La Corte Costituzionale, con la recentissima sentenza 20 maggio 2025 n. 66, è tornata sulle conclusioni assunte nelle precedenti decisioni sul tema del c.d. “fine vita”, rinnovando l’invito al legislatore, affinché, unitamente al Servizio sanitario nazionale, intervengano ad assicurare concreta e puntuale attuazione a quanto stabilito dalla sentenza della stessa Consulta, numero 242  del 22 novembre 2019, la quale consente di porre fine alla propria esistenza, in alcuni specifici casi, a chi sia affetto da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche o psicologiche.

La decisione della Corte Costituzionale trae origine dalla questione di legittimità costituzionale, sollevata dal G.I.P del Tribunale di Milano, dell’articolo  580 c.p., in riferimento agli articoli 2,3,13 e 32, secondo comma e 117, primo comma Cost. (quest’ultimo in relazione agli articoli 8 e 14 CEDU),  nella parte in cui prevede la punibilità della condotta di chi agevola l’altrui suicidio nella forma di aiuto medicalmente assistito a favore di chi non tenuto in vita da trattamenti di sostegno vitale e  affetto da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche o psicologiche intollerabili,  che abbia manifestato la propria decisione, formatasi in modo libero e consapevole, di porre fine alla propria vita.

Il giudice a quo, dunque, ripropone le censure già dichiarate infondate dalla Consulta, con la sentenza numero 135 del 18 luglio  2024, successiva, nella sua pubblicazione,  al deposito dell’ordinanza di rimessione di cui sopra,  in relazione alla compatibilità  con la Costituzione della dipendenza del paziente da un trattamento di sostegno vitale, indicato dalla sentenza n. 242/2019 come una delle condizioni in presenza delle quali la condotta di aiuto al suicidio non può essere ritenuta punibile, ai sensi dell’attuale legislazione penalistica.

Tuttavia, l’ordinanza in esame, a differenza di quella precedente del 2024,  prende le mosse dallo specifico presupposto interpretativo,  secondo cui il requisito  suddetto non sarebbe integrato nella situazione in cui il paziente rifiuti l’attivazione di un trattamento di sostegno vitale, pur in presenza di una indicazione medica in tal senso, qualora il paziente stesso ritenga  tale trattamento futile o inutile, in quanto espressione di “accanimento terapeutico”.

Secondo il giudice rimettente, la limitazione della possibilità di suicidio assistito contrasterebbe con il principio di eguaglianza di cui all’articolo 3 Cost,  in quanto esclusivo, senza un valida ragione, dei pazienti affetti da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche o psicologiche intollerabili, ma capaci di assumere decisioni libere e consapevoli e, che in tale condizione, abbiano deciso di non sottoporsi a trattamenti di sostegno vitale.

Il requisito suddetto, inoltre, secondo il G.I.P di Milano, violerebbe il diritto all’autodeterminazione nelle scelte terapeutiche, riconosciuto dagli articoli 2, 13 e 32 Cost, imponendo al paziente un’unica modalità di dipartita, vale a dire quella di iniziare un trattamento sanitario di sostegno vitale al solo scopo di poterlo  interrompere, successivamente.

Infine,  secondo il giudice rimettente, esso comprimerebbe , ingiustificatamente, l’autodeterminazione del paziente, realizzando altresì, una discriminazione tra malati basata su una condizione personale del tutto accidentale, dipendente dalla tipologia della malattia di cui il singolo paziente soffre, ai sensi dell’articolo 14 della CEDU.

Dunque, il Giudice rimettente, ritiene  necessario elidere  il requisito della dipendenza da trattamento di sostegno vitale, requisito che non consentirebbe, irragionevolmente, a giudizio del GIP milanese, l’accesso al suicidio assistito di pazienti che abbiano rifiutato un trattamento di sostegno vitale, ritenendolo inutile o sproporzionato.

Le questioni sono state dichiarate infondate dalla Corte Costituzionale.

La Consulta, anzitutto, ha censurato il presupposto interpretativo attorno a cui ruotano le  questioni formulate dal rimettente, vale a dire  che l’area di non punibilità di cui alla sentenza 242 del 2019, sopra citata,  non si estenderebbe alla situazione in cui il paziente rifiuti  un trattamento di sostegno vitale, pur in presenza di una indicazione medica in tal senso, in quanto da lui ritenuto “futile” o comunque foriero di“accanimento terapeutico”.

La Corte, in particolare, richiama il suo precedente numero 135 del 2024, nella parte in cui ha specificato che non può sussistere una valida “distinzione tra la situazione del paziente già sottoposto a trattamenti di sostegno vitale, di cui può pretendere l’interruzione, e quella del paziente che, per sopravvivere, necessiti, in base a valutazione medica, dell’attivazione di simili trattamenti, che però può rifiutare: nell’uno e nell’altro caso, la Costituzione e, in ossequio ad essa, la legge ordinaria (art. 1, comma 5, L.n. 219/2017) riconoscono al malato il diritto di scegliere di congedarsi dalla vita con effetti vincolanti nei confronti dei terzi”.

Dunque, secondo la Corte Costituzionale, da quanto sopra deriva che “non c’è dubbio, pertanto, che i principi affermati nella sentenza n. 242/2019 valgano per entrambe le ipotesi. Sarebbe, del resto, paradossale che il paziente debba accettare di sottoporsi a trattamenti di sostegno vitale solo per interromperli quanto prima, essendo la sua volontà quella di accedere al suicidio assistito”.

In sintesi, secondo i giudici costituzionali, qualora sussista una indicazione medica di necessità dell’attivazione di un trattamento di sostegno vitale, il paziente potrà rifiutarlo, e richiedere il suicidio assistito, qualora siano sussistenti gli altri requisiti sostanziali e procedurali indicati dalla sentenza n. 242 del 2019, che consentano tale pratica,  con indagine in tal senso  a carico del giudice chiamato a valutare il singolo caso.

Con particolare riguardo al principio di eguaglianza di cui all’articolo 3  Cost, vale a dire l’ irragionevole disparità di disciplina tra il paziente che abbia accesso al suicidio assistito, essendo già sottoposto a trattamenti di sostegno vitale, e quello che invece tali trattamenti abbia rifiutato, nonostante un’indicazione medica in tal senso, in quanto ritenuti, comunque, futili o espressivi di accanimento terapeutico, la Consulta ha evidenziato che  tale disparità non sussiste, in quanto, anche nella seconda situazione, il paziente  potrebbe rifiutare il trattamento indicato, quale clinicamente necessario per l’espletamento delle sue funzioni vitali, potendo così procedere con il suicidio assistito

Se, invece, il paziente non si trovasse ancora nella condizione di poter procedere al fine vita, sulla base della legge ordinaria, la numero 219 del 2017, rifiutando la prosecuzione o la stessa attivazione di un tale trattamento, la sua situazione non sarebbe assimilabile a quella di un paziente la cui vita dipenda, ormai, dal trattamento in oggetto; il che rende costituzionalmente non censurabile, con riferimento all’articolo 3 Cost, la diversa disciplina prevista per le due ipotesi.

Quanto all’asserita lesione del diritto all’autodeterminazione del paziente, la Corte ha evidenziato  il vizio alla base della prospettazione del giudice a quo, secondo cui la disciplina vigente costringerebbe il paziente a sottoporsi al trattamento di sostegno vitale, al solo scopo di poterlo poi legittimamente rifiutare e accedere, così, al suicidio assistito; ciò imporrebbe al paziente un’unica modalità di fine vita.

La Corte, infatti, ha precisato che ai fini dell’accesso al suicidio assistito, non è affatto necessario “che il paziente inizi il trattamento di sostegno vitale giudicato necessario dal medico, per poi chiedere di interromperlo”; ciò significa, quindi, che l’accesso al suicidio assistito è consentito “anche a pazienti capaci di assumere decisioni libere e responsabili, affetti da patologie irreversibili che cagionino loro sofferenze intollerabili, ma le cui funzioni vitali non dipendano da trattamenti di sostegno vitale”.

Ancora una volta, come si evince da quanto precede, la Corte Costituzionale ha  dovuto sostituirsi al legislatore, così come avvenuto in altri casi (a titolo esemplificativo il cognome materno), e proprio per questo, i giudici della Consulta hanno ritenuto di precisare il carattere essenziale dei requisiti e delle condizioni procedurali per la non punibilità dell’aiuto al suicidio, in assenza di una legislazione in materia di fine vita, al fine di realizzare una ‘cintura di protezione’ per evitare che  coloro che decidono di porre in atto il suicidio assistito, subiscano interferenze nella loro volontà.

In questa situazione di incertezza, assumono rilievo sia la concreta messa a disposizione di un percorso di cure palliative, che configura “un pre-requisito della scelta, in seguito, di qualsiasi percorso alternativo da parte del paziente” (Corte Cost. sentenza 242 del 2019 e  ordinanza n. 207/2018), sia il coinvolgimento del Servizio sanitario nazionale, “a garanzia di un disinteressato accertamento della sussistenza dei requisiti di liceità dell’accesso alla procedura di suicidio assistito”, sia il necessario parere del comitato etico territorialmente competente, “funzionale anche alla specifica esigenza di ottenere un parere terzo in relazione alla domanda di accesso al suicidio assistito”.

Peraltro, è la stessa Corte Costituzionale ad evidenziare che oggi, in Italia, non è garantito un accesso universale ed equo alle cure palliative nei vari contesti sanitari, sia domiciliari che ospedalieri, per motivi di carattere amministrativo e di politica sanitaria.

In questa situazione di effettiva, e non consentita, “supplenza” della Consulta, rispetto al legislatore, sino a qualche settimana fa inerte sul tema del fine vita ( e non solo) , del tutto giustificato è l’appello dei Giudici costituzionali, al legislatore medesimo, di procedere con un adeguato sviluppo delle reti di cure palliative, nonché di una effettiva presa in carico da parte del sistema sanitario e sociosanitario, al fine di evitare un uso improprio al diritto di suicidio assistito e di assicurare concreta e puntuale attuazione a quanto stabilito dalla sentenza n. 242/2019,; ferma restando la possibilità, per il legislatore, di dettare una diversa disciplina nel rispetto dei principi dettati dalla Consulta.

Il Parlamento, in questi giorni, sta esaminando la questione; lo scrivente ne seguirà gli sviluppi e ne darà conto, a titolo di aggiornamento di queste brevi note.