Nella larga cantina, sul banco da lavoro e appoggiati al muro in pietra, ci sono ancora gli attrezzi. La mazza grossa e quella a gemma, usata per segnare la direzione del taglio; i “bozzett”, piccole mazzette con cui si sbozzavano i blocchi di granito; i cunei, il “fer quadar” e la “spadina”, il “punciott” per aprire il taglio e gli stampi per il foro da mina; “l’ungeta” a punta triangolare per le finiture; il “capin”, rudimentale compasso in legno per misurare lo spessore, gli attrezzi per bocciardare la pietra quando viene rifinita. Giancarlo da una vita non lavora più in cava, complice un brutto incidente: durante lo scoppio di una mina le schegge di granito l’avevano colpito in pieno volto. Per l’occhio destro non ci fu nulla da fare mentre il sinistro, pur lesionato, si salvò. Da allora, con i suoi occhiali spessi, passa il tempo facendo lavoretti per se e per gli amici, passeggiando sul lungolago o giocando a ramino al Circolo Operaio. Parla volentieri e racconta di quel lavoro “che mi ha quasi reso cieco ma che rifarei d’accapo se potessi tornare indietro nel tempo”. Libera i ricordi come fossero un fiume in piena. “Tanti anni fa si estraeva la pietra a forza di braccia. S’incideva la vena con scalpelli e martelli per poi infilare nelle fessure i cunei di legno e le livére, le leve di ferro. I cunei, bagnandoli, si gonfiavano aprendo la vena del granito e poi con le leve si staccava il pezzo. Doveva essere un lavoro da bestie, duro come il sasso che ci si trovava davanti”. Poi vennero usate le mine. “Adoperavamo la mazza per battere lo stampo per i fori. Si batteva a turni di un’ora ciascuno ed era una gran fatica. I fori, spesso, superavano i dieci metri di profondità con un diametro di otto-dieci centimetri, e c’erano stampi che pesavano un quintale, un quintale e mezzo. Quando il foro era pronto infilavamo un tubo lungo una quarantina di centimetri, la campana, ancorato con una cordicella e poi la polvere da sparo e la lunga miccia per far brillare la mina. Che botti! Rimbombava tutta la cava e il colpo, come un tuono a ciel sereno, annunciato dal suono del corno, si sentiva su tutto il lago”. Per smuovere i massi fino a raggiungere le vie di strùsa e di lizza, vere e proprie canalizzazioni utili a far scivolare i blocchi di granito lungo la loro discesa a valle, si usavano i curli di legno di betulla, sui quali erano applicate le vere, anelli di ferro con dei fori passanti nei quali venivano infilate le leve per farli ruotare. Ma c’erano anche i macchinosi cric in massiccio legno d’olmo dove un solo cavatore, grazie a marchingegni e ingranaggi, poteva smuovere blocchi di oltre cento quintali. “Ma quella era la vita di una volta, in cava. Adesso è tutto meccanizzato. Usano martelli pneumatici, trivelle. Fanno un decimo della nostra fatica; hanno le protezioni, le mascherine. Ai miei tempi si mangiava pane e polvere di granito e molti dei miei compagni si sono giocati la pelle con la silicosi”. Fino alla prima metà del Novecento l’abilità e la fama di questi scalpellini era diventata proverbiale, favorendone la migrazione in tutta Europa e nelle Americhe. “Ho ancora a casa una cartolina postale che un amico spedì a mio padre nel 1927 dall’Argentina e una foto di mio nonno, anche lui scalpellino, a Parigi, davanti alla torre Eiffel nel 1892, tre anni dopo l’inaugurazione del monumento più famoso della capitale francese”, confida Giancarlo. Il granito più famoso è senz’altro quello rosa di Baveno, estratto dal Monte Camoscio. Roccia pregiata, conosciuta e utilizzata già al tempo dei romani per essere impiegata un poco ovunque. Giancarlo ne è molto orgoglioso: “Il nostro granito ha fatto il giro del mondo. Da Buenos Aires a Nizza, da Bruxelles alla piazza Colonna di Roma. I tre monumenti equestri di Caracas dedicati a Simon Bolivar, le centottanta colonne di via Roma a Torino, la stazione di Santa Maria Novella a Firenze, la cupola centrale della Beata Vergine di Pompei. A Milano, la piazza del Duomo è coperta da 17 mila metri quadrati del nostro granito rosa. C’è n’è dappertutto: persino al santuario dell’Annunciazione di Nazareth, nei cimiteri di Miami e di Hollywood, a Parigi, Ginevra, Praga, Berlino e nelle balaustre della passeggiata a mare di Rapallo”. Parla delle grandi macine per il grano, dell’attenzione che andava prestata al suono del corno che, annunciando lo scoppio della mina, obbligava tutti a mettersi al riparo per non finire sotto qualche masso o rischiare incidenti come quello che era capitato a lui. Ci tiene a mostrare, sfogliando le pagine di un libro ormai logoro, i disegni dei barconi a vela quadrata che, sfruttando la via d’acqua che dal Lago Maggiore, navigando sul Ticino e sui Navigli, consentiva di trasportare gli enormi blocchi di pietra. Ricorda come nelle cave, oltre al prezioso granito, si possano trovare circa sessanta specie di minerali diversi, ad alcuni dei quali questo piccolo paese di lago aveva contribuito a definirne il nome, come nel caso della Bavenite. C’è da capirlo quando si sofferma a guardare, quasi mettendosi sull’attenti, il granitico monumento dedicato ai picasass sul lungolago. E’ un riflesso condizionato, quasi volesse rendere omaggio ai lavoratori della pietra che onorarono nel mondo il nome di Baveno.
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