Il principio di non contraddizione, formulato la prima volta dal filosofo greco antico Aristotele, sta alla base del concetto di verità nella filosofia occidentale. Il primo a parlare di verità è stato Parmenide. Per Aristotele la verità è una proprietà del pensiero e del discorso, non dell’essere, pertanto non è oggetto della metafisica, bensì della logica. Infatti la verità è presupposta da tutte le scienze: esistono discorsi veri e discorsi falsi, e questi nella maggior parte dei casi non hanno nulla a che vedere con la filosofia.
Quindi quando Aristotele parla di verità non bisogna intendere qualcosa di unico, eterno, trascendente. Non è la verità di cui troviamo cenni nel vangelo, dove si parla di una verità che è Cristo, che salva. È insomma quella verità quotidiana che un grande logico polacco, Tarsky, definì così: “l’enunciato ‘la neve è bianca’ è vero se e solo se la neve è bianca”.
Nella Metafisica Aristotele dedicava molte pagine alla verità in questo senso e dice che c’è un primo tipo di una verità, che riguarda le realtà composte, vale a dire cose diverse che possono stare insieme ma anche non stare insieme, pertanto un discorso che dice che stanno insieme quando stanno insieme o che sono separate quando sono separate, è un discorso vero. Ritornano all’esempio di Tarsky, il discorso vero è quello che dice che la neve sta insieme al bianco, che è una cosa diversa dalla neve, pur essendo un suo attributo: quando la neve sta insieme al bianco facciamo un discorso vero. Ma se aspettiamo qualche giorno la neve diventa grigia e sporca, allora il discorso che oggi ( quando ha appena nevicato) è vero, tra dopo qualche giorno è falso. Non si tratta quindi di una verità eterna. Alcuni parlano di corrispondenza di realtà e pensiero. Ma Aristotele ancora non aveva la concezione di un pensiero separato dalla realtà. Quando tocchiamo una sfera di bronzo, la mano assume la forma della sfera, anche se la sfera è convessa e la mano è concava: per Aristotele tutte le cose hanno una materia e una forma, in questo caso la mano ha assunto la forma della sfera senza averne preso anche la materia. Oppure quando facciamo esperienza dell’acqua, l’acqua è percepita come bagnata, quindi percepiamo le caratteristiche dell’acqua. Quando passiamo all’intelletto, ciò consiste nel riuscire a cogliere non più la forma sensibile ma la forma intelligibile, per esempio nel caso della sfera la rotondità è la forma sensibile, ma se vogliamo capire cosa sia la sfera dobbiamo intendere il suo volume, espresso da una formula geometrica, che è la forma intelligibile della sfera, che ci dice la verità sulla sfera. Quindi realtà e pensiero non sono scissi in Aristotele.
C’è poi un altro tipo di verità per Aristotele, quella delle realtà non composte: penetrare il che cos’ è di una cosa. Cosa è una realtà in sé stessa? È valido a riguardo sempre l’esempio della sfera. Aristotele parlava di noesis, “intellezione”. Alcuni commentatori dicono che la intellezione sia un processo immediato, ma ciò non corrisponde alla esatta concezione del filosofo greco. Bisogna lavorare per capire l’essenza di una cosa! Ci vuole tempo e dedizione. Nel caso dell’acqua, si credeva che fosse un elemento fondamentale dell’universo, come l’aria o il fuoco, e questa idea è rimasta fino a quando nel Settecento, Lavoisier, ha scoperto che l’acqua non è un elemento, ma un composto di due elementi: ossigeno e idrogeno. Lavoisier ha lavorato per tutta la vita per capire la formula dell’acqua, senza la quale non vi è vita.
Nel IV libro della Metafisica Aristotele esprime il principio di non contraddizione: è impossibile che una stessa cosa appartenga e non appartenga a un’altra stesa cosa nello stesso tempo e sotto lo stesso aspetto. Cioè due oggetti non possono avere una stessa qualità nello stesso tempo e nello stesso aspetto. Aristotele diceva: dire che gli etiopi sono neri nella pelle e bianchi nei denti non viola il principio di non contraddizione, ma lo viola se diciamo che sono nella pelle allo stesso momento neri e bianchi.
Aristotele non diceva che è impossibile contraddirsi. È infatti possibile che si dica che gli etiopi sono allo stesso tempo neri e bianchi nella pelle. Ma è impossibile che un discorso contraddittorio sia vero. Qualunque discorso che pretenda di essere vero deve rispettare il principio di non contraddizione.
Per Aristotele tale principio è il primo: non dipende da nessun altro e tutti gli altri dipendono da lui. Pertanto non può essere contraddetto: dimostrare significa ricavare una conclusione da una qualche premessa, ora il principio di non contraddizione, il essendo primo, non ha nessun principio precedente, quindi è indimostrabile e inconfutabile. Ma può essere difeso.
Il principio di non contraddizione è ciò che ci permette di comunicare, essendo alla base di ogni discorso. Se parliamo con qualcuno e costui usa le parole in maniera contraddittoria, noi non riusciamo a capire che cosa dice. Egli è libero di farlo, ma non si capisce.
Nella vita pratica, anche coloro che a parole dicono di rifiutare il principio di non contraddizione, in pratica lo rispettano. Se una persona vede un precipizio, sta attenta a non precipitarci dentro, il che vuol dire che per questa persona il precipizio non è equivalente al non precipizio.
Proprio per queste ragioni il sacro e il mistero, se veramente sentiti, non possono essere capiti da un discorso in termini di verità o falsità. Un discorso, infatti, si basa sul principio di non contraddizione. Il sacro, però, non è un discorso ma una esperienza. Il devoto basa la vita sul sacro senza porsi in continuazione tra due alternative (vero e falso) bensì accettandolo in toto, pur con raziocinio (altrimenti non sarebbe fede ma fideismo). Ragion per cui un discorso razionale non potrà mai dire la sua sull’atteggiamento di un credente. Il sacro non è una idea da difendere o da confutare, secondo il principio di non contraddizione, bensì una esperienza da vivere o da non vivere.
L’affidabilità di tale scelta è dimostrata dalla qualità della nostra vita. I martiri non muoiono per una idea ma per amore di Cristo, ieri e oggi. Non si tratta di una filosofia, bensì dell’incontro profondissimo con Dio. E questo vale per tutte le religioni.
L’incontro con il sacro non può essere mai comunicato nella sua interezza. È possibile testimoniare di averlo avuto, ma l’adepto deve fare esperienza diretta per capirne la fondatezza.
Nella Bhagavag-Gita, un testo molto caro agli induisti, il dio Krishna istruisce il principe Arjuna, che si trova confuso sulla Via. In 9.2 è scritto in perfetto sanscrito:
rāja-vidyā rāja-guhyaṁ pavitram idam uttamam
pratyakṣhāvagamaṁ dharmyaṁ su-sukhaṁ kartum avyayam
“Questa conoscenza è la regina delle scienze e il più profondo di tutti i segreti. Purifica coloro che la ascoltano. È direttamente realizzabile, in accordo con il dharma, facile da praticare e di effetto eterno”.
L’autore usa l’espressione sanscrita pratyakṣhāvagamaṁ, che letteralmente vuol dire “percepibile in prima persona”. Colui che la pratica non la ap-prende, anche se la prende, perché è qualcosa di cenestetico, che attraversa la personalità in prima istanza.
Non siamo chiamati a prendere parte al sacro: questo perché noi in realtà siamo interi. La verità non è un oggetto da afferrare, bensì un abbraccio inscindibile tra mondo intero e mondo esterno.
Nella Bhagavad-Gita (12.16) Krishna dice a Arjuna che gli è molto cara quella persona che non dipende dal corso naturale degli eventi, non vive in una dimensione di causa-effetto, ma ha conquistato una sua libertà, un suo centro. La persona che non dipende dagli eventi esterni ha sviluppato il Sé, l’atman.
Noi siamo chiamati in questa vita a fare una operazione particolare: l’universo esiste solamente in quanto duale. Pensiamo al simbolo del Tao: una unicità (un cerchio) ma strutturata sulla dualità. Il nostro viaggio qui è uscire dalla dualità per tornare nell’Uno. Finché noi rimaniamo in un contesto materiale, siamo ancorati alla dualità. Lo spirito tende all’unità e più ci eleviamo alle cose di lassù più trascendiamo l’universo duale.
Il corpo è duale, ma lo è anche la psiche. La psiche manifesta la sua dualità nelle coppie di opposti. Patañjali mostrava il contrasto tra attrazione e repulsione. Ma anche la psiche va superata a favore del Sé, cioè dell’anima, dell’atman.
Bhagavad-Gita 2.7:
kārpaṇya-doṣhopahata-svabhāvaḥ
pṛichchhāmi tvāṁ dharma-sammūḍha-chetāḥ
yach-chhreyaḥ syānniśhchitaṁ brūhi tanme
śhiṣhyaste ’haṁ śhādhi māṁ tvāṁ prapannam
“Sono confuso sul mio dovere e ho perso ogni contegno a causa di una debolezza meschina. Indicami dunque qual è la via migliore per me. Ora sono il Tuo discepolo e un’anima arresa a Te. Istruiscimi, Ti prego”.
È il primo momento in cui Arjuna si rende conto di essere in uno stato di confusione: è indeciso sul dharma. Il dharma è l’ordine cosmoetico. Sapere che esiste un ordine a cui riferirsi, un faro su cui orientare la nostra rotta, è una grande rivoluzione. Attualmente stiamo in un mondo dove non esiste più un faro che ci guida. Ma la nostra mente ha bisogno di un orientamento, in quanto non è autonoma, così come la nostra vita.
Tutti gli esseri viventi nascono nella dualità del desiderio e della repulsione. La nostra struttura psichica ha questo errore di base. Tale errore permette la incarnazione in questo mondo. Quindi è fondamentale sanarlo. Come uscirne?
Il disagio viene proprio da questa condizione duale, che non ci è veramente propria. Tutti i vari condizionamenti che possiamo subire all’esterno fanno capo a questa dualità. In 2.45 B è scritto:
nirdvandvo nitya-sattva-stho niryoga-kṣhema ātmavān
“Liberati da ogni dualità, dall’ansia di guadagno e di sicurezza, e concentrati sul Sé”.
Ma il testo sanscrito è più forte della traduzione: nirdvandvo è letteralmente “senza (nir) dualità”. Quindi bisogna vivere senza la dualità che condiziona ogni nostra scelta!
Poi aggiunge: niryoga-kṣhema, letteralmente “senza (nir) l’unione (yoga) con quanto desideriamo”, cioè a quanto siamo attaccati. Se siamo attaccati alle cose, abbiamo un benessere superficiale perché un bene particolare può essere smarrito in ogni momento, determinando insicurezza e ansia.
Se siamo proiettati sulle cose, in automatico non abbiamo noi stessi, perché le cose sono duali ma noi siano unici. Perciò l’invito: ātmavān, cioè “possedere (van) sé stessi (atman)”. Siamo veramente noi stessi, quando ci stacchiamo da ciò che non è noi stessi.
In 2.48 è scritto:
yoga-sthaḥ kuru karmāṇi saṅgaṁ tyaktvā dhanañjaya
siddhy-asiddhyoḥ samo bhūtvā samatvaṁ yoga uchyate
“Compi il tuo dovere con sereno equilibrio, avendo abbandonato ogni attaccamento al successo o al fallimento. Tale equanimità è chiamata yoga”.
Lo yoga è detto (uchyate) samatvaṁ, da sama, “equo”: lo stare in equilibrio nel centro tra le due parti, senza aderire a una sola delle due. È essere centrati senza propendere nell’attaccamento alle cose esterne.
Quindi il dio Krishna invita: yoga-sthaḥ, “stai nello yoga”, dove la parola yoga deriva da una radice indoeuropea che vuol dire “aggiogamento, unione”, quindi il discepolo deve stare in sé stesso, aggiogato al proprio Sé, alla propria anima, senza concentrarsi sul mondo fenomenico.
Tornare al sacro significa tornare in noi, in quella linea di confine tra le due parti dove si manifesta Dio, che è Assoluto, diverso dall’universo fenomenico.
Kuru è un esortativo del verbo kṛ-, “fare”: fai le azioni (karmāṇi), cioè stai nel mondo, ma centrato sulla tua vera natura.
Il dio si rivolge ad Arjuna con il termine: dhanañjaya, “conquistatore di ricchezze”. Le vere ricchezze sono quelle interiori, che fa vedere il dio Krishna. Se vogliamo conquistare le ricchezze, dobbiamo ritornare al sacro.
Pertanto: “diventa equanime” (samo bhūtvā) nel successo e nell’insuccesso (siddhy-asiddhyoḥ). Non avere attaccamento per tutto ciò che di buono o di cattivo ti accade! Non sono questi aspetti che ci devono deviare dal nostro vero percorso, quello del sacro, che è il centro di noi stessi.
Da parte sua, il cristianesimo insegna che i cristiani sono nel mondo ma non del mondo. Dio chiede tutto e ci ama di un amore eterno (Geremia 31, 3), ma geloso.
Se vista dalla prospettiva di Dio, anche la sofferenza acquista un senso, in quanto preordinata da Dio per la nostra salvezza. San Gaspare Bertoni diceva che la sofferenza è “la scuola di Dio”. Da essa ci conformiamo a Nostro Signore Gesù Cristo il quale si è incarnato e è morto per la nostra salvezza.
Come scriveva Giovanni Paolo II nella lettera enciclica Dives in misericordia (VII.13)
“La conversione a Dio consiste sempre nello scoprire la sua misericordia”.
Quello che è stato rivelato parzialmente nelle altre religioni, trova la sua migliore e definitiva espressione nella rivelazione cristiana. Gesù è l’Uomo Dio che per amore ha dato tutto sé stesso per la salvezza di noi peccatori.
Egli nacque in questa dimensione terrena dalla Vergine Maria, rimasta incinta per opera dello Spirito Santo. Come la Vergine Maria è stata Madre di Dio, così è Madre della Chiesa. Maria fa nascere nello spirito ogni nuovo credente. Sant’Agostino sapeva che chi viene battezzato è stato generato alla fede da Maria Santissima. Per questo, come osservava Paolo VI, non si può essere cristiani se non mariani.
Elisabetta della Trinità, al secolo Élisabeth Catez (Avord, 18 luglio 1880 – Digione, 9 novembre 1906), è stata una monaca cristiana e mistica francese dell’Ordine dei carmelitani scalzi. Beatificata nel 1984, è stata proclamata santa da Papa Francesco nel 2016. Questa grande devota così scriveva:
“O Maria, tu attiri il cielo ed ecco il Padre ti consegna il suo Verbo perché tu ne sia Madre, e lo Spirito di amore ti copre con la sua ombra. A te vengono i Tre; è tutto il cielo che si apre e si abbassa fino a te. Adoro il mistero di questo Dio che si incarna in te, Vergine Madre. O Madre del Verbo, dimmi il tuo mistero dopo l’incarnazione del Signore; come vivesti sulla terra tutta sepolta nell’adorazione. Custodiscimi sempre in un abbraccio divino. Che io porti in me l’impronta di questo Dio amore”.
Quale uomo non ritornerebbe a Dio se sapesse di quanto amore Egli ci ha amato, Egli, Dio Onnipotente, che è nato nel grembo di una umile fanciulla?
Sant’Agostino scriveva che Dio per essere amato deve essere prima conosciuto. A questo serve la Chiesa: manifestare a tutti gli uomini il vero Volto di Dio. Ma, come diceva Paolo VI, c’è più bisogno di testimoni che di maestri. Secondo i latini, verba docent, exempla trahunt, “le parole insegnano, gli esempi trascinano”.
Con il battesimo diventiamo veramente figli di Dio, fratelli di Cristo e coeredi del Regno. Cristo inizia a vivere in noi: noi siamo la sua immagine e, come Lui, siamo trasformati misticamente in re, sacerdoti e profeti.
Inoltre, come osservava san Tommaso d’Aquino, il sacramento della Eucaristia ha lo scopo ultimo di trasformarci ulteriormente in Dio. L’uomo anela a risorgere dalla caducità della vita terrena, per questo quando, nel capitolo 6 del Vangelo di Giovanni, la folla dice a Cristo “dacci sempre questo pane”, essa vuole nientemeno che Dio si comunichi pienamente in ogni singolo battezzato.
Il sacro non è una idea, ma è l’uomo vivente stesso, che ha ricevuto gratuitamente i segni sacramentali per mezzo della Chiesa, in cui opera Dio stesso.
Papa Francesco in “Il nome di Dio è Misericordia”, libro-intervista scritto a quattro mani con lo scrittore e giornalista Andrea Tornielli, osservava:
“La misericordia di Dio è una grande luce di amore, di tenerezza, perché Dio non perdona con un decreto, ma con una carezza. Lo fa accarezzando le nostre ferite di peccato”.
Il Salmo 102 così canta la misericordia di Dio:
“1 Benedici il Signore, anima mia,
quanto è in me benedica il suo santo nome.
2 Benedici il Signore, anima mia,
non dimenticare tanti suoi benefici.
3 Egli perdona tutte le tue colpe,
guarisce tutte le tue malattie;
4 salva dalla fossa la tua vita,
ti corona di grazia e di misericordia;
5 egli sazia di beni i tuoi giorni
e tu rinnovi come aquila la tua giovinezza.
6 Il Signore agisce con giustizia
e con diritto verso tutti gli oppressi.
7 Ha rivelato a Mosè le sue vie,
ai figli d’Israele le sue opere.
8 Buono e pietoso è il Signore,
lento all’ira e grande nell’amore.
9 Egli non continua a contestare
e non conserva per sempre il suo sdegno.
10 Non ci tratta secondo i nostri peccati,
non ci ripaga secondo le nostre colpe.
11 Come il cielo è alto sulla terra,
così è grande la sua misericordia su quanti lo temono;
12 come dista l’oriente dall’occidente,
così allontana da noi le nostre colpe.
13 Come un padre ha pietà dei suoi figli,
così il Signore ha pietà di quanti lo temono.
14 Perché egli sa di che siamo plasmati,
ricorda che noi siamo polvere.
15 Come l’erba sono i giorni dell’uomo,
come il fiore del campo, così egli fiorisce.
16 Lo investe il vento e più non esiste
e il suo posto non lo riconosce.
17 Ma la grazia del Signore è da sempre,
dura in eterno per quanti lo temono;
la sua giustizia per i figli dei figli,
18 per quanti custodiscono la sua alleanza
e ricordano di osservare i suoi precetti.
19 Il Signore ha stabilito nel cielo il suo trono
e il suo regno abbraccia l’universo.
20 Benedite il Signore, voi tutti suoi angeli,
potenti esecutori dei suoi comandi,
pronti alla voce della sua parola.
21 Benedite il Signore, voi tutte, sue schiere,
suoi ministri, che fate il suo volere.
22 Benedite il Signore, voi tutte opere sue,
in ogni luogo del suo dominio.
Benedici il Signore, anima mia”.
Questo Salmo è un profondissimo inno psicologico, un dialogo serrato tra l’io dell’orante e Dio stesso.
Nell’originale ebraico abbiamo un hapax, il plurale di qereb, l’intimo: “quanto è in me (benedica) il suo santo nome”, wekal qerabay et shem qadesw. Come a dire che tutte le varie sfaccettature dell’anima devono inneggiare a un Dio così buono e misericordioso verso i peccatori.
Isaia 54 così proclama lo stesso tema con le parole del Signore:
“6 Come una donna abbandonata
e con l’animo afflitto, ti ha il Signore richiamata.
Viene forse ripudiata la donna sposata in gioventù?
Dice il tuo Dio.
7 Per un breve istante ti ho abbandonata,
ma ti riprenderò con immenso amore.
8 In un impeto di collera ti ho nascosto
per un poco il mio volto;
ma con affetto perenne ho avuto pietà di te,
dice il tuo redentore, il Signore.
9 Ora è per me come ai giorni di Noè,
quando giurai che non avrei più riversato
le acque di Noè sulla terra;
così ora giuro di non più adirarmi
con te e di non farti più minacce”.
Nell’Antico Testamento il Dio di Israele si prende cura degli ultimi, in ebraico ‘anawim, da una radice che veicola l’idea del “curvare”: quindi gli ‘anawim sono coloro che si piegano di fronte alle prepotenze dei notabili e dei ricchi, ma anche che si inchinano di fronte a Dio in una lode sincera.
Nel Salmo 9 è scritto:
“10 Il Signore sarà un riparo per l’oppresso,
in tempo di angoscia un rifugio sicuro.
11 Confidino in te quanti conoscono il tuo nome,
perché non abbandoni chi ti cerca, Signore …
19 Perché il povero non sarà dimenticato,
la speranza degli afflitti non resterà delusa …
35 Eppure tu vedi l’affanno e il dolore,
tutto tu guardi e prendi nelle tue mani.
A te si abbandona il misero,
dell’orfano tu sei il sostegno.
36 Spezza il braccio dell’empio e del malvagio;
Punisci il suo peccato e più non lo trovi.
37 Il Signore è re in eterno, per sempre:
dalla sua terra sono scomparse le genti.
38 Tu accogli, Signore, il desiderio dei miseri,
rafforzi i loro cuori, porgi l’orecchio
39 per far giustizia all’orfano e all’oppresso;
e non incuta più terrore l’uomo fatto di terra”.
Papa Francesco ci ricorda di “uscire” verso le persone più umili, “gli scarti” della società umana, come li definisce, e ce ne sono molti anche oggi, anche se i più fanno finta di non accorgersene.
Tra le persone più disagiate ci sono i peccatori, per questo occorre avere misericordia di quanti sono lontani da Dio. Lo diceva anche Sant’Agostino (Sermone 350/F):
“Non accogliamo i peccatori perché sono peccatori, ma li trattiamo con umana benevolenza, perché sono anche uomini; in loro puniamo l’iniquità che gli è propria, e abbiamo pietà della condizione che ci è comune, e in tal modo facciamo del bene a tutti”.
Il giudizio appartiene al diavolo. La Chiesa etichetta l’azione, mai giudica l’intenzione, la cui valutazione compete unicamente a Dio. Per questo la Chiesa ama sempre l’essere umano, che cerca di riconciliare a Dio. Gesù raccomandava di non giudicare per non essere giudicati.
Dio cerca fino all’ultimo di far convertire il peccatore. San Giovanni Crisostomo scriveva:
“Se Dio non compie prontamente la vendetta è per offrire ai peccatori l’opportunità di pentirsi”.
Ciò non toglie la necessità della giustizia. A questo punto il perdono non toglie l’obbligo della espiazione della pena per la colpa commessa. Julia Kristeva, linguista, psicanalista, filosofa e scrittrice francese di origine bulgara, scriveva che non si perdona qualcosa ma qualcuno. Il “qualcosa” è l’elemento oggettivo, è una azione che, se colpevole, deve essere giudicata e condannata. Il perdono invece riguarda l’elemento soggettivo, la persona, che in qualità di essere umano e di figlio di Dio, merita la riconciliazione se si pente.
Dio ama ogni uomo e la Chiesa, guidata dallo Spirito di Dio, deve sempre essere testimone dell’amore fedele di Dio nei riguardi di ogni creatura sulla faccia della terra. Se c’è il pentimento, Dio perdona sempre il peccatore e lo fa per amore.
È interessante che un verbo greco, neotestamentario, del perdonare sia charizomai, che ha in sé la parola charis, “grazia”, “amore”: se in italiano il “perdono” è un “dono”, in greco è squisitamente un “atto di amore”. Infatti in ebraico biblico abbiamo il verbo nasa’, etimologicamente “sollevare”, cioè togliere un peso di dosso; di più un altro verbo greco del Nuovo Testamento è aphiemi, etimologicamente “lasciare andare”, “liberare”.
Quale grande amore nutre nei confronti dell’umanità Dio per toglierci i pesi delle nostre colpe! Siamo tutti peccatori: come diceva San Paolo, per natura siamo tutti meritevoli di condanna. Ma l’amore “eccessivo” (San Francesco d’Assisi) di Dio viene incontro alle nostre miserie, alla nostra durezza di cuore, alle nostre colpe consapevoli e persino inconsapevoli, alla rigidità e alla mancanza di sentimento. La salvezza non è un diritto ma semplice generosità divina, che ha compassione dell’abisso nel quale si trova l’umanità intera.
E tra le persone più ferite e più povere spiritualmente, i peccatori occupano un posto centrale. Santa Caterina da Siena scriveva che costoro sono i “martiri di Satana”, perché il demonio li tortura allontanandoli passo dopo passo dall’unica cosa necessaria, che è Cristo.
Gesù dichiara di essere presente nella persona che soffre, qualsiasi male essa abbia, per questo, in Matteo 25, 40, Cristo dichiara:
“In verità, vi dico: tutte le volte che avete fatto ciò a uno dei più piccoli di questi miei fratelli, lo avete fatto a me!”.
Il cristiano, alter Christus (Tertulliano), deve comportarsi come Cristo. In Efesini 4, 32 è scritto:
“Siate invece benevoli e misericordiosi gli uni verso gli altri, perdonandovi a vicenda come anche Dio vi ha perdonati in Cristo”.