Paolo Santarcangeli saggista tra fenomenologia del sacro, antropologia culturale e psicologia del profondo, di Loris Maria Marchetti
Com’è noto, Paolo Santarcangeli[1] acquistò larga e meritata fama internazionale innanzi tutto quale studioso di storia dei miti e dei simboli religiosi, in altri termini di “fenomenologia del sacro”, correlando questa tematica, si direbbe inevitabilmente, con risvolti di ordine estetico e con istanze antropologiche e di psicologia del profondo lungo una linea originalmente sensibile alla lezione di Carl Gustav Jung e Károly Kerényi[2]: in questo àmbito, oltre a centinaia di saggi apparsi su riviste italiane e straniere[3], Santarcangeli pubblicò alcuni volumi di capitale importanza. La cordiale famigliarità con lui, durata dal 1977 all’anno della sua scomparsa, mi indusse però a convincermi (o, per lo meno, a fortemente sospettare) che Paolo, uomo e intellettuale attivo in plurime direzioni, si ritenesse soprattutto un poeta. E non senza ragione. La sua produzione poetica, affatto originale e senza riscontro nel quadro italiano a lui contemporaneo, raggiunge una qualità espressiva molto elevata e si situa in un percorso di nobile e sostenuta ispirazione e di nitida eleganza formale che – fatte le debite proporzioni – non esiterei a ricollegare con Goethe attraversando a ritroso Rilke (con una spruzzata di altri lirici primonovecenteschi quali George, Trakl, Dehmel), Hölderlin, Novalis, come dire i maggiori poeti moderni di lingua tedesca[4]. Se però credo di poter affermare che i suoi più autentici e compiuto “poemi”, i testi dove il suo innato senso cosmico della poesia si esprime al piano più alto, sono i trattati di tema religioso-sacrale ed estetico-antropologico è forse perché di letteratura in versi – buona ma, spesso, anche modesta, deludente – ne siamo stati da sempre assai forniti mentre di opere che, sia pure in prosa – prosa di limpida ed elegante espressività – e in prospettiva scientifica, si addentrino mirabilmente nei meandri della psiche, dell’inconscio, del profondo per analizzarne le varie fenomenologie che poi ne scaturiscono, non ne abbiamo possedute molte di eccellente livello nel secondo Novecento.
Rammentando che negli anni Quaranta egli fu il curatore (con introduzione, note e traduzione) di buona parte dei “Breviari mistici” pubblicati dai Fratelli Bocca a Milano e che in séguito diede alle stampe il volume Santa Teresa d’Avila: Amore divino, scritti scelti, commenti e biografia, Rusconi, Milano 1980 (Premio “Città di Palermo” 1982), le opere santarcangeliane nel settore su cui intendo soffermarmi qui in breve sono sostanzialmente quattro, costretto, per assoluta incompetenza linguistica, a non proferir sillaba sui volumi di saggi scritti in ungherese e pubblicati in Ungheria.
Hortulus litterarum ossia Magia delle lettere (Scheiwiller, Milano 1965) è un’affascinante e dottissima ricerca sul simbolismo delle lettere («Dalla A alla Z») in vari alfabeti, «una divagazione e venticinque variazioni sui segni, sui significati e sui simboli». Impreziosita da una vertiginosa sezione sul rapporto tra segni della scrittura e pittura, l’intera trattazione di svolge alla luce di un pensiero di Teofrasto Paracelso: «Con ciò non si vuole dire […] che tutte le cose derivino dall’alfabeto; anzi, nessuna ne trae origine, poiché quello che è contenuto nell’alfabeto giunge ad esso dall’esterno. Ma nel firmamento ogni cosa sta nella sua origine e alla lettera» (Labyrinthus Medicorum, cap. II).
Il libro dei labirinti. Storia di un mito e di un simbolo (Vallecchi, Firenze 1967; 3ª ediz. Sperling & Kupfer, Milano 2000, con Prefazione di Umberto Eco), forse l’opera più famosa di Santarcangeli con numerose edizioni all’estero (come la precedente), approfondisce su parametri presso che enciclopedici la ramificata fenomenologia della inquietante immagine archetipica del labirinto, studiata nelle sue plurime varianti e articolazioni mitiche, religiose, fisico-naturalistiche, antropologiche, architettoniche, artistiche, ludiche, psichiche: «Nel simbolo del labirinto si manifesta il modo con cui, nelle varie epoche storiche, l’uomo ha rappresentato a sé stesso il proprio destino, sempre restando fermo, tuttavia, un concetto-guida essenziale: la consapevolezza che noi potremo sempre raggiungere la libertà del nostro animo; ora per mezzo della fede ed ora con la conoscenza o magari soltanto la perseveranaza che opponiamo al destino; e questo anche se la via sarà lunga, anche se l’ideale di una via breve e chiara e diritta resterà, purtroppo, un sogno non attuabile, una speranza vana» (pp. 360-61)[5].
Nekyia. La discesa dei poeti agli inferi (UNI, Milano 1981) è incentrato su un celebre tòpos archetipico della Weltliteratur e registra con passione e meticolosità ammirevoli le catabasi mitiche o ascrivibili a rappresentazioni religiose o a personaggi favolosi, letterari, musicali, come anche frutto di tradizioni etnologiche e credenze universali. Naturalmente gli autori di tali personaggi ne sono i responsabili delle discese, ma spesso la loro creatività artistica è espressione dei loro inferni personali, interiori, talvolta esternati in forma estetica o filosofica: qui si apre un gigantesco elenco che, nelle varie tipologie, non può non comprendere Omero, Virgilio, Dante, Ariosto, Tasso, Milton, Blake, Goethe, Hölderlin, Kleist, Nietzsche, Poe, Baudelaire, Rimbaud, Valéry, Joyce, Kafka, T. S. Eliot, Pound, Broch, Thomas Mann, Borges e molti altri. Il significato centrale del tema sta nel fatto che chi è stato rappresentato come disceso vivo agli inferi ancora vivo ne è risalito: allora che cosa ha comportato quella discesa (o quella “personale”, autoreferenziale degli autori di tali personaggi), cioè a dire la presa di contatto con le potenze demoniache? «Un tuffo nella colpa e nell’incosciente oppure una inevitabile resa dei conti? Un cammino di morte e rigenerazione? Un’inserzione dinamica ed irresistibile dell’elemento mitico nel contesto del discorso poetico?». In ultima analisi, il descensus nel regno dei mostri (quelli, si chiede Santarcangeli, generati dal sonno della ragione, secondo avvertì Goya?) è necessario perché senza quell’esperienza «noi non saremmo noi stessi; la mancata rivelazione degli orrori congeniti, nascosti nelle caverne sotterranee del nostro vivere segreto soffocherebbe l’esperienza catartica che, simile ad un bagno lustrale, ci libera e rende disponibili – per quanto tempo? – ad un operare positivo e luminoso. Senza quella rivelazione o quel contributo “linfatico” degli abissi forse si disseccherebbero le radici della poesia oppure – ma è la stessa cosa! – le radici della realtà e verità totale».
Homo ridens. Estetica, filologia, psicologia, storia del Comico (Olschki, Firenze 1989) è un vastissimo studio storico e analitico di tale categoria sviscerata in tutte le sue valenze. Avendo avuto la gradita opportunità di seguirne e vederne la nascita, non dal profilo concettuale e creativo ma da quello della concreta realizzazione editoriale del libro, su quest’opera ingente spenderò qualche parola in più.
«L’Umorismo e il Comico sono, in primo luogo, un segno e un simbolo di umanità: non solo, ma di riflessione, di maturità, di capacità critica, insomma, di libertà. Infatti, l’uomo incivile non ha “senso d’umorismo” oppure lo ha ad un livello spregevole; e non lo ha il despota, né l’uomo solitario, né l’animale»: così informa nell’Introduzione (p. 3) l’Autore e francamente ci pare impensabile non concordare con lui. Non solo perché già sappiamo, per nostra ed altrui esperienza, che senza una certa dose di spirito e di ironia (remedium concupiscentiae, pharmacum subtile) il commercio quotidiano con la vita sarebbe senza dubbio assai più aspro di quanto già non sia, ma perché tanta è la ricchezza di dottrina e di gusto profusa nel volume che non si potrebbe comunque non essere sedotti dall’acutezza delle analisi e dalla varietà degli orizzonti signorilmente prospettati.
L’opera, quasi un affresco enciclopedico della materia, è suddivisa in tre sezioni che affrontano da diverse visuali lo sterminato argomento.
La prima, di carattere prevalentemente teorico-istituzionale, prende in esame ogni forma – letteraria, artistica, psicologica, etnologica, ecc. – a vario titolo riconducibile al Comico: ci imbatteremo quindi nell’umorismo, nell’ironia, nel sarcasmo, come pure nella commedia, nella satira, nella parodia, nella barzelletta, nel Witz, non senza far conoscenza con gli eroi comici, da quelli dell’antichità e della tradizione letteraria ai buffoni ed ai clowns.
La seconda parte, di timbro marcatamente storico (ma teoria e storia, come si sarà compreso, in sostanza vanno a braccetto), si sofferma sui tratti peculiari dell’umorismo presso popoli e civiltà che ne sono stati particolarmente sensibili: il posto d’onore spetta di diritto agli Inglesi, ma anche i Tedeschi, i Francesi, gli Italiani, gli Ebrei e gli Ungheresi si sono difesi degnamente e lo dimostra un’ampia documentazione teorica e critica. La trattazione chiama quindi in causa, parallelamente, teorici, filosofi, artisti che dal Settecento agli inizi del Novecento si siano dedicati allo studio di tali caratteri o vi abbiano posto una non trascurabile attenzione, magari breve ma geniale.
La terza sezione analizza ancora più partitamente scritti e concezioni di grandi intellettuali del pieno Novecento (Bergson, Freud, Ortega y Gasset, Bakhtin, Lukàcs, Jankélévitch, Koestler e altri) che alle tematiche psicologiche, artistiche, socio-politiche, folkloriche in qualche misura legate al Comico e all’umorismo hanno dedicato studi cospicui e approfonditi.
Le Riflessioni conclusive, oltre a suggellare il lungo periplo gagliardamente affrontato, dedicano un doveroso omaggio alla «figura dell’umorista» e si soffermano su quello che potrebbe essere in futuro, nella nostra cultura sempre meno spontanea e più tecnomeccanica, la sorte riservata alla comicità e al sorriso. Santarcangeli pensa che il Comico non morirà mai, in quanto modalità inestirpabile dello spirito umano, ma ritiene, in via ipotetica, che possa estinguersi «l’esercizio del Comico, la sua attuazione comunicativa, ossia l’umorismo» (p. 427). «L’umorismo è filosofia» sostiene l’umorista ungaro-inglese George Mikes, alquanto incline al pessimismo «il guaio è che oggigiorno tutti cercano di farne soldi»[6] (Ibid.).
Ma forse l’uomo si salverà e salvandosi manterrà vivo anche quel sale essenziale alla vita e alla libertà che, si è visto, è l’umorismo – magari esasperandone le espressioni più crudeli, aggressive, volgari che sempre hanno affiancato quelle più innocenti e serene. Di fatto, ancora una volta non possiamo non trovarci d’accordo con Santarcangeli: «Un mondo senza riso né sorriso: che ipotesi agghiacciante!» (p. 10).
Sperando che non spunti davvero qualche Jorge de Burgos a cercare di attuarla.
Nel 1948 Santarcangeli fu insignito del Premio “ Burzio” per i saggi di Nuovo Umanesimo, rimasti, per quanto mi consta, inediti almeno come volume comprensivo. Non so ora se abbia senso collocare nella produzione saggistica dell’Autore una gemma come Confiteor (Scheiwiller, Milano 1993, con Prefazione di Geno Pampaloni), piccolo libro strettamente autobiografico di “confessioni” appunto, che la sorte volle far l’ultimo pubblicato da Paolo ma che ultimo avrebbe potuto benissimo non rimanere, considerando l’inesausta sua operosità anche negli ultimi due anni di vita[7]. Ma alla tentazione di un pur rapido accenno non so resistere. Il volumetto nella prima (Confiteor: un messaggio) e nella terza parte contiene la summa delpatrimonio di saggezza e di esperienza a cui l’Autore era pervenuto dopo decenni di meditazione e di lavoro, ed espone il suo pensiero ultimo su temi di respiro universale quali vita, morte, dolore («Dico […] che la morte di qualsiasi essere è un atto di ingiustizia, anzi di prepotenza; esso è infame e vergognoso. La cessazione dell’ultimo verme o di un minimo uccellino scatena in me un cordoglio drammatico, una con-doglianza infinita […]. Ogni morte è una perdita irreparabile ed uno scandalo. […] L’esistenza della morte appare inconciliabile con l’ipotesi di un Dio», p. 37. Queste affermazioni sarebbero da interpretare rettamente e commentare adeguatamente, considerando che Santarcangeli, israelita di nascita ma non praticante, nutrì comunque una profonda religiosità cosmica come attestato anche dal suo interesse al settore di cui ci stiamo occupando), amore (appassionata e cavalleresca fu la sua inclinazione verso l’ “eterno femminino”), poesia, musica – di cui fu competente cultore e che onorò nella veste di valente pianista amatoriale. La seconda parte (Stasi dell’essere), quasi in guisa di intermezzo, allinea una quindicina di poesie che integrano e arricchiscono con la magìa delle immagini il messaggio filosofico-sapienziale affidato nelle altre parti alla prosa.
Quando la morte lo colse, Paolo Santarcangeli stava ancora attendendo a un vasto lavoro sul mito delle Sirene, vagheggiato per decenni e rimasto incompiuto[8].
[1]In origine Pal Schweitzer, appartenente a una famiglia del ceppo ebraico-ungherese di Fiume, nacque in questa città il 10 giugno del 1909. Laureatosi in Giurisprudenza presso l’Università di Padova, esercitò la professione di avvocato fino al 1940. Con l’entrata in guerra dell’Italia, ebbe inizio per lui «ebreo e fiumano per giunta» un penoso periodo di internamento che lo vide “ospite” in varie città italiane; condizione che dopo l’8 settembre 1943 si trasformò in quella, ancor più tragica, di ricercato. Scampato, talvolta in modo fortunoso, alla barbarie nazifascista e non desiderando, per democratica coerenza, farsi suddito del regime di Tito, a guerra finita si stabilì a Roma dove divenne un alto funzionario dell’I.R.I. Nel giugno 1948 passò alla “Olivetti” di Ivrea, azienda presso la quale, dal ’53 all’inizio del ’61, fu direttore centrale. Espletate altre importanti mansioni dirigenziali, nella seconda metà degli anni Sessanta fondò la cattedra di Lingua e Letteratura Ungherese presso l’Università di Torino, città dove si spense il 22 novembre del 1995.
[2]Di Jung, Santarcangeli tradusse il volume di saggi Realtà dell’anima (Die Wirklichkeit der Seele, 1934), Bollati Boringhieri, Torino 1963 (2ª ediz., 5ª impressione 1988).
[3]Impossibile in questa sede citarne anche solo una scelta, ma mi piace segnalarne, a mo’ di esempio, almeno uno, fascinosamente eloquente e significativo: La torre: tra cielo e terra, nello splendido volume di AA. VV., Il mondo delle torri. Da Babilonia a Manhattan, Mazzotta, Milano 1990 (catalogo della mostra omonima tenuta al Palazzo Reale di Milano dal 15 giugno al 9 settembre del 1990).
[4]Non sono naturalmente da escludere possibili tangenze e accostamenti anche con la lirica ungherese otto-novecentesca. Nel 1991 Santarcangeli pubblicò la silloge Specchio e diario nella collana letteraria “La linea d’ombra” da me diretta per le Edizioni dell’Orso di Alessandria: il libro risultò vincitore del Premio di Poesia “Città di Moncalieri” nello stesso anno. Precedentemente con la raccolta Morte d’un guerriero (Ubaldini, Roma 1966) aveva vinto il Premio “Città di Torino” 1966. Tre opere poetiche dell’Autore, scritte in ungherese, sono state edite solo in Ungheria.
[5]Il 12-14 giugno del 1981 si svolse a Milano al Palazzo delle Stelline un Convegno sul Labirinto, idealmente presieduto da Jorge Luis Borges («splendido cultore dei labirinti della fantasia», Maria Brunelli) e inaugurato da Paolo Santarcangeli, che registrò, tra gli altri, interventi di Umberto Eco, Emanuele Severino, Angus Fletcher, Hermann Kern ecc. Successivamente, dal 16 giugno al 30 agosto fu allestita al Palazzo della Permanente la mostra In Labirinto, realizzata in forma di labirinto da Paolo Portoghesi e curata per la parte storica da Hermann Kern, direttore del Kunstraum di Monaco, e per la parte figurativa contemporanea da Achille Bonito Oliva.
[6]«Humour is philosophy: the trouble is that everyone nowadays tries to make money out of it».
[7]Ancora pochi giorni prima della scomparsa, stavamo discutendo con Paolo un progetto editoriale che raccogliesse i suoi opera omnia poetici, o almeno una cospicua antologia definitiva.
[8]Oltre alla saggistica, oggetto magnis itineribus di questo articolo, e alla poesia, la produzione letteraria di Santarcangeli comprende due robuste opere in cui si rivela prosatore di vena felicissima e accattivante vigore narrativo: Il porto dell’aquila decapitata (Vallecchi, Firenze 1969; 2ª ediz. Del Bianco, Udine 1988), dettagliata e partecipe storia di Fiume, della sua civiltà, della sua cultura fino allo scoppio della seconda guerra mondiale; e In cattività babilonese (Del Bianco, Udine 1987, con Prefazione di Leo Valiani), cronaca autobiografica drammatica se non tragica, ma illuminata da uno straordinario equilibrio interiore non esente da lampi di humour e ironia, di confinato politico, di perseguitato razziale ed esponente civile della Resistenza nel corso del conflitto. Da aggiungere la cospicua opera del magiarista con interventi critici, traduzioni, antologie di scrittori (in specie poeti) ungheresi.
Per un’indicazione bibliografica essenziale si veda: Loris Maria Marchetti, Santarcangeli, Paolo, in Grande Dizionario Enciclopedico, vol. XVIII, UTET, Torino 1990; Id., Un intellettuale mitteleuropeo a Torino: Paolo Santarcangeli, in «Annali del Centro “Pannunzio”», XXXII, Società Tipografica Ianni, Santena (Torino) 2001 (poi, insieme con Tre note di lettura su Paolo Santarcangeli, in Muse a Torino. Figure della cultura dell’Otto e Novecento, Achille e La Tartaruga, Torino 2013); Mario Casadio Farolfi, La salvezza nell’Arca di Noè. Storia di Paolo Schweitzer Santarcangeli, ebreo ricercato dai fascisti e rifugiato ad Imola grazie a Don Giulio Minardi della chiesa del Carmine, Bacchilega Editore, Imola 2024; AA. VV., Labirinti e porti di Paolo Santarcangeli, Atti del Convegno Scientifico Internazionale, Fiume, 31 ottobre 2022, a cura di Maja Đurđulov e Iva Peršić, Università degli Studi di Fiume (Facoltà di Lettere e Filosofia e Dipartimento di Italianistica) e Associazione Fiumani Italiani nel Mondo, Foxstudio, Fiume 2024 (gli ultimi due volumi citati con copiose e aggiornate bibliografie ).


