L’accurato e coinvolgente articolo di Pier Franco Quaglieni Sapegno, Croce, Gobetti e Marx mi induce a qualche ulteriore considerazione in margine al complesso argomento.
Come è noto, la fama dell’illustre italianista aostano riposa soprattuto sulle opere Il Trecento (1934; poi come Storia letteraria del Trecento, 1963), Compendio di Storia della letteratura italiana (I, 1936; II, 1941; III, 1947), gli studi sul Manzoni e sul Leopardi. «Commentatore per antonomasia della “Divina Commedia”» (Quaglieni), 3 voll., 1955-57, condiresse con Emilio Cecchi la garzantiana Storia della Letteratura Italiana (9 voll., 1965-69), opera complessivamente squilibrata ad onta dei contributi parziali spesso eccellenti ma firmati da eminenti studiosi troppo diversi e divergenti per metodologia e impostazione critica.
Veniamo al dunque. Nel suo Disegno storico della letteratura italiana (1948), nella Premessa al capitolo XXVIII, La letteratura del Novecento, Sapegno sminuisce radicalmente la figura culturale e intellettuale del Croce, accanendosi in particolare sul critico letterario: «La critica di Croce è quella che avrebbe potuto fare Carducci: un Carducci ideale, s’intende, provvisto di un bagaglio meno sommario e confuso di idee generali» (p. 727). Carducci, amatissimo dal Croce, fu una bestia nera di Sapegno, al quale sfuggirono presso che interamente le benemerenze del poeta e l’importanza del saggista, accompagnata, quest’ultima, da una veste letteraria di stupenda espressività creativa. Non solo, ma il nostro italianista accusa Croce di misconoscere Leopardi, Baudelaire, Manzoni, la narrativa naturalista e verista, ecc.: e fin qui il grande studioso di Leopardi e Manzoni potrebbe avere qualche parziale ragione. Ma il rimprovero di misconoscenza si estende a d’Annunzio, Pascoli, Pirandello, alla cultura del Decadentismo, e qui la faccenda si fa paradossalmente quasi comica perché se ci fu un interprete che limitò al minimo l’accettazione dei tre grandi scrittori decadenti e post-decadenti, individuandone più difetti che pregi, fu proprio lui, Sapegno. Ma intanto venivano pubblicati i gramsciani Quaderni dal carcere (1948-51) e per quella via l’italianista aostano tendeva a proporsi come il De Sanctis del suo tempo: in proposito si legga nella Avvertenza al volume Ritratto di Manzoni e altri saggi (1962): «… un’idea almeno sommaria degli intenti e dei metodi a cui s’ispira tutta l’attività saggistica qui raccolta, idea da integrare eventualmente con la lettura degli scritti qui dedicati a illustrare la portata e l’attualità della lezione desanctisiana, cui l’autore di queste pagine vuol richiamarsi come ad un modello ideale, anche dove è consapevole d’esserne rimasto, ahimè, troppo lontano» (p. 4). E sappiamo che De Sanctis era la bestia nera di Carducci (troppo distanti per indole e cultura, i due gloriosi letterati), mentre Croce riconobbe in essi due diversi e complementari maestri, dedicando alla loro memoria il fondamentale trattato La Poesia (1936) [1].
[1]Nel campo dell’italianistica più alta, Carlo Dionisotti e Mario Fubini, ad esempio, mai rinnegarono la fedeltà crociana pur percorrendo genialissimi percorsi personali e Giovanni Getto dichiarò che il vero problema non era di essere anticrociani ma semmai postcrociani.