Il titolo lo attingo da un articolo di Beppe Severgnini – di mio ci ho solo aggiunto il punto interrogativo. Quanto all’argomento, l’attenzione dedicatagli è ormai universale nel nostro paese. Impossibile ignorare ciò a cui assistiamo: il crescente numero di “neet” (che rende ormai inutile spiegare il termine), la diffusione delle sostanze psicotrope, la cultura dello sballo, il rifiuto del contratto sociale, il rifiuto del sistema (in assenza della capacità di proporne uno alternativo), poi le degenerazioni quali criminalità giovanile e vandalismo, e infine quello che considero il termine estremo ovvero nihilismo e in qualche caso disperazione.
La spiegazione può apparire ovvia: direi che siamo alle prese con una generazione della quale vaste aree non sono state educate ai rudimenti del viver civile, se non fosse che “educazione” è un termine ormai impresentabile, col suo sapore autoritario. Allora, si resta al livello di una formula sufficientemente vaga, dare la colpa alla società, o meglio, al sistema: distinzione importante, perché la società siamo noi tutti, e noi tutti siamo buoni, e attaccarla sarebbe ai limiti del politicamente corretto, mentre non ha questa tutela il sistema, che è stato creato da una minoranza di cattivi.
Semplice, e ci si può chiedere quando questa visione del mondo si sia sviluppata. La mia personale risposta è una data, l’anno domini 1968 con quella rivoluzione del costume che è consentita essenzialmente nel rifiuto dell’autorità. Che cosa altro era la “contestazione” (per usare il linguaggio dell’epoca)? In Italia, paese con deboli istituzioni e vizi secolari, il 68 non è mai finito: nessuno si è mai presentato sulla piazza del mercato per gridare “la palingenesi non esiste”, o magari “la ricreazione è finita”. Negli anni precedenti, gli echi della Seconda Guerra Mondiale risuonavano forte. E la guerra era stata una tale orgia di violenza da generare per contrasto una sorta di sazietà e un ventennio di sostanziale quiete. Almeno, così la vedevo. Abitavo a Milano, e a casa mia mai si chiudeva la porta a chiave. Poi, affievoliti quegli echi, arrivò la fase della noia. Arrivarono gli anni 70, e a casa mia chiusero la porta. A chiave.
Passati altri 50 anni, quegli affievoliti echi sono spenti, al punto che molti giovani confondono le due guerre mondiali. Degli anni 40 e 50 ho ricordi lucidi (ahimè), ricordi sufficienti a formarmi l’opinione che nevrosi, nihilismo, tendenze suicide, rifiuto del sistema sono tutti roba per gente che sta bene, diciamo pure per i ricchi. E il nostro è un mondo di ricchi, malgrado tutto. Un’opinione rafforzata negli anni trascorsi nel Terzo Mondo. Un mondo dove la selezione nella scuola è dura e vitale, ma nessuno si sogna di contestarla, né di chiedere l’assistenza dello psicologo quando l’esame va male.
Al clima “porta aperta di casa” del ventennio postbellico, va anche riconosciuta un’altra radice, quella del precetto religioso. Rubare non violava solo la legge dello stato, violava anche quella divina, questo in una società lontanissima dalla attuale secolarizzazione. Voltaire: “Dio non esiste, ma non dirlo al mio cameriere, perché verrà di notte a uccidermi”. Hélas, qualcuno glielo ha detto.
Non è tutto. Viviamo un tempo di pace, almeno nel senso che le guerre le guardiamo da lontano. La pace è bella e la guerra sacrilega, no? E però, nella storia del pensiero si incontrano vedute alternative. Conoscevo l’apprezzamento della guerra per la sua bellezza o come igiene del mondo, e lo valutavo come stravaganza di un Marinetti, futurista o di un D’Annunzio, poeta ed esteta (o “estetista”, come pare abbia scritto un candidato all’esame di maturità). Solo da vecchio, leggendo l’ottimo “Gli intellettuali e la Grande Guerra” (Il Mulino, a cura di Massimo Mori) mi sono imbattuto in un paio di citazioni per le quali “stravaganza” non appare un termine appropriato. La prima è di uno storico come Jakob Burckhardt, per il quale una pace troppo lunga “non produce soltanto snervamento, ma consente il sorgere di una gran massa di esistenze stentate, miserabili e paurose […] che si aggrappano poi all’esistenza con alte strida sul loro “diritto” […]”. La seconda è di uno dei creatori del pensiero moderno, Georg W. F. Hegel, nientemeno: “La guerra mantiene la salute etica dei popoli […] come l’agitarsi dei venti preserva dalla putredine cui una calma duratura ridurrebbe i mari, e una pace duratura, o addirittura perpetua i popoli”. Sono transitato in via Roma dopo il passaggio della dimostrazione, e mi è venuto da pensare piuttosto a bonaccia, che all’ “agitarsi dei venti” hegeliano. Dopo tutto sono due grandi Hegel e Burckhardt.
Non vi è dubbio che ad aggravare la situazione abbia contribuito il trend “bimodale” della società, creato dallo sviluppo tecnologico, in particolare l’egemonia delle macchine intelligenti che si mangiano lavoro umano. Il risultato? Quella che potremo chiamare una situazione di “sommersi e salvati”. Saranno in pochi a portare avanti il sistema, mentre gli altri dovranno “accontentarsi”. Un nuovo assetto sociale è alle porte, ma mi chiedo se ciò sia già percepito in misura tale da incidere significativamente.
Un danno collaterale di questa evoluzione: ha portato a trascurare un problema diverso per natura, ma non minore, quello dei vecchi, coi suoi aspetti di grande concretezza. Appare bizzarro che tutti parlino dei giovani quando il nostro sta diventando un paese di vecchi. Agli umani la scienza medica ha allungato smisuratamente la previsione di vita, ma non in egual misura la vita produttiva (anatema sit su questa parola, ma tant’è, oggi ho già imboccato una pessima strada) e ancora meno la capacità di vita autonoma. Come risultato, è cresciuta smisuratamente la categoria dei care giver, sempre a rischio di crollo. Nella vecchia Italia contadina, il problema non si poneva: care giver era l’insieme della famiglia, i vecchi non erano così vecchi, e di rsa non si parlava. Oggi non esistono soluzioni semplici, tanto meno a buon mercato. È questo che intendevo parlando di “concretezza”. Qui è questione di spesa, niente bla bla, Qualcuno cita l’esempio degli Irochesi, che pare sapessero gestire la situazione: quando il vecchio non era più in grado di cacciare e di masticare, gli veniva posta (ritualmente) la scelta: abbandonato nella prateria oppure testa rotta con un tomahawk. Una pratica che da noi incontrerebbe delle resistenze.
Col che torno ai giovani, cioè al problema iniziale: in base alle voci che sento, il compito di de-nevrotizzare e “insegnare a vivere” spetterebbe alla cosa pubblica, alla scuola, persino alla Sanità. Soprattutto alla scuola, col che siamo all’assurdo. Personalmente, insegnavo una materia scientifica nell’Università; ai miei studenti (classe di un centinaio negli anni 90), allo stesso modo dei miei colleghi ho trasmesso dei saperi, ho insegnato un mestiere, ho fatto ciò per cui ero qualificato. Secondo la veduta corrente, propugnata in particolare da associazioni studentesche, a quegli studenti avrei dovuto evitare che si sentissero “schiacciati dalle aspettative” ed evitare che ciascuno si sentisse meno bravo degli altri. Cosa assurda, perché, dalla prima elementare alla fine degli studi, gli studenti sanno perfettamente chi è più bravo e chi è meno bravo). Mi si obietterà che quello degli studenti universitari è un caso particolare, ma è veramente diverso quello degli altri ordini di scuola? L’insegnante che voglia fornire regole di comportamento e valori, ovvero la scienza della vita, rischia di trovarsi la madre arrabbiata che gli dice “questo spetta a me, tu pensa a insegnare la tua matematica”, o la tua letteratura, o quel che sia.
Qual è, allora, la ricetta per uscirne? Convinto, come sono, che a formare il minore è la famiglia, non ho una ricetta, ma piuttosto una speranza/scommessa: che a prender coscienza, forzati dalla dura realtà, e a sentirsi chiamati alle loro responsabilità siano i quarantenni e i cinquantenni, ovvero quelli che stanno tirando su bambini, preadolescenti e adolescenti. Purtroppo, è una scommessa che i bookmakers danno perdente.