Nel Ṛg-Veda I. 48, 6, il più antico dei Veda, i testi sacri dell’induismo, è contenuto uno stupendo inno all’Aurora:

vi yā sṛjati samanaṃ vy arthinaḥ padaṃ na vety odatī |

vayo nakiṣ ṭe paptivāṃsa āsate vyuṣṭau vājinīvati ||

“Colei che dà libero sfogo agli incontri, a chi è occupato, va come sulle tracce (del maschio, lei è la) lussuriosa. Gli uccelli non si fermano mai quando hanno preso il volo durante la tua illuminazione, o portatore dei premi della vittoria”.

        Il Ṛg-Veda è scritto in metrica quantitativa, come quella greca e latina, al contrario di quella italiana che è qualitativa.

        La sua unità metrica è: il verso, poi la strofa, quindi l’inno. Un verso consiste più comunemente di otto sillabe, quando lo distinguiamo come verso dimetro; oppure di undici o dodici sillabe, entrambe queste varietà sono raggruppato sotto il nome di verso trimetro.

         Il numero di sillabe in un verso non è prescritto in modo rigido. Così molti versi dimetrici contengono soltanto sette sillabe: tali versi, se corrispondono nel ritmo ad un verso dimetrico ordinario con perdita dell’ultima sillaba, chiamiamo versi dimetrici catalettici: altrimenti si può usare il nome più generale eptasillabico. Allo stesso modo, non sono rari i versi trimetri che contengono solo dieci sillabe, essendo tali versi solitamente equivalenti al verso di undici sillabe con la perdita di una sillaba prima o dopo la cesura. Questi versi più brevi possono essere definiti decasillabici.

         I metri sono detti “forma esterna”, invece la “forma interna” è costituita dal ritmo. La forma interna è definita ancora meno rigidamente di quella esterna, ed è considerata dai commentatori nativi come di importanza relativamente piccola. Ci sono poche parti del verso in cui i poeti a volte non si considerano liberi di discostarsi dai ritmi abituali, tanto che si può forse dire che nel Rigveda non ci sono “regole” del ritmo. D’altra parte non c’è parte considerevole del verso in cui certi ritmi non siano costantemente privilegiati, ed altri evitati: ovunque esistono preferenze metriche. In conseguenza della maggiore elasticità della forma interna, il suo studio è più difficile, ma allo stesso tempo fornisce risultati di maggiore importanza storica rispetto allo studio della forma esterna.

          In tutti i metri del Ṛg-Veda la quantità della prima e dell’ultima sillaba di ogni verso è indifferente e (con alcune eccezioni) ogni verso ha una struttura indipendente. In quasi tutti i metri si nota un ritmo generale giambico, nel senso che le sillabe pari, cioè la seconda, la quarta e così via, sono più spesso lunghe che corte. Si è quindi supposto che il metro vedico sia derivato storicamente da una qualche combinazione di “piedi” giambici, come si trova in tanti metri greci. Questa supposizione incontra molte difficoltà. In tutti i metri il ritmo dell’ultima parte del verso è definito in modo molto più rigido di quello della parte precedente. Quindi si è spesso, ma erroneamente, supposto che la prima parte del verso non fosse ritmica. Nella prima parte del verso c’è una preferenza generale per le sillabe lunghe, nell’ultima parte del verso per le sillabe brevi. Queste preferenze modificano considerevolmente il ritmo giambico generale prevalente in entrambe le parti.

         La citazione che abbiamo fatto in apertura è in metro bhurigbṛhatī.

        La lingua vedica è la fase più antica del sanscrito, un idioma molto complesso e polisemico. Il vedico è lingua di straordinaria difficoltà e molte regole grammaticali e implicazioni sono andate perdute già nell’antichità. Da esso deriva il sanscrito classico, assai difficile anch’esso, ma meno complesso.

         Facciamo un esempio di quanto la difficoltà verbale si sia scemata dal vedico al sanscrito classico. In quest’ultima lingua imperfetto, aoristo e perfetto indicano generalmente un passato, senza particolari distinzioni. Invece in vedico la cosa è assai più ardua.

         Renou, insigne indologo, fece la tesi di dottorato proprio sul perfetto vedico. Quest’opera è talmente profonda e dettagliata che per anni è stata un punto di riferimento imprescindibile negli studi vedici.  Renou trova nei Veda il retaggio del perfetto indoeuropeo, che denota uno stato considerato più o meno permanentemente fisso, o un risultato più o meno stabilmente raggiunto, senza valore di preterito, ancora ampiamente presente nel Ṛg-Veda. Questo è soprattutto il caso in cui il verbo non ha una definizione ben definita nel sistema del presente e si manifesta spesso in modo standard, specie nelle formule. In seguito questo perfetto arcaico si svilupperà in senso storico (preterito). Renou poi passa in rassegna la distinzione tra voci attive e medie: l’indo-iranico non distingueva nettamente tra attivo e medio, quindi è ampiamente attestato nel Ṛg-Veda che participi medi corrispondano a forme attive, senza differenza di significato. Si possono trovare nei Veda anche perfetti attivi che vengono abbinati a presenti medi. I perfetti medi vedici tendono ad essere usati con il loro valore arcaico, quando ancora non indicavano il tempo preterito: solo raramente nel Ṛg-Veda il perfetto medio ha valore di preterito.

         Il perfetto vedico è, di regola, differente rispetto al presente (con il suo preterito, detto imperfetto) e all’aoristo. Si oppone ad essi sia nella formazione indipendente della radice, che per le sue desinenze speciali e nel modo del suo uso: poiché il perfetto esprime dapprima uno stato o un risultato reale, ma non descrive né accerta i fatti. A dire il vero questa definizione si basa su usi arcaici, e la loro antichità si rivela solo dal confronto con altre lingue. In quanto ha espresso un risultato perfetto, ha registrato anche gli eventi precedenti. Di conseguenza l’uso normale del perfetto nel Ṛg-Veda è quello di un preterito, cosa rara nella prima persona, poiché l’esperienza personale è espressa in modo preminente dall’aoristo. Si distingue infatti dall’imperfetto solo per un alone di maggiore gravità. Da questo momento in poi il perfetto tende a svilupparsi in opposizione al presente in diversi modi. In primo luogo con il suo senso di preterito opposto al presente; gli imperfetti e gli aoristi duplicati appaiono come preteriti del perfetto; le poche forme modali assumono forme modali da presenti reduplicati o intensivi (yuyavat). Viceversa abibhet (e il participio bibhyat) è costruito da bibhaya, per produrre infine il presente bibheti. Da veda si forma avedam; da cakana le 2-3 sg. cakan.

            Il perfetto compare in sanscrito vedico come forma assai importante, ma dall’inizio del periodo medio indiano, non è altro che un sistema morto, di cui rimangono solo uno o due frammenti. Nei quattro Veda principali (Saṃhitā) il perfetto è molto comune, scrive Macdonell: è attestato da circa 300 temi verbali.

        L’imperfetto è la forma comune di narrazione nell’enunciato mitico. Benché non escluso dalla narrazione, l’aoristo indica propriamente che il fatto descritto è stato constatato dal soggetto, quindi rientra nell’esperienza personale e appartiene in principio al passato recente. Specifico dell’ Atharva-Saṃhitā è l’aoristo di anticipazione magica: si presentano come realizzati i fatti che si desidera vedere (o fare credere) realizzati; fin dal Ṛg-Veda compare un aoristo di anticipazione. Per quanto riguarda il perfetto, il suo valore proprio è “risultativo”. Il perfetto nota uno stato acquisito, come risultato di atti precedenti, tváṃ dyā́ṃ ca pṛthivī́ṃ cā́ti jabhriṣe, Ṛg-Veda IX. 86, 29 “hai superato portando il cielo e la terra”; abbraccia il passato e il presente, purā́ nūnáṃ ca stutáya ṛ́ṣīṇām paspṛdhré ibidem VI. 34, 1 “in passato e ora le lodi dei ṛṣi hanno gareggiato”; in frasi relative, abbraccia atti virtuali, yát sīm ā́gaś cakṛmā́ tát sú mṛḷatu, I. 179, 5 “qualsiasi sia il peccato che abbiamo commesso, che ci perdoni!”. Tuttavia, il perfetto funziona anche ampiamente come tempo narrativo, per indicare i momenti più importanti della narrazione mitica; è raro nei fatti che riguardano l’esperienza del soggetto parlante, e quindi raro alla prima persona.

         Difficile? Non è facile padroneggiare il sanscrito, gli studiosi che ci riescono devono essere andati ad apprendere in India in quanto in Europa di solito non si approfondisce a tal punto la lingua. 

       Ora torniamo al passo vedico che abbiamo citato in apertura. Samanaṃ è parola polisemica e indistinta. Considerato il contesto, accetteremo il significato di “appuntamento amoroso” (“matrimonio” Ṛg-Veda X. 168, 2 in espressioni analoghe) rispetto a quello, di per sé plausibile, di “competizione, lotta”.

         Quello che a noi interessa sottolineare è che nel libro più antico dell’umanità l’amore e l’odio sono veicolati dalla stessa parola. L’incontro amoroso e la contesa!

         In tutta la storia indiana ogni singola divinità ha sia aspetti positivi che aspetti negativi. Il dio vedico Rudra è detto sia shiva (benevolo) sia ghora (terribile). Propriamente è nello spirito indiano concepire la potenza divina come duplice.

         Ed è veramente significativo che in vedico esiste una parola che veicola l’idea del veleno come prodotto delle divinità. Il termine sanscrito è inteso come il greco farmakos: “medicamento” e “pozione nociva”. Questa  parola vedica è tṛṣṭa.

         Si è tentato più di una volta di collegare il sostantivo verbale tṛṣṭa alla radice che significa “avere sete”, interpretandolo come accezione del termine “scortese (aspro, rauco)”, attraverso un presunto intermediario “secco”. Infatti, tṛṣṭa, parola del Ṛ-Veda e dall’Atharva-Veda, significa “dannoso” o meglio “omicida”. Il termine si applica nel Ṛg-Veda, ovviamente per figura, alle maledizioni (śapatha) lanciate dal nemico (e di cui speriamo che ricadano sul loro autore) X. 87, 15; o, il che è la stessa cosa, alle parole che i bardi “producono” contro i clan nemici, ibidem 13.

        Probabilmente alla base di questa parola deve esserci una accezione di “assassino”. Il Ṛg-Veda non lo mostra, ma lo si evince dall’Atharva-Veda:  tṛṣṭa è l’epiteto del morso, sia quello del serpente (tṛṣṭadaṃśaman XII. 1, 46), sia quello di un animale del genere del “topo”, peste dei granai (tṛṣṭajamba, vocativo, VI. 50, 3).

           Questa specializzazione indica che il significato primario potrebbe essere “affilato” o “macinante”. Questo è ciò che dice l’inno VII. 113, 1-2 dove viene invocata un’entità femminile chiamata tṛṣṭa o anche tṛṣṭavandanā (voc.) “con viti taglienti”, in questo caso una pianta che, in un brano corrispondente, viene chiamata bāṇaparṇi “colui la cui foglia è simile a una freccia”: tale pianta è invitata a “squartare” (chid -, strofa 1) la donna rivale.

         È, in ogni caso, la morte che riguarda un passaggio finale dell’Atharva-Veda, XIX. 57, 4, dove tṛṣṭa appare come epiteto del sonno: il sonno è chiamato nel verso precedente yamasya karaṇaḥ “strumento di Yama”, e Yama è il dio dei morti.

           Sembra quindi, a Renou, che tṛṣṭa debba essere decisamente separato dalla radice tṛṣ- “avere sete”, di cui l’unico derivato nominale che si discosta alquanto dal primo significato è l’aggettivo-avverbio tṛṣu, che significa “avido, focoso”.

           Ma se invece tṛṣṭa indicasse sia la sete sia la morte? Il veleno come farmakos (medicamento/veleno)? VITE TAGLIENTE: il vino è buono ma è altrettanto “tagliente” (nocivo) nelle mani di un dio.

           In effetti l’idea del veleno, evocata da XII. 1, 46 sopra citato, viene espressa anche dal penultimo brano che abbiamo richiamato, VII. 113, dove tṛṣṭa è accostato a viṣa viṣataki. Il primo termine (viṣa) è un derivato aggettivale eccezionale dal sostantivo “veleno”, una sorta di “veleno vivente”. Il secondo termine è formato come la pianta arāṭakt, o meglio come i derivati in –āta (ka).  

            Ma il vedico viṣa significa anche “liquido che dona la vita”, quindi una sostanza benefica. Citiamo VI. 61, 3: sarasvati devanido ni barhaya prajāṃ viśvasya bṛsayasya māyinaḥ | uta kṣitibhyo ‘vanīr avindo viṣam ebhyo asravo vājinīvati,“distruggi, Sarasvatī, gli oltraggiatori degli dei, la progenie dell’illudente universale, Bṛsaya; donatore di sostentamento, hai acquisito per gli uomini le terre (sequestrate dagli asura) e hai fatto piovere acqua su di loro (viṣam ebhyo asravo)”.

            Probabilmente si tratta di una comune eredità indoeuropea in sanscrito e in greco, lingue indoeuropee conservative (nozione comune anche all’inglese drug).

            In ogni religione le divinità (e le loro opere e i loro artifici) sono ambigue. Il cristianesimo, invece, fa eccezione. La rivelazione cristiana qualifica Dio come amore (“Dio è amore”, o theos agapē estin, 1Giovanni 4, 8).

           Dai più, la sua “severità” viene interpretata in chiave unitaria (la mentalità primitiva non distingue i piani e la causa prima dalle cause seconde, mette tutto sotto la volontà di Dio, mentre di mezzo c’è anche la libertà dell’uomo), oppure esercitata solo a fin di bene. Le pagine dell’Antico Testamento sono intrise del racconto di un Dio all’apparenza spietato, tanto che Marcione pensava che sia un Dio diverso da quello del Nuovo Testamento.

            La letteratura orientale, come quella ebraica, ama esacerbare i toni, adoperare immagini potenti e sconvolgenti, che poi non corrispondono alla realtà. Il verbo ebraico naqam, “vendicarsi”, significa di per sé “ristabilire il diritto”. Inoltre la Bibbia non è una collezione di tesi teologiche perfette, ma il resoconto storico dell’incontro tra Dio e gli uomini, i quali sono liberi di commettere anche il male. Non dimentichiamo poi che molte scene di violenza non sono ordinate da Dio, bensì costituiscono semplici descrizioni. Probabilmente per risolvere definitivamente la questione occorre osservare che il primo Testamento rivela un Dio che si è adattato progressivamente agli schemi mentali di beduini del deserto, con la loro cultura arcaica e la loro limitatezza mentale. Nel Nuovo Testamento, invece, Dio si è rivelato chiaramente come Amore, quello che è.

            Già nell’Antico Testamento Dio è detto Padre. In una cultura tribale patriarcale come quella ebraica antica il padre svolge un ruolo fondamentale, come il pater familias dell’antica Roma: istruisce (Siracide 30, 3), benedice (Genesi 27, 27-30), corregge (Siracide 30, 2), ama i figli (2Samuele 19, 1).

            Dio è Padre anche perché, oltre a svolgere tali funzioni comuni ai padri umani, è il Creatore, in Deuteronomio 32, 6 è scritto:

“Così ripaghi il Signore, o popolo stolto e insipiente? Non è lui il padre che ti ha creato, che ti ha fatto e ti ha costituito?”.

          In Deuteronomio 14, 1-2 emerge l’idea straordinaria che Dio è Padre anche in quanto Redentore, cioè “liberatore” dei suoi figli:

“Voi siete figli per il Signore Dio vostro; non vi farete incisioni e non vi raderete tra gli occhi per un morto. Tu sei infatti un popolo consacrato al Signore tuo Dio e il Signore ti ha scelto, perché tu fossi il suo popolo privilegiato, fra tutti i popoli che sono sulla terra”.

          Nel Nuovo Testamento emerge l’idea che Dio è Padre vero e proprio di Cristo, vero Dio e vero Uomo, mentre noi siamo suoi figli adottivi (Romani 8, 15: “E voi non avete ricevuto uno spirito da schiavi per ricadere nella paura, ma avete ricevuto lo Spirito che rende figli adottivi, per mezzo del quale gridiamo: Abbà!”).

         Nondimeno Dio è per noi Padre, tanto che gli autori neotestamentari  lo chiamano in aramaico abbà, probabilmente un termine intimo con il quale i figlioletti si rivolgevano al genitore, significa “papà”, “babbo”.

            Questo “papà” così buono ci ha salvati dal nostro fango: il limite della creaturalità e il peccato. Gregorio Magno scriveva: “Il modo con cui Dio decise di conoscere il nostro fango fu quello di assumerlo per amore”.

            Pertanto la caratteristica distintiva del cristiano è l’amore. Giovanni 13, 34:

“Vi do un comandamento nuovo: che vi amiate (agapate) gli uni gli altri; come io vi ho amato, così amatevi anche voi gli uni gli altri”.

         Nel cristianesimo l’amore raggiunge livelli inesprimibili e inusuali alle altre religioni. Gesù è morto per salvare tutti noi dall’inferno e dalle altre opere del demonio. L’amore di Cristo è per primo, fino alla fine e sovrabbondante.  Madre Teresa di Calcutta diceva che bisogna amare fino a che fa male: allora non c’è dolore ma solo più amore. Padre Pio si definiva spesso “tutto cuore”. Madre Speranza, una mistica morta in Umbria nel 1983, diede alla propria Congregazione religiosa il motto “tutto per amore”, un vero programma di vita contemplativa, comunitaria e caritativa.

        Il Salmo 78, 38 esplicita l’amore di Dio, che deve essere preso a modello dai suoi figli:

“Ma Egli, che è misericordioso, che perdona l’iniquità e non distrugge il peccatore, più volte trattenne la sua ira, e non lasciò divampare tutta la sua furia”.

          Gli ebrei furono liberati da Dio dalla schiavitù dell’Egitto: indossavano verti lunghe, quindi quella notte si cinsero i fianchi con la corda per poter camminare agevolmente nel deserto. Invece dopo la rivelazione cristiana Pietro (1Pietro 1) dice:

“13 Perciò, avendo cinti i lombi della vostra mente (anazōsamenoi tas osfuas tēs dianoias umōn), siate vigilanti, e riponete piena speranza nella grazia che vi sarà conferita nella rivelazione di Gesù Cristo. 14 Come figli ubbidienti, non conformatevi alle concupiscenze del tempo passato, quando eravate nell’ignoranza, 15 ma come colui che vi ha chiamati è santo, voi pure siate santi in tutta la vostra condotta, 16 poiché sta scritto: «Siate santi, perché io sono santo»”.

        Pietro esorta i cristiani a “cingere la mente”, cioè l’anima, lo spirito. Perché? Mentre gli ebrei aspettavano una salvezza terrena (la Terra Promessa), quindi si apprestarono a compiere un viaggio terreno, invece adesso Dio in Cristo concede nientemeno che la vita eterna: il Paradiso! Pertanto il viaggio da fare è squisitamente spirituale, all’insegna della virtù.

            Cristo è l’amore assoluto che ci ama in maniera sovrabbondante. I mistici cristiani riferiscono di aver incontrato un Dio “pazzo di amore” per le sue creature.

         Dio attraverso la sua chiesa istituisce il sacramento della confessione per il perdono dei peccati e anche il Giubileo. Quale grande amore nutre Dio verso i suoi figli!

        Il peccato è un laccio che ci lega a Satana e Dio vuole toglierlo. Per comprenderne il significato del Giubileo, partiamo dalla confessione che risana il nostro cuore ed elimina ogni peccato, consentendo la riconciliazione con noi stessi, con Dio e con i fratelli. Ogni peccato, anche veniale, lascia però nella nostra umanità debole dei “residui del peccato”, delle tracce negative, che necessitano di un’ulteriore purificazione sia nel tempo presente sia dopo la morte, nello stato del purgatorio: tali residui costituiscono la “pena temporale” del peccato. Se la confessione distrugge il peccato commesso, l’indulgenza giubilare agisce su tutti quei residui di male, cancella la pena temporale dovuta ai peccati.

           La “pena temporale” non è un castigo che Dio riserva al peccatore, piuttosto è quella “impronta negativa che i peccati hanno lasciato nei nostri comportamenti e nei nostri pensieri” (Papa Francesco), vale a dire cattive abitudini, disordine degli affetti, debolezza della volontà, inclinazione a ricadere nel peccato, ma anche prepotenza, arroganza, egoismo, dipendenze.

            Il “Peccato originale” è un ciclo di affreschi di Masolino che decora la Cappella Brancacci nella chiesa di Santa Maria del Carmine a Firenze. L’opera, databile al 1424-1425 circa (260×88 cm), ritrae una famosa scena dell’Antico Testamento, ovvero la caduta in tentazione di Adamo ed Eva da parte del serpente demoniaco, dal libro della Genesi. Si compone di due parti: il primo affresco immortala la condizione di Adamo e Eva prima della colpa primigenia (con corpi luminosi e bellissimi), invece il secondo (opera del giovane Masaccio, che lavorava come apprendista) ritrae i progenitori dopo il peccato, con i corpi scuri e brutti. Masaccio vuole comunicare l’idea che il peccato contiene in sé un germe che degrada l’uomo e lo fa simile alle bestie e ai diavoli.

          Dio ci vuole santi e tutti con Lui in Paradiso. Per questo inonda questo tempo di grazie senza numero affinché i suoi figli si possano riconciliare con Lui e con la chiesa. In Luca 15, 24 il padre dice del figlio prodigo che ritorna a casa pentendosi dei peccati:

“questo mio figlio era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato”.

          Nel Siracide 2 si leggono queste belle parole riguardo Dio, frutto di una fede molto profonda:

“6Affìdati a lui ed egli ti aiuterà,

raddrizza le tue vie e spera in lui.

7Voi che temete il Signore, aspettate la sua misericordia

e non deviate, per non cadere.

8Voi che temete il Signore, confidate in lui,

e la vostra ricompensa non verrà meno.

9Voi che temete il Signore, sperate nei suoi benefici,

nella felicità eterna e nella misericordia,

poiché la sua ricompensa è un dono eterno e gioioso.

10Considerate le generazioni passate e riflettete:

chi ha confidato nel Signore ed è rimasto deluso?

O chi ha perseverato nel suo timore e fu abbandonato?

O chi lo ha invocato e da lui è stato trascurato?

11Perché il Signore è clemente e misericordioso,

perdona i peccati e salva al momento della tribolazione”.

       All’inizio del Salmo 103 l’orante canta Dio in questa maniera, ricordando come Egli sia benevolo verso chi lo teme:

“1Benedici, anima mia,

il Signore;

e tutto quello ch’è in me, benedica il suo santo nome.

2 Benedici, anima mia, il Signore

e non dimenticare nessuno dei suoi benefici.

3 Egli perdona tutte le tue colpe,

risana tutte le tue infermità;

4 salva la tua vita dalla fossa,

ti corona di bontà e compassioni;

5 egli sazia di beni la tua esistenza

e ti fa ringiovanire come l’aquila … ”.

          Questa sezione del Salmo presenta 5 participi che descrivono Dio. Nella sintassi ebraica il participio esprime una azione estremamente durevole nel tempo. Egli è letteralmente: il Perdonante, il Risanante, il Redentore, il Coronante, il Saziante. È interessante osservare il ricorso al pronome arcaizzante o aramaizzante ebraico di II femminile singolare –ki, che è assonante con la –i– di quello di I persona singolare: ciò rende il testo musicalmente molto intenso e allusivo, quindi Dio e uomo si incontrano in un abbraccio colmo di tenerezza. 

           La prima parte del versetto 5 è nell’originale ebraico:

hammaśbiya’ battob ‘edyek

“egli sazia di beni la tua bocca”.

        Ma il vocabolo ebraico ‘edyek non è per nulla chiaro. Quindi nel tempo sono state avanzate varie interpretazioni.

         Gunkel corregge in ‘ad-daieki, “quel che basta, sufficiente”, quindi traduce “ti sazia di beni fino a quanto ti basta”, cioè generosamente;

          Macintosh, fondandosi sull’arabo gd’ e su una radicale ‘dh III che egli rintraccia anche in Salmo 32, 9, Ezechiele 16, 7, Siracide 31, 28, traduce “lui che rende abbondante il tuo sostentamento”. 

           Dahood, preoccupato di dimostrare che il testo suggerisce l’eterno godimento in Paradiso, vocalizza ‘odeki, “la tua eternità”.

           Certamente Dio è generoso nell’elargire i suoi beni a coloro che gli sono fedeli. Il termine ebraico tob (ba-ttob) indica sia “buono” sia “bello”, insomma la generalità delle qualità positive, indica quindi tutto ciò che di buono Dio dona ai suoi figli.

           Ma l’atto di amore più grande della Divinità verso di noi è la concessione della vita eterna. Le chiese orientali insistono molto sulla divinizzazione finale dell’uomo. 1Giovanni 3:

“1Quale grande amore ci ha dato il Padre per essere chiamati figli di Dio, e lo siamo realmente! La ragione per cui il mondo non ci conosce è perché non ha conosciuto lui. 2Carissimi, noi fin d’ora siamo figli di Dio, ma ciò che saremo non è stato ancora rivelato. Sappiamo però che quando egli si sarà manifestato, noi saremo simili a lui, perché lo vedremo così come egli è”.

        Giovanni della Croce con questi toni pregava il suo Signore, che amava più della propria vita:

“Mio Signore, mio Amato, se non compi quello che io ti chiedo perché ancora ti ricordi dei miei peccati, fai pure, o Dio mio, riguardo ad essi la tua volontà, che è quanto io cerco di più; usa la tua bontà e misericordia e sarai conosciuto in essi. E se tu attendi le mie opere per concedermi ciò di cui ti prego, concedimele e compile tu e vengano pure le pene che tu desideri accettare da me, ma se tu non aspetti le mie opere, che cosa aspetti, o clementissimo mio Signore? Perché tardi? Se infine deve essere grazia e misericordia quella che ti chiedo nel tuo Figlio, accetta il mio piccolo contributo perché lo vuoi e concedimi questo bene, poiché vuoi anche questo.

Chi potrà mai liberarsi dal suo modo di agire e dalla sua condizione imperfetta, se tu, o Dio mio, non lo sollevi a te in purezza di amore?

Come si innalzerà a te l’uomo generato e cresciuto in bassezza, se tu, o Signore, non lo sollevi con la mano con cui lo creasti?

Non mi toglierai, Dio mio, quanto una volta mi hai dato nel tuo unico Figlio Gesù Cristo, nel quale mi hai concesso tutto ciò che io desidero; perciò io mi rallegrerò pensando che tu non tarderai, se io attendo.

Perché indugi a lungo, potendo tu subito amare Dio dentro il tuo cuore? Miei sono i cieli e mia la terra, miei sono gli uomini, i giusti sono miei e miei i peccatori. Gli Angeli sono miei e la Madre di Dio, tutte le cose sono mie. Lo stesso Dio è mio e per me, poiché Cristo è mio e tutto per me.

Che cosa chiedi dunque e che cosa cerchi, anima mia?”.

Bibliografia

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  • A.A. Macdonell, A Vedic Grammar for Students, Oxford 1916;
  • G. Ravasi, Il libro dei Salmi, vol. 3, Bologna 2015;
  • L. Renou, Ètudes védiques et pāṇinéennes, vol. 2, Paris 1956;
  • L. Renou, Ètudes védiques et pāṇinéennes, vol. 3 , Paris 1957;
  • L. Renou, Grammaire de la langue védique, Paris 1952;
  • L. Renou, La valeur du parfait dans les hymnes védiques, Paris 1925;
  • E. Vernon Arnold, Vedic Meter in Its Historical Development, Cambridge 1905.