La sura 112 è la terzultima del Corano ma la ventiduesima come Rivelazione. Ha solo quattro versetti, quindi quando i compilatori hanno sistemato le sure hanno posizionato quelle più brevi (meccane) alla fine, per questo tale sura ha assunto un posto quasi finale.
In arabo tale sura si chiama Al-Ihlas, termine che indica la “pura” fede, dal verbo arabo halasa, “essere puro, schietto, genuino”. La radice si ritrova nell’ebraico halaṣ, “togliere”, “denudare”, che alla forma nifal (nihlas) vuol dire “essere liberato, salvato”. Halasa infatti indica anche una liberazione, specificamente dal politeismo precedente: la sura 112 vuole esprimere il mistero del Dio unico, esprime il Tawhid, il Monoteismo, termine arabo che deriva dal numero arabo “uno”. Invece in arabo il politeismo è detto shirkun, dalla radice araba sharaka, “condividere”, quindi il politeismo è la condivisione di più divinità.
Questa sura si recita con il misbahatun, una sorta di rosario formato da 99 pallini, esattamente come i 99 nomi di Allah. Il termine misbahatun deriva dal verbo arabo sabbaha, “lodare”, infatti abbiamo la espressione araba subhana Allah, “Allah sia lodato”.
La sura 112 rigetta la Trinità cristiana, ma non quella a seguito del Concilio di Nicea del 325, bensì quella derivante dal Concilio di Costantinopoli del 381. In quest’ultimo Concilio si introdusse il Filioque. Padre, Figlio e Spirito Santo è la unica e diversa manifestazione di Dio. Se lo Spirito procede dal Padre e dal Figlio (Filioque), allora Padre, Figlio e Spirito Santo sono Persone uguali e distinte. Per questa ragione c’è in seno alla Trinità una generazione, che però i musulmani non accettano.
qul huwa l-lahu ahadun
inneggia! Lui! Allah è unico
Qul è l’imperativo del verbo qala, “dire, recitare, inneggiare”. La espressione araba “Dio unico”, Allah ahadun, viene ripresa dal Corano a partire da Deuteronomio 6, 4 e da Marco 12, 29-31. In questi passi della Bibbia troviamo lo Shemà, Israel, cioè la formula della unicità di Dio: in ebraico YHWH ‘ehad, “YHWH è unico”. Il tetragramma YHWH non viene pronunciato dagli ebrei, che vi sostituiscono la forma Adonay, letteralmente “i miei signori”. Adonay deriva dalla divinità greca Adōnēs, Adone, che è diventata una divinità cananea dei riti misterici di morte e risurrezione. Nel sincretismo culturale con i babilonesi Adone era sostanzialmente il nome semitico per “signore”, associato al dio Tammuz babilonese, sua moglie era Isthar, che andava a riprendere suo marito negli inferi in un certo periodo dell’anno. Qualcuno mise le vocali di Adonay sotto il tetragramma YHWH e nacque la forma Jeova, che non è il vero nome di Dio ma un mostro filologico, mai attestato nell’antichità, in quanto gli ebrei non conoscevano le vocali esatte di YHWH. Le conosceva solo una persona, il Sommo Sacerdote degli ebrei, che doveva pronunciare il nome esatto di Dio una volta l’anno e tutti gli ebrei, per non udirlo, dovevano urlare il resto dello Shemà, Israel (“Ascolta, Israele, il Signore è il nostro Dio, il Signore è unico”).
Allahu l-ṣamadu
Allah è l’Eterno
Il sostantivo ṣamadu non ha un significato preciso in arabo, infatti ṣamada vuol dire “andare, rifugiarsi, rivolgersi a”. Il sostantivo indica anche “signore”, “eterno”, “immutabile”. In ebraico samad (Numeri 25, 3), significa “legarsi, attaccarsi”. Quindi Allah è colui al quale ci si può attaccare, quindi ci si può rivolgere per un legame stabile, pertanto è l’Eterno e l’Immutabile.
lam yalid wa lam yūlad
non genera e non è generato
Lam è una negazione, yalid è un verbo che presenta una forma perfettiva, pertanto tutta l’espressione è la negazione di un antico passato semitico a prefissi, quindi letteralmente “non ha creato”, allora “non genera”. Ya- è un prefisso maschile: abbiamo qui una delle poche attestazioni in cui Allah viene indicato con il maschile.
Nel protosemitico il verbo aveva tre modi:
- Yiqtul (yi- è il prefisso maschile, la radice qtl significa “uccidere”): serviva a formare il perfetto (ha ucciso)
- Yiqtulu: per l’imperfetto (uccide)
- Qvtl: (dove la v è il simbolo di una qualsiasi vocale) per il permansivo o stativo, che esprime una qualità dell’aggettivo e del sostantivo (colui che uccide).
Quindi il protosemitico non aveva il futuro, esattamente come nell’indoeuropeo.
Dal permansivo si formò questa costruzione: *qabad anaku, “pesante io” diede origine al perfetto *qabaki, “io sono pesante”. Quindi è dal permansivo che nelle lingue semitiche è derivato il perfetto come coniugazione a suffissi (a discapito del yiqtul), invece come abbiamo visto nel protosemitico perfetto e imperfetto erano a prefissi.
Soltanto la lingua araba (e l’accadico) ha fissato il yiqtul del protosemitico per il perfetto ma unicamente in unione con la particella negativa lam. Quindi in arabo troviamo un perfetto con prefisso (assieme a lam, che indica la negazione nel passato), si tratta di forme cristallizzate. Lam yadkur significa “egli non ha ricordato”. Lam yalid, “egli non ha creato”.
In arabo l’imperfetto finisce sempre per –U poiché l’arabo, che è una lingua assai conservativa, rispecchia l’antica vocale dell’imperfetto del protosemitico.
wa lam yakun laku kufuwan ahadun
e non è a lui uguale nessuno.
Bisogna tuttavia osservare che anche per il cristianesimo non c’è nulla di uguale a Dio, in quanto Egli è radicaliter alter, “radicalmente diverso” da ogni cosa creata. Ogni paragone terreno che si può fare riguardo a Dio è meramente accessorio e non sostanziale.
Forse la realtà umana che più si avvicina alla sostanza di Dio è l’amore. Infatti 1Giovanni 4, 8 rivela che
o theos agapē estin
Dio è amore
Per amore Dio si incarna in Gesù. Gesù è l’Uomo Dio che decide di morire in croce come sacrificio vivente a Dio Padre con lo scopo di ottenerci il perdono dei peccati.
Quello che è successo in maniera cruenta duemila fa si rinnova in maniera non cruenta in ogni Santa Messa, che è il sacrificio di Cristo e la sua risurrezione. Infatti il sacerdote offre pane e vino consacrati, che sono corpo e sangue di Cristo.
Nei primi secoli cristiani la Santa Messa era detta in greco agapē, che vuol dire “amore”. Dopo la creazione, è il più grande atto di amore che Dio avesse mai potuto fare a nei confronti degli esseri umani. Dio ci ha lasciato tutto sé stesso come pane e vino!
La Beata Speranza di Gesù diceva che nella Eucaristia abbiamo sia il nutrimento del corpo sia il nutrimento dell’anima. Il Salmo 144, 16 canta:
poteah ‘et yadeka umasbia lekal hay raṣon
tu apri la mano e dai il cibo a volontà a ogni vivente
Nel Padre nostro (Matteo 6) Gesù ci insegna a pregare e ci invita a chiedere così a Dio Padre:
ton arton ēmōn ton epiousion dos ēmin sēmeron
dacci oggi il nostro pane quotidiano
Nella Bibbia il pane (in greco artos, in ebraico lehem) non è solo il dono della farina cotta bensì in genere tutto quanto ci è necessario per vivere, infatti in Genesi 3, 19 Dio dice “con il sudore della fronte mangerai il pane”.
È interessante anche il termine greco epiousion, assente nel greco contemporaneo degli evangelisti (eccezion fatta per la versione parallela del Padre nostro di Luca 11), che può derivare dal verbo eimì, “essere”, quindi indica il pane necessario per l’essere, per il sostentamento, oppure dal verbo éimi, venire, quindi indica il pane “che viene”, quello futuro, alludendo forse a quello perfetto del Regno dei cieli.
San Girolamo riferiva che nel “Vangelo secondo gli Ebrei” (probabilmente si tratta della versione originale del Vangelo di Matteo, oppure del Vangelo dei Nazareni, un apocrifo del Nuovo Testamento andato perduto) epiousion è l’equivalente dell’aramaico māḥār, che può assumere due significati, con il riferimento a Esodo 16. Pane “per domani” (lemāḥār) o pane “fino a domani” (‘ad māḥār), ossia per oggi. Nel primo caso il riferimento è alla doppia razione data alla vigilia del sabato. “Pane per domani” potrebbe sottintendere anche che il povero ha bisogno di cibo per il giorno seguente e cerca di procurarselo con la paga di “oggi”: pertanto il pane dato oggi sarebbe la paga ricevuta oggi per procurarsi il pane per domani.
Dato che il termine epiousion non era frequente, sarebbe eccessiva una interpretazione salvifica di questo nutrimento, come il pane “che viene”, nel senso che sarebbe stato dato dopo la istituzione dell’Eucaristia. C’è anche il fatto che Gesù stava parlando ai suoi discepoli, cioè alla comunità che lo seguiva, quindi è più probabile pensare a un riferimento concreto: il pane necessario oggi o il pane per il giorno dopo.
In ogni modo, gli evangelisti di solito intendevano le parole di Gesù per tutta la comunità cristiana, di tutti i tempi, pertanto non è da escludere che epiousion si riferisca all’Eucaristia, che si iniziò a celebrare da subito nella chiesa primitiva, come testimonia Paolo.
È fuor di dubbio che il pane più importante che Dio può darci altro non è che l’Eucaristia, considerata la fonte e il culmine della vita cristiana in quanto in essa vi è la presenza vera e reale del corpo, del sangue, dell’anima e della divinità di Nostro Signore Gesù Cristo.
San Tommaso d’Aquino asseriva che tutte le grazie che Dio dona agli uomini ci provengono dalla Eucaristia. L’uomo non ha necessità solo del pane materiale per sostentarsi nel cammino della vita, che pure è necessario ed è un dono che proviene dall’amore di Dio. L’uomo ha bisogno soprattutto della Eucaristia, che nutre squisitamente lo spirito.
L’uomo non solo è affamato di cibo materiale ma soprattutto di cose spirituali. L’uomo ha un’anima immortale, siamo esseri spirituali in un corpo, quindi abbiamo necessità mistiche e non solo materiali. E quelle spirituali sono le più importanti ogni giorno della nostra esistenza terrena. Il mondo può solo placare, e temporaneamente, la fame dello stomaco ma l’Eucaristia sazia anche la fame dello spirito. Cristo è l’unica cosa necessaria, dice il vangelo.
È vero come dice il Corano che non è possibile istituire un paragone tra Dio e le cose terrestri, ma Dio si comporta con noi come un buon padre e una buona madre saziando le nostre fami. Ogni volta che mangiamo il pane dobbiamo ringraziare il Signore che ce lo dona e ogni volta che mangiamo il suo Corpo risorto dobbiamo ringraziarlo molto di più!
Ogni uomo è creato a immagine e somiglianza di Dio (Genesi 1, 27), quindi ogni uomo è espressione di Dio, meglio, è un aspetto della infinita natura del Creatore. Dio si esprime in ogni uomo dandogli una vocazione unica, una chiamata, un ruolo che solo quella persona può svolgere sulla terra. Ogni uomo è chiamato a realizzare un aspetto di Dio adeguandosi alla vocazione che Egli gli dona. Nessuno può fare quello che deve fare Carlo, Marco o Francesca.
Pertanto il pane materiale e la Eucaristia sono donati a noi da Dio affinché noi abbiamo la forza materiale e spirituale per realizzare quell’aspetto di Dio che solo noi possiamo realizzare. Solo attaccandoci a Dio e ai suoi doni possiamo avere l’energia per proseguire nel mondo. La Bibbia dice giustamente che Dio è la roccia alla quale dobbiamo aderire, e il vangelo proclama che Egli ci dona il suo corpo e il suo sangue per vivere appieno la nostra vita terrena e guadagnarci quella eterna.
In ciò poggia la dignità unica di ogni persona sulla faccia della terra! Ma non possiamo farcela da soli. Abbiamo bisogno anche della Parola di Dio, che ci dica espressamente come dobbiamo comportarci.
La Parola di Dio viene proclamata nella Santa Messa e i sacerdoti sono le nostre guide. È interessante che in arabo il termine imam (colui che guida la preghiera del venerdì dei musulmani) deriva dalla parola araba “mamma”. I sacerdoti cattolici sono i nostri genitori nello spirito. Riceveremo la vita eterna assieme ai sacerdoti che nella vita terrena ci hanno spalancato i misteri di Cristo!
Dobbiamo ringraziare ogni giorno Dio che ci ama così tanto da darci delle guide a nostra disposizione per procedere lungo il Regno di Dio, la Gerusalemme celeste.
Il sacerdote cristiano non solo proclama la Parola di Dio ma consacra anche il pane e il vino facendoli diventare corpo e sangue di Cristo (transustanziazione).
Con la invocazione dello Spirito sulle offerte (epiclesi), la sostanza del pane e del vino viene convertita nella sostanza del corpo e del sangue di Cristo. Del pane del vino rimangono solo gli accidenti, cioè le specie, le apparenze.
San Tommaso d’Aquino (Summa Theologiae III, q75 a4):
“Sopra [a. 2] abbiamo già chiarito che, essendo presente in questo sacramento il vero corpo di Cristo, il quale non può iniziarvi la sua presenza con un moto locale, e neppure esservi presente come in un luogo, come risulta da quanto detto [a. 1, ad 3], bisogna concludere che il corpo di Cristo vi inizia la sua presenza per la conversione in esso della sostanza del pane. Questa conversione però non è simile alle conversioni naturali, ma è del tutto soprannaturale, e compiuta dalla sola potenza di Dio. Da cui le parole di S. Ambrogio [De myst. 53]: «È noto che la Vergine generò fuori dell‘ordine della natura. Ora, anche ciò che noi consacriamo è il corpo nato dalla Vergine. Perché dunque cerchi l‘ordine naturale nel corpo di Cristo quando il Signore stesso Gesù è stato partorito dalla Vergine fuori dell‘ordine della natura?». E a commento del passo [Gv 6, 63]: «Le parole che vi ho dette», a proposito di questo sacramento, «sono spirito e vita», il Crisostomo [In Ioh. hom. 47] afferma: «Sono cioè spirituali, non hanno nulla di carnale né seguono un processo naturale, ma sono state liberate da ogni necessità terrena e dalle leggi che vigono sulla terra». È chiaro infatti che ogni ente opera in quanto è in atto. Ma ogni agente creato è limitato nel suo atto, appartenendo a un dato genere e a una data specie. Quindi l‘azione di qualsiasi agente creato si porta su un certo atto determinato. Ora, la determinazione di qualsiasi cosa al proprio essere in atto dipende dalla forma. Perciò un agente naturale o creato non può causare che una trasmutazione di forma. E così ogni conversione che si compia secondo le leggi naturali è un mutamento formale. Ma Dio è un atto infinito, come si è spiegato
nella Prima Parte [q. 7, a. 1; q. 25, a. 2]. Perciò la sua azione si estende a tutta la natura dell‘ente. E così può produrre non soltanto delle conversioni formali, nelle quali cioè in un medesimo soggetto si succedono forme diverse, ma può trasmutare tutto l‘ente, in modo cioè che tutta la sostanza di un certo ente si converta in tutta la sostanza di un altro. E ciò appunto avviene per virtù divina in questo sacramento. Infatti tutta la sostanza del pane si converte in tutta la sostanza del corpo di Cristo, e tutta la sostanza del vino in tutta la sostanza del sangue di Cristo. Perciò questa non è una conversione formale, ma sostanziale. E non rientra tra le specie delle mutazioni naturali, ma con termine proprio può essere detta transustanziazione”.
È un mistero insondabile un Dio che ama così profondamente l’umanità da incarnarsi come uomo, morire per la salvezza dei peccatori e donarsi come pane e vino da mangiare.
L’amore di Dio è infinito perché proviene da un Dio eterno e infinito. Nessuna mente umana né angelica potrà sviscerare l’amore misericordioso di Dio neppure impegnandosi per tutta l’eternità. Noi siamo uniti al Cuore misericordiosissimo di Dio più di un bimbo nel grembo di sua madre.
Santa Caterina da Siena osservava: Chi non amerebbe a sua volta il Signore se conoscesse con quale grande amore ci ha amati? Geremia 31, 3: “Ti ho amato di amore eterno”.
Dio prima di essere amato deve essere conosciuto, sentenziava Sant’Agostino. La vita è un itinerario alla scoperta di Dio.
I tempi messianici, nei quali Cristo si sarebbe manifestato nella storia, furono profetizzati da Isaia (25, 6-10):
“In quel giorno,
preparerà il Signore degli eserciti
per tutti i popoli, su questo monte,
un banchetto di grasse vivande,
un banchetto di vini eccellenti,
di cibi succulenti, di vini raffinati.
Egli strapperà su questo monte
il velo che copriva la faccia di tutti i popoli
e la coltre distesa su tutte le nazioni.
Eliminerà la morte per sempre.
Il Signore Dio asciugherà le lacrime su ogni volto,
l’ignominia del suo popolo
farà scomparire da tutta la terra,
poiché il Signore ha parlato.
E si dirà in quel giorno: «Ecco il nostro Dio;
in lui abbiamo sperato perché ci salvasse.
Questi è il Signore in cui abbiamo sperato;
rallegriamoci, esultiamo per la sua salvezza,
poiché la mano del Signore si poserà su questo monte»”.
Nell’originale ebraico c’è una costruzione degna di nota, per altro nello stile di Isaia: prima si espone un enunciato (“un banchetto di carni grasse, un banchetto di vini invecchiati”), poi si specifica, ripetendola, l’affermazione generale (“carni grasse con il midollo, vini invecchiati e decantati”). Nella retorica biblica la ripetizione è conforme allo stile elevato. Nella mentalità semitica, inoltre, è tipico che prima si menziona il quadro generale, poi i particolari (per questo, ad esempio, nella creazione prima compare la luce, quindi gli astri).
Nell’originale ebraico la espressione “eliminerà la morte” è “inghiottirà la morte”. Probabilmente si tratta di un riferimento alla mitologia semitica, per la quale la Morte ha ingoiato il dio Baal, prima di essere uccisa da Anat. Nella tradizione ebraica la morte è il complemento oggetto del verbo “ingoiare” (bala’) con Dio come soggetto sottinteso (Dio ha ingoiato la morte), invece le traduzioni greche invertono i termini e hanno “la morte è stata ingoiata per la vittoria” (Teodozione). L’originale ebraico suona: billa’ hammawet laneṣah, “ingoierà la morte per sempre”. La parola ebraica neṣah viene intesa da Teodozione come “vittoria”, significato che può assumere in aramaico.
Dio fa un banchetto e poi la morte viene divorata. Dio sta imbastendo un grande sacrificio con lo scopo di eliminare la morte.
Cristo istituisce l’Eucaristia, che ottiene il perdono dei nostri peccati e quindi la vita eterna. Ma il brano di Isaia è anche una profezia riguardo la Gerusalemme celeste, in mezzo alla quale vi è l’Agnello.
Apocalisse 22, 3-4:
“E non vi sarà più maledizione.
Il trono di Dio e dell’Agnello
sarà in mezzo a lei e i suoi servi lo adoreranno;
vedranno la sua faccia
e porteranno il suo nome sulla fronte”.
Trono di Dio e Agnello sono messi sullo stesso piano, questo indica la pari dignità. Entrambi sono al centro della Gerusalemme celeste per indicare che sono il cardine di essa. Una curiosità linguistica. Nell’originale greco l’autore usa il plurale “sulle fronti” (tōn metōpōn) per evidenziare la dimensione comunitaria della Gerusalemme celeste, quindi della salvezza, indicata dal sigillo del nome di Dio.
Vi era l’agnello pasquale, ucciso dagli ebrei il giorno prima della festività, esattamente il giorno in cui morì Gesù. Inoltre nei sacrifici antichi gli ebrei immolavano un agnello: nel tempio di Gerusalemme i sacerdoti sacrificavano due agnelli al giorno, uno al mattino e uno la sera, in espiazione dei peccati del popolo. Poi, nel Giorno dell’Espiazione vi era un capro espiatorio, che veniva simbolicamente caricato dei peccati del popolo e poi cacciato nel deserto.
Il Signore ordinò agli israeliti di fare memoria ogni anno della Pasqua, nella quale essi scamparono dal faraone (Esodo 12, 26-27). Pertanto il sacrificio più importante era quello del giorno di Pasqua. Giuseppe Flavio ricorda che nel 70 d.C. vennero offerti sull’altare del tempio di Gerusalemme ben duecentocinquantamila agnelli.
Adesso è Cristo il nuovo Agnello pasquale che si sacrifica per l’umanità con lo scopo di togliere il peccato, come si dice espressamente in Giovanni 1, 29 (“Ecco l’Agnello di Dio che toglie il peccato del mondo”). Lo stesso evangelista (19, 36) presenta Gesù conformemente all’agnello pasquale al quale non bisognava spezzare nessun osso (Esodo 12, 46).
Bisogna dire che gli agnelli immolati ogni anno dagli ebrei a Pasqua non avevano una funzione espiatrice, eccezion fatta per la prima Pasqua (quella dell’esodo) e per quella del tempo finale (per quest’ultima vd. Pirqe R. Elieser 29). In ogni modo poco cambia: i cristiani associarono subito il Cristo (quale agnello pasquale) con la liberazione dal peccato, come si evince da Giovanni 1, 29 e dal fatto che l’Agnello vittorioso (sul peccato e sulla morte) di cui parla l’Apocalisse porta incancellabili i segni della immolazione (5, 6.9.12; 7, 14; 13, 8).