolta positiva rispetto ai precedenti sentimenti eliotiani totalmente pessimistici: e si evidenzia una convinzione che la salvezza non può che provenire da un intervento esterno. È peraltro vero che «in the juvescence of the year / Came Christ the tiger» (“nell’adolescenza dell’anno / venne Cristo la tigre”), ma è stato divorato; pure «the tiger springs in the new year. Us he devours» (“la tigre balza nell’anno nuovo. Ci divora”) perché Gerontion – cioè la civiltà e la cultura occidentali in dissoluzione – non hanno ancora saputo operare sapientemente per la loro salvezza, cioè per una riacquisizione attiva e positiva del Cristo.
Il grigiore della vita e dell’ambiente di Gerontion, il suo infinito squallore (rappresentati in numerosi episodi, fatti, luoghi, persone inutili, fatui, vuoti), sono naturalmente quelli dell’Europa (dell’Occidente) dell’epoca, la cui cultura e civiltà potranno essere ripristinate – secondo la concezione eliotiana del tempo che è ciclica, circolare, non rettilinea – con una rinnovata quanto problematica riadesione al cristianesimo: non a caso, ma una ventina d’anni dopo, nel 1939, Eliot pubblicherà il volume di saggi The Idea of a Christian Society, dove si auspica l’instaurazione di una società liberal-democratica ispirata ai valori evangelici.
A Song for Simeon (Canto per Simeone)
Composto nel 1928; poi in Ariel Poems, Londra 1930.
Si rifà al Vangelo di Luca 2, 25-35: «Vi era in Gerusalemme un uomo di nome Simeone, uomo giusto e pio che attendeva prossima la consolazione d’Israele, e Spirito Santo era su di lui. A lui era stato rivelato dallo Spirito Santo che non avrebbe visto la morte prima di vedere il Cristo del Signore. Ed egli, mosso dallo Spirito, venne nel tempio, proprio nel punto che i genitori del bambino Gesù ve lo portavano per sottoporlo al rito della legge; e lo prese nelle braccia, e lodò Dio e disse: “Ora, o Signore, licenzia il tuo servo, secondo la tua parola, nella pace; poiché i miei occhi hanno visto la salvezza che tu hai preparata al cospetto di tutti i popoli, luce di rivelazione alle genti e gloria d’Israele popolo tuo”. Stupivano il padre e la madre per ciò che di lui sentivano dire. E Simeone, dopo averli benedetti, si volse alla madre Maria e disse: “ Ecco, costui è qui per la rovina e la redenzione di molti in Israele, e a segno di contraddizione; e tu stessa avrai l’anima trafitta da una spada; affinché dai cuori si manifestino i segreti pensieri”» (trad. di Diego Valeri).
Ancora abbiamo un uomo prossimo alla morte, come Gerontion. A sua differenza, Simeone è convinto di avere compiuto una vita retta e giusta, secondo la fede e la solidarietà, ma è incerto se tutto ciò sia sufficiente a garantire una giustizia divina positiva nei suoi confronti, data la inevitabile inadeguatezza umana, l’impossibilità di attingere alla perfezione. Simeone vede Gesù neonato e, nella sua sapienza profetica ispirata dallo Spirito Santo, appunto teme che proprio il Cristo metterà a nudo il cuore degli uomini e che verrà un’epoca di dolore e di desolazione (di contraddizione): allora ignora se ci sarà salvezza per lui e per gli uomini che pure si sono ritenuti giusti o hanno almeno cercato di esserlo, compresi quelli delle generazioni successive alla sua; non sa se avrà accumulato sufficienti meriti e se saranno adeguati al futuro mondo nuovo. È quindi timoroso di questo mondo nuovo che sorgerà dopo la morte e la risurrezione di Cristo, e poiché la sua morte ormai prossima precede l’opera salvifica del Redentore prega perché quel che ha fatto o ha cercato di fare, secondo quelle che saranno le verità da Lui predicate, gli valga la salvezza e la pace eterna.
Animula
Composta a Londra nel 1929; poi in Ariel Poems citati.
È un’amplificazione del passo dantesco (Purgatorio, XVI, 85-93) in cui Marco Lombardo, enunciando al Poeta le responsabilità umane e non divine delle colpe degli uomini, gli espone la condizione dell’anima appena uscita dalle mani creatrici di Dio: «Esce di mano a lui che la vagheggia / prima che sia, a guisa di fanciulla / che piangendo e ridendo pargoleggia, // l’anima semplicetta che sa nulla, / salvo che, mossa da lieto fattore, / volontier torna a ciò che la trastulla. // Di picciol bene in pria sente sapore; / quivi s’inganna, e dietro ad esso corre, / se guida o fren non torce suo amore». (A questo punto il discorso di Marco piega verso il suo fine principale, civile e politico: «Onde convenne legge per fren porre; / convenne rege aver, che discernesse / de la vera cittade almen la torre. // Le leggi son, ma chi pon mano ad esse?»).
Restando a Eliot, continua in un certo senso la problematica del timore espressa da A Song for Simeon. Il poeta anglo-americano, sappiamo, non è mai personale, soggettivo, bensì antiromanticamente oggettivo, si è tuttavia voluto vedere in questa poesia una indiretta dichiarazione autobiografica circa la propria conversione in merito alla difficoltà di vivere con autenticità e coerenza una vita cristiana. L’anima è esposta alla tentazione di soggiacere ai valori e alle lusinghe mondane che platonicamente sono solo riflessi, parvenze, di considerarli entità concrete e reali (ironia sulla funzione didascalica dell’Encyclopaedia Britannica!) mentre non sono che simulacri della vera Realtà trascendente. C’è quindi il pericolo che quando ritorna a Dio sia stata contaminata e infetta dai disvalori della temporalità. In conclusione (v. 37): «Pray for us now and at the hour of our birth», “Prega per noi ora e nell’ora della nostra nascita”: e non “nell’ora della nostra morte” (come recita l’Ave Maria) perché la nascita fisica, corporea, è in realtà una morte o per lo meno un rischio di morte dell’anima.
[1]È l’incipit del sesto degli otto versi in provenzale (140-147) che Dante mette in bocca al trovatore Arnaut Daniel nel canto XXVI del Purgatorio (lussuriosi): «Tan m’abellis vostre cortes deman, / qu’ieu no me puesc ni voill a vos cobrire. // Ieu sui Arnaut, que plor e vau cantan; / consiros vei la passada folor / e vei jausen lo joi qu’esper, denan. // Ara vos prec, per aquella valor / que vos guida al som de l’escalina, / sovenha vos a temps da ma dolor!». Arnaut Daniel, dice a Dante Guido Guinizelli anch’egli in scena, fu il «miglior fabbro del parlar materno» (v. 117), vale a dire il miglior artefice del volgare, cioè della lingua che si apprende dalla bocca della madre, in contrapposizione alla gramatica, cioè il latino, che è la lingua dei dotti.
[2]«The Hollow Men (Gli uomini vuoti) […] ove si voglia vedere in The Waste Land un’epica della dissoluzione, potrebbero starne a rappresentare il commento lirico, una sorta di coro, quale in effetto essi sono» (Carlo Izzo, La letteratura nord-americana, Sansoni-Accademia, Firenze-Milano 1967, p. 527).
[3]Marcus Cunliffe, Storia della letteratura americana, trad. it., Mondadori, Milano 1962, p. 510.
[4]«Imagismo. Movimento poetico sviluppatosi in Inghilterra e negli Stati Uniti tra il 1910 e il 1917, sulla base delle teorie estetiche di T. E. Hulme e F. S. Flint, in opposizione alla concezione romantica della poesia. L’esponente più noto del movimento fu Ezra Pound, che nel suo volume Ripostes del 1912 coniò il termine “Les Imagistes” per coloro che si rifacevano ai poeti classici greci e latini, soprattutto minori, alle poesie cinesi e giapponesi, soprattutto alle forme haiku e tanka, e infine ai poeti francesi moderni, per purificare la poesia da ogni elemento di sovrabbondanza verbale, imprecisione di immagini e monotonia di ritmo. Gli imagisti ricercavano immagini concrete, dense di significato, metaforiche, un linguaggio quotidiano di estrema precisione, ritmi e cadenze musicali aderenti alla parlata comune e non a rigidi schemi metrici. In America gli imagisti scrissero sulla rivista “Poetry” di Chicago il cui numero del marzo 1913 contiene definizioni e princìpi dati da Flint e da Pound. Nel 1914 Pound pubblicò nell’antologia Des Imagistes le poesie degli esponenti del movimento, una dozzina circa tra cui gli americani J. G. Fletcher, H Doolittle, W. C. Williams, A. Lowell e Pound stesso, e gli inglesi F. S. Flint, R. Aldington, D. H. Lawrence, F. M. Ford. Disaccordi con Amy Lowell portarono all’allontanamento di Pound e alla scissione del gruppo che sotto la direzione della poetessa pubblicò ancora tre antologie intitolate Some Imagist Poets (1915, 16, 17) e poi si sciolse. Nonostante la breve durata e la limitatezza dei suoi orizzonti, l’Imagismo ebbe influsso notevole sullo sviluppo della poesia moderna e segnò un importante momento di convergenza delle due tradizioni poetiche, quella americana e quella inglese» (Paola Rosa-Clot Tite, in Storia della civiltà letteraria degli Stati Uniti, Dizionario storico, biografico e bibliografico a cura di Romano Carlo Cerrone, UTET, Torino 1990, pp. 173-74). Per una trattazione più estesa – riguardante i caratteri generali, i manifesti letterari, le singole personalità – si veda Santa Boi, Gli Imagisti, in Letteratura americana. I contemporanei, diretta da Elémire Zolla, Pagine, Roma 2006, I, pp. 367-93.
[5]Tecnica poetica teorizzata da Eliot nel saggio Hamlet and his Problems compreso nel volume The Sacred Wood (1920): «L’unico modo di esprimere emozione in forma d’arte è di trovare un “correlativo oggettivo”; in altre parole, una serie di oggetti, una situazione, una catena di fatti che divengano la formula di quella particolare emozione; tale che, quando i fatti esterni – che devono terminare in esperienza sensoria – siano dati, l’emozione sia evocata immediatamente» (trad. di Roberto Sanesi, Fratelli Fabbri Editori, Milano 1967, p. 164).
[6]Ci siamo permessi di riportare i versi di Dante secondo il testo critico stabilito da Giorgio Petrocchi, Einaudi, Torino 1975.
[7]Per l’inaffidabilità o la relatività della memoria si veda anche Montale, nel 1947: «Memoria / non è peccato fin che giova. Dopo / è letargo di talpe, abiezione // che funghisce su sé… – » (Voce giunta con le folaghe, vv. 42-45, in E. M., La bufera e altro, a cura di Ida Campeggiani e Niccolò Scaffai, Mondadori, Milano 2020, p. 305).
[8]A proposito della grande maturità intellettuale mostrata sùbito dal poeta, Cunliffe, alludendo proprio a Gerontion e al Tiresia della Waste Land, afferma che «Eliot parla da vecchio, mentre è ancora giovane» (Storia della letteratura americana, cit., p. 516).


