La vita eterna e la immortalità, di Marco Calzoli
Leggiamo nel Vangelo di Matteo, al capitolo 21:
1 Quando furono vicini a Gerusalemme e giunsero presso Bètfage, verso il monte degli Ulivi, Gesù mandò due dei suoi discepoli 2 dicendo loro: «Andate nel villaggio che vi sta di fronte: subito troverete un’asina legata e con essa un puledro. Scioglieteli e conduceteli a me. 3 Se qualcuno poi vi dirà qualche cosa, risponderete: Il Signore ne ha bisogno, ma li rimanderà subito». 4 Ora questo avvenne perché si adempisse ciò che era stato annunziato dal profeta:
5 Dite alla figlia di Sion:
Ecco, il tuo re viene a te
mite, seduto su un’asina,
con un puledro figlio di bestia da soma.
6 I discepoli andarono e fecero quello che aveva ordinato loro Gesù: 7 condussero l’asina e il puledro, misero su di essi i mantelli ed egli vi si pose a sedere. 8 La folla numerosissima stese i suoi mantelli sulla strada mentre altri tagliavano rami dagli alberi e li stendevano sulla via. 9 La folla che andava innanzi e quella che veniva dietro, gridava:
Osanna al figlio di Davide!
Benedetto colui che viene nel nome del Signore!
Osanna nel più alto dei cieli!
10 Entrato Gesù in Gerusalemme, tutta la città fu in agitazione e la gente si chiedeva: «Chi è costui?». 11 E la folla rispondeva: «Questi è il profeta Gesù, da Nazaret di Galilea».
Gesù entra a Gerusalemme acclamato dalla folla che lo elegge sovrano. Però di lì a poco i capi degli ebrei lo condanneranno, quindi la folla cambierà radicalmente atteggiamento decidendo di crocifiggerlo al posto di Barabba.
Il Signore entra mite e umile cavalcando un asino, e non un cavallo, animale nobile, quale prefigurazione del massimo spogliamento di sé che avverrà nella crocifissione, di lì a poco. Secondo il racconto (Itinerarium Egeriae) di Egeria, risalente al V secolo, durante la liturgia della domenica delle Palme a Gerusalemme, ci sono anche i bambini con rami di ulivo ad accogliere liturgicamente Cristo nella figura dell’officiante. E i bambini sono quanto di più umile possa esserci al tempo, non hanno diritti, così come le donne.
Inoltre, la liturgia orientale proclama tuttora che Cristo viene umilmente come un bambino per rialzare l’uomo, decaduto per via del peccato.
Dio assomma in sé in maniera misteriosa tanto la magnificenza quanto la piccolezza. In ciò sta la sua grandezza. E questo è tipico della rivelazione cristiana. I Padri della Chiesa parlano di kenosis, termine greco che vuol dire “svuotamento”: Dio si svuota delle prerogative divine per farsi tutto simile all’uomo, fuorché nel peccato.
Anche ogni uomo assomma materia e spirito, i limiti della creaturalità assieme alla scintilla divina che costituisce l’anima spirituale e immortale.
Dio che ha fatto i cieli e la terra viene a nascere nel grembo di una vergine ebrea e poi muore in croce come il peggiore dei criminali. Ricordiamo che la crocifissione, condanna di origine persiana, è destinata dai romani ai peggiori criminali, tanto che i cittadini romani ne sono esentati (per questo Paolo verrà decapitato, ma non così l’ebreo Pietro).
Gesù, entrando a Gerusalemme, si volta dall’altra parte, non guarda la città che lo sta accogliendo, in quanto di li a poco essa lo rinnegherà. Egli avverte l’odio verso di Lui e verso suo Padre, Iddio l’Onnipotente.
Ma Dio decide di entrare nella nostra storia in maniera mite: non ci fa violenza, non incute timore. Diventa fragile tra i fragili, ultimo tra gli ultimi, ed è questo lo stile del vangelo, il vero stile del Regno di Dio, che si diffonde senza che qualcuno possa dire: Ecco lì! Eccolo là!
Cristo è il Paradiso in terra, vuole entrare umilmente tra di noi per riposare in noi e donarci la dolcezza del Regno di Dio. Solo alla fine dei tempi si rivelerà nella Gloria, adesso invece sta alla porta e bussa, se gli apriamo egli entrerà e cenerà con noi.
Le religioni di solito serbano grandi miti cosmogonici. Questo avviene all’inizio della Bibbia, ma il cristianesimo è inaugurato da un Dio bambino. Sartre in un racconto assai suggestivo (Bariona o il figlio del tuono), scritto durante la sua prigionia a Treviri, intuisce che Cristo è un Dio tutto da amare e coccolare.
È tale semplicità che attrae in questo Dio che non disdegna la sofferenza e la morte. Per amore dell’umanità accetta di tutto, di farsi compagno anche nelle sventure. Quale Dio ha un amore più grande per i suoi? Non c’è amore più grande che dare la vita per i propri amici.
In Genesi 1, 26 è scritto: “Dio disse: Facciamo l’uomo a nostra immagine”. È significativo che la traduzione araba rende il verbo ebraico con la radice araba HML, che indica di per sé “lavorare” (e non “fare”, espresso invece dalla radice araba FQL). Quindi il traduttore arabo vuole sottolineare che c’è una materia (l’uomo) che Dio lavora proprio con uno scopo ben preciso: l’essere umano non è frutto del caso ma esprime, in toto, un progetto divino. Pertanto anche la miseria e la piccolezza sono volute da Dio.
Questo perché anche la fragilità dell’uomo è benedetta da Dio in quanto suo Figlio la ha assunta e la ha trasfigurata spiritualizzandola.
Se vogliamo giocare un attimo con le radici, guardiamo ancora la traduzione araba della Genesi, scritta in ebraico biblico. Dio ordina all’uomo di dominare sulle bestie. Il traduttore arabo rende la parola ebraica con quella araba bahima. In realtà non sappiamo l’esatto significato, la radice del sostantivo arabo indica un animale un po’ goffo, che ha difficoltà a parlare, stupido, lento, muto. Non sappiamo quindi quale animale sia: anche se la parola è presente nel Corano, è un hapax. Il dialetto arabo tunisino ci viene in aiuto e adopera la radice per indicare “asino”. Questo perché già nell’antichità l’asino è considerato stupido. Cosa c’è di più umile per un Re, anzi Dio, che cavalcare un animale non solo poco nobile rispetto al cavallo ma anche poco sveglio?
Cosa c’è di più nobile di un angelo? Ma Dio decide di nobilitare l’essere umano, che è fragile nella sua corporeità e nella umiltà della mente. Per questo i diavoli, che sono angeli decaduti, odiano gli esseri umani.
C’è una lotta senza quartiere tra gli angeli ribelli da una parte e Dio, gli angeli buoni e gli esseri umani dall’altra. Dio ha scelto ciò che è disprezzato per donare il Regno. Gli esseri umani sono figli adottivi di Dio, quindi eredi del Regno. È stato satana, capo dei ribelli, a condannare l’uomo alla morte e alla sofferenza! E questo per invidia.
Leggiamo un testo della tradizione cristiana siriaca (Efrem, Carmina nisibena 52, 1-9):
- Ho sentito Satana e la Morte mentre disputavano su chi avesse più potere dell’altro sull’uomo.
- Rit. Gloria a te, Figlio del Pastore dell’universo, che ha salvato il suo gregge dai lupi nascosti che l’hanno divorato.
- La Morte ha svelato il suo potere che vince tutti. Satana ha mostrato la sua perfidia, che induce tutti a peccare.
- Maligno, soltanto chi ti vuole ti ascolta. Da me, invece, viene sia chi mi vuole sia chi non mi vuole.
- Tu, Morte, hai soltanto la forza bruta della tirannia. Io, invece, ho le trappole e tagliole dell’astuzia.
- Ascolta, Maligno: chi è astuto spezza il tuo giogo, mentre non c’è nessuno che possa sfuggire al mio giogo!
- Tu, morte, metti alla prova la tua forza su chi è malato, mentre io dimostro maggiormente il mio valore sui sani.
- Maligno, tu non hai potere su tutti quelli che ti disprezzano mentre da me arriva sia chi mi ha maledetto sia chi mi maledirà.
- Tu, Morte, hai ricevuto la forza da Dio, mentre io soltanto, nessuno mi aiuta, mentre induco a peccare.
- Tu, Maligno, come un debole, metti trappole, mentre io sono come un re ed esercito il potere.
“Maligno, soltanto chi ti vuole ti ascolta. Da me, invece, viene sia chi mi vuole sia chi non mi vuole” è nell’originale siriaco:
l-āḵ bišā aynā d-ṣāḇē. lḥuḏ šāmaʿ l-āḵ.
a-te Maligno quale che-volente soltanto ascoltante a-te
l-i d-ṣāḇē wa-ḏ-lā ṣāḇē. ṣēḏ-ay āṯēn.
a-me che-vuole e-che-non volente presso-me venenti
Proponiamo brevemente l’analisi grammaticale del passo siriaco:
- ṣāḇē participio attivo forma base (pʿal), sg m.; radice di terza debole (sul dizionario ṣbʾ): *ṣābey > ṣāḇē
- šāmaʿ participio attivo forma base (pʿal), sg. m.; la e breve diventa a prima di una faringale (ḥ o ʿ) o di una r: *šāmeʿ > šāma‘
- āṯēn participio attivo forma base (pʿal), pl. m.; radice di terza debole (sul dizionario ʾtʾ): *ʾāteyīn > āṯēn
- ṣēd- preposizione “presso”; come ‘al “sopra” regge i pronomi suffissi con -ay-, che normalmente si attaccano a sostantivi maschili plurali.
Il siriaco è una lingua semitica, per la precisione un dialetto aramaico orientale, codificazione del dialetto aramaico di Edessa. Nelle lingue semitiche il participio esprime una forte iteratività, quindi l’uso che ne fa Efrem indica che gli uomini in continuazione, in maniera reiterata, “vogliono” e “vengono” a satana e alla morte. Efrem vuole dirci che l’uomo in continuazione va verso questi due nemici, sia che lo voglia sia che non lo voglia.
Ma i più non sanno che satana e la morte sono esclusivamente false forze. Sono falsi problemi. Dio, incarnandosi duemila anni fa in Gesù Cristo, ha redento definitivamente il mondo. Cristo, risorgendo da morte, ha vinto sulla morte e sul male. E quanti aderiscono alla sua dottrina facendosi battezzare e vivendo una vita santa, partecipano dei frutti della redenzione: qui sulla terra e, dopo il transito terreno, nella vita eterna in Paradiso.
Il senso supremo della Divina Commedia di Dante è quello di proporre un itinerario di trasformazione del lettore dallo stato di peccato fino alla pratica della virtù cristiana. Infatti nel Canto XXXI del Paradiso Dante si appresta a congedarsi da Beatrice per incontrare San Bernardo e canta verso l’Amata:
Tu m’hai di servo tratto a libertate (Tu mi hai riportato alla libertà dalla schiavitù del peccato)
per tutte quelle vie, per tutt’i modi (per tutte quelle strade e in tutti quei modi)
che di ciò fare avei la potestate (in cui tu avevi il potere di fare questo).
Dante sta parlando di un percorso iniziato dall’Inferno con Virgilio e conclusosi nel Paradiso con Beatrice. In Dante la libertà non è fare ciò che si vuole ma conoscere il bene e il male. Ed è questa conoscenza che Dante vuole dare al lettore di tutti i tempi sintetizzando e cantando la dottrina cristiana in tutta la Divina Commedia. Alla fine il progetto di Dante è che, chi conosce il bene e il male, scelga il bene e inizi a praticare la vera religione.
Il Paradiso altro non è che la persona di Gesù Cristo. Egli è la nostra Pace. Scoto Eriugena scrive che, se Dio si è incarnato in questo mondo, allora tutto è Luce. Dio ha spiritualizzato ogni cosa.
Secondo una certa prospettiva, se vogliamo, anche il taoismo esprime una concezione piuttosto analoga. Infatti, pensiamo al Tao, che è un principio sia immanente sia trascendente.
Dobbiamo precisare che il concetto cinese di Tao è inesprimibile a una mente occidentale. Anche perché, oltre ad essere radicato nella mentalità cinese, le varie scuole lo intendono in maniera differente le une dalle altre e per di più non lo esplicitano mai un granché.
Nella sua forma più antica, Tao è espresso con tre caratteri cinesi: una strada, una testa e un piede. La testa ha la acconciatura del maestro, quindi il piede è il discepolo che lo segue. Allora forse Tao vuole esprimere l’idea del maestro e dell’allievo che trovano assieme la Via.
Ma questa Via non è qualcosa di separato dal mondo attuale. Infatti i taoisti ricercano la immortalità con questo corpo e su questa terra (o in luoghi affini, l’Occidente).
Tale concezione immanente del Tao è evidente nella pratica del Tai Chi Chuan, antica arte marziale cinese, che si prefigge di donare all’allievo la immortalità, dopo una lunga pratica degli esercizi.
In base a questa disciplina, bisogna far fluire la energia interna, detta chi, che dona salute e longevità, fin verso il basso addome (tan tien). Se il chi arriva a quel punto, vuol dire che cuore e spina dorsale si sono unificati. I meridiani del cuore e della spina dorsale devono accoppiarsi totalmente (ricordiamo che per “meridiano” si intende il canale nel quale scorre il chi all’interno del corpo umano).
Il cuore è il plesso energetico anche della mente e la spina dorsale, collegata ai reni, è il plesso anche della formazione del sé. Cuore e spina dorsale sono la stessa cosa, pur non essendo l’unica specificità: detto in termini occidentali, il cuore è la funzione e la spina dorsale è la sostanza.
Se il chi scende nel tan tien, allora vi è una unificazione di cuore, spina dorsale, reni, mente, sé. Questo permette lo sviluppo integrale e definitivo della persona, quindi la formazione di una categoria immortale nel proprio essere. Ma tale immortalità non è qualcosa che riguarda solo l’anima, bensì anche il corpo, se è sviluppata da esercizi marziali che unificano l’energia interna (chi) che irrora gli organi.
Pertanto il raggiungimento del Tao nella vita immortale riguarda anche la dimensione più terrena, immanente dell’essere umano.
Non è, questo, in qualche modo un discorso per certi versi analogo a quello del cristianesimo? Il Nuovo Testamento attende non un altro mondo, radicalmente diverso, ma “cieli nuovi e terra nuova”, cioè trasfigurati (e non annullati) dalla Gloria di Cristo alla fine dei tempi. La salvezza definitiva avverrà alla fine dei tempi, quando il corpo risorgerà e, unendosi all’anima, risiederà beato nel nuovo mondo.
Oggi, in Occidente, tutti sembrano andare di fretta, così facendo ci perdiamo le cose essenziali. Il nostro corpo ci parla a ritmi lenti e costanti, come il respiro: se volgiamo attenzione al respiro, così come avviene nello Yoga e nel Tai Chi Chuan, impariamo a prestare attenzione al “qui ed ora”. Impariamo a scoprire che la felicità non è dietro di noi né nel futuro, ma unicamente nel momento presente, se con lentezza lo sappiamo osservare. È nel presente che risiede la nostra possibilità di agire e di essere felici. Ed è qui che il cristianesimo ci insegna a scoprire Gesù. Gesù non sta nei cieli, certo verrà nella Gloria alla fine dei tempi, ma Gesù sta in noi e nei fratelli bisognosi, oltre che nella Eucaristia. Se volgiamo attenzione al nostro cuore scopriremo la salvezza già realizzata qui ed ora, così come se aiutiamo un bisognoso o se preghiamo.
La frase “il grado di lentezza è direttamente proporzionale all’intensità della memoria” è una citazione di Milan Kundera, tratta dal suo romanzo La Lentezza. In sostanza, il concetto chiave è che più si rallenta, più si ricorda, e viceversa: la velocità è legata all’oblio. Kundera, nel suo romanzo, esplora il rapporto tra la lentezza, la velocità, la memoria e l’oblio. Egli sostiene che la lentezza permette una maggiore introspezione e una migliore elaborazione delle esperienze, rendendo i ricordi più vividi e intensi. Al contrario, la velocità, l’accelerazione, tende a far dimenticare, a cancellare i dettagli e a rendere le esperienze meno significative dal punto di vista della memoria.
Ma la lentezza ha anche il pregio, non solo di esaltare i ricordi, ma anche di far balenare al nostro sguardo interiore la potenzialità insita nel momento presente. È del diavolo far rimuginare un’anima oppure tenerla radicata a sogni futuri: la nostra unica possibilità di salvezza (individuale e verso gli altri) risiede nel momento presente.
Viviamo in un mondo frenetico, che ci fa dimenticare i valori più autentici. Primo fra tutti Dio, che abita nella nostra anima e in quella del prossimo, nonché nella sua chiesa.
Per scoprire la salvezza di Dio, già realizzata nel qui ed ora, anche se dovrà compiersi in Paradiso e poi, perfettamente, alla fine dei tempi, dovremmo smettere di cercare di controllare tutto. Dovremmo di più affidarci alla volontà di Dio.
Abbiamo mai pensato che Dio è la Provvidenza che a tutto “provvede”? Abbiamo mai pensato che noi siamo del tutto nelle mani di Dio? Egli vuole anche la nostra cooperazione, c’è la libertà dell’uomo, ma, come dice Tommaso d’Aquino scrivendo una frase lapidaria ma intensissima, “tutto ciò che accade è voluto da Dio”.
Il pensiero cinese esplicita un mistero del genere con la massima del Wei Wu Wei, che significa “azione (Wei) della non (Wu) azione (Wei)”, formulata per la prima volta dal filosofo cinese Laozi, fondatore del taoismo nel VI secolo a. C.
Questo principio non prescrive di non agire bensì di agire in sintonia con il movimento delle cose, con le leggi della natura, con il ritmo incessante del tutto, in pratica in conformità con il Tao, che invisibilmente accompagna e governa ogni aspetto dell’universo e del mondo materiale, compreso il nostro corpo. Il Tao ci accompagna sin da quando nasciamo e decreta il nostro destino eterno. Il filosofo deve agire in conformità a questo flusso costante che regola ogni cosa, ora e nell’avvenire.
In termini filologici, la espressione Wei Wu Wei è definita “contratta”, nel senso che è una massima che non si esaurisce in sé stessa, vale a dire che è solo il nocciolo di un programma ben più esteso e articolato. Laozi intende tutto un ventaglio di attività da svolgere per stare costantemente nel flusso senza alterarlo. In Cina ci sono lezioni che durano settimane per descrivere compiutamente la portata di questo insegnamento taoista, il cui aspetto della fluidità è solo la cifra fondamentale, che però lascia adito a implicazioni e sfaccettature assai variegate.
Anche l’uomo di stato deve “non agire” e il suo Wei Wu Wei deve essere sistematicamente scelto in maniera composita ed efficace. Infatti, inteso dal punto di vista della politica taoista, il principio sembra potersi declinare come quantità minima di influenze esterne proiettate sull’individuo da coloro che detengono il potere, combinate con un ambiente più favorevole alla ricerca individuale di realizzazione personale. Vale a dire che per il pensiero taoista il sovrano non deve imporre un potere coercitivo sui sudditi. Ricordiamo che nella lunga storia cinese sono stati spesso i taoisti a fomentare rivolte di riscatto sociale.
Ma il Wei Wu Wei, in un senso più morale e individuale, vuole anche veicolare l’idea della passività, della cedevolezza nelle occasioni della vita. Laozi ricorre alla metafora dell’acqua. Però, stando ai testi, questo implica che non si tratti semplicemente di una “non azione” come non fare nulla, cioè essere passivi in senso occidentale, fermi, incrociare le braccia, quanto piuttosto che sia un agire in conformità a istanze superiori che vengono accettate, in sostanza subordinazione a una autorità, che possa essere il capo famiglia o il funzionario di turno dello stato o anche il sovrano oppure ossequio alle norme etiche e morali, al Tao. Nella letteratura cinese l’ideogramma joh viene tradotto spesso con “debolezza”, ma “debolezza” ha inevitabilmente connotazioni negative che non sembrano corrette in questo contesto, soprattutto perché alla fine joh è solitamente un mezzo per conquistare, per raggiungere decisamente un obiettivo.
Creel (What is Taoism? And Other Studies in Chinese Cultural History) ha proposto che la massima taoista sarebbe una definizione contraddittoria, essa sarebbe la fusione non intenzionale di due aspetti del taoismo: il primo è il più antico e consiste nell’abbandonare le attività del mondo, al contrario dei confuciani (Wu Wei, Non Azione, elemento contemplativo), il secondo è il più recente e consiste nell’attivarsi nelle faccende dello stato per riscattare i deboli vessati dal potere coercitivo (Wei, Azione, elemento propositivo).
Ma c’è anche un’altra interpretazione. Alcuni studiosi collocano la vita e l’opera di Laozi al Periodo degli Stati Combattenti (dal 453 a.C. al 221 a.C.), torno di tempo dilaniato da tremende lotte intestine. In un contesto storico assai violento, con superpotenze che si distruggono a vicenda, vi sono due proposte politiche che vanno per la maggiore: il moralismo confuciano e l’attivismo moista. Laozi con il Wei Wu Wei rifiuta entrambe le soluzioni e propone un’altra via, quella del “non agire”. La nota metafora dell’acqua è molto diffusa all’epoca e costituisce una simbolica assai articolata per quei pensatori antichi. Come il Tao, l’acqua è ai margini tra il “non c’è” (Wu) e il “c’è” (You), è quindi ineffabile e labile, quindi procede per infinite trasformazioni. L’acqua è l’elemento femminile, Yin, cedevole, al contrario di quello maschile, forte, Yang. Dice Laozi che l’acqua è cedevole ma nulla è più potente dell’acqua per vincere. Allora il principio del Wei Wu Wei sta a significare che nella azione politica bisogna fare di evitare lo scontro armato, diretto (Yang) e portare avanti un modello cedevole per cui il debole vince sul forte. In altre parole occorre non incrociare le braccia ma lasciare agire la potenza invisibile del Tao in ogni situazione politica. Il paradosso Azione/Non Azione è radicato nel pensiero cinese dove gli opposti non si escludono in maniera assoluta ma sono complementari. In questo senso bisogna agire (Azione) sì ma non in maniera Yang bensì in maniera Yin, questa è la Non Azione. Compiere una azione senza appropriarsene, agire senza prevalere in una battaglia campale, compiere la propria opera senza attaccarvisi. Abbiamo a che fare con un altro modello di vittoria e di predominio politico, basato più sulla diplomazia e sulla visione a lungo raggio che su un attacco duro e improvviso, Yang, un colpo di stato.
Nel Tai Chi Chuan il principio del Wei Wu Wei si applica non opponendo una forza bruta all’attacco dell’avversario, il quale va evitato, circuito e destabilizzato, opponendo alla sua energia la fluidità di un movimento che sbilancia il nemico con la sua stessa azione.
Nelle forme del Tai Chi Chuan, dette Taolu, che sono movimenti prestabiliti e ripetitivi a solo o in coppia simili ai kata delle arti marziali giapponesi, l’evolversi delle parti del corpo deve essere fluido senza resistenze. Il chi circola grossomodo a livello dei vari vasi sanguigni e viene governato dalla mente, quindi essa deve essere attenta e vigile a far sì che il chi segua i movimenti delle membra (fase Wei, Azione), per poi permettere che il chi si diffonda liberamente in tutto l’organismo (fase Wu Wei, Non Azione).
Dopo una lunga pratica di Tai Chi Chuan, il chi fluisce liberamente nel basso addome (tan tien). Il processo va aiutato dalla mente ma mai forzato. È questo il principio cardine di tale arte marziale cinese, considerata la più importante in assoluto.
L’espressione Wei Wu Wei è antica ed è fondamentale per l’antica concezione cinese del mondo. In questa concezione era un assioma che l’uomo e il mondo formassero un’unità fondamentale. Tutte le cose sono indissolubilmente interconnesse e si influenzano reciprocamente. Idee che ci sembrano completamente dissimili, o appartenenti a piani diversi, sono collegate, a volte semplicemente in base a una somiglianza esterna di suono, numero o forma. Cielo, Terra e Uomo sono i tre principali piani paralleli del pensiero filosofico e questi tre sono costantemente correlati. Proprio come è necessario il lavoro dell’uomo al momento opportuno, la fertilità della terra e la pioggia del cielo per rendere possibile il raccolto, così esiste un’intima relazione in ogni ambito della vita. La terra è quadrata; su di essa il cielo è posto come una copertura sferica sostenuta da pilastri ai quattro punti cardinali. Il sole, la luna e i pianeti si muovono lì nei loro rispettivi percorsi. Quel percorso è chiamato la Via, il Tao, del Cielo; a questo corrispondono la Via, il Tao, della Terra e la Via, il Tao, dell’Uomo. Un arresto nel corso di una Via significa un arresto nelle altre. Tutti i fenomeni partecipano a determinate categorie, la cui interrelazione è espressa da un simbolismo numerico: i cosiddetti cinque elementi. Forte di queste nozioni, un occidentale moderno può capire in che senso un essere umano possa agire in conformità con il Tao nella “azione della non azione”.
In cinese il Re (Wang) è rappresentato da un carattere formato da tre linee orizzontali una sopra l’altra unificate da una verticale. Le tre linee sono il Cielo, l’Uomo, la Terra. La linea verticale è il Re. Il compito del Re è di agire in armonia con le leggi dei rispettivi domini per garantire il benessere di tutto l’universo.
Finché le cose procedono fluidamente e naturalmente, senza controllo e senza attriti in alcuna parte di questo meccanismo – per usare un’immagine moderna – allora abbiamo la condizione ideale, in cui il Te (Virtù) può giungere al pieno sviluppo in ogni parte del tutto. Il carattere spontaneo di questo processo viene enfatizzato. In natura le cose accadono sempre in modo impercettibile. Questo è il modo in cui un sovrano dovrebbe comportarsi. Il Yi Ching, l’antico Libro degli Oracoli, dice: “Il Cielo e la Terra si muovono in sintonia e così il sole e la luna non falliscono (nei loro corsi) e non ci sono deviazioni nelle quattro stagioni. Se il sacro (principe) si muove (cioè agisce) in sintonia (con il Cielo e la Terra), allora le sue leggi sono pure e il popolo è sottomesso”.
Affidarsi alla Provvidenza o al flusso del Tao non significa che tutto ci vada sempre bene. Il pensiero cinese contempla una polarità di opposti: Yin (male) e Yang (bene). È dall’alternarsi di male/bene, negativo/positivo, morbido/duro, femminile/maschile, che si attua il divenire del mondo. Il chi è in equilibrio nel corpo umano se rispetta la polarità Yin, Yang: solo così non si manifesta la malattia. Allo stesso modo, nell’universo il chi permette il normale ciclo dei fenomeni se la polarità viene rispettata.
La riflessione giapponese parla analogamente di In, Yo. In Ayurveda, nota medicina indiana, la polarità Yin, Yang è espressa attraverso i concetti di Ida e Pingala, due canali energetici (nadi, analoghi ai meridiani cinesi) che corrispondono rispettivamente all’energia lunare (Yin) e solare (Yang). L’equilibrio tra queste due energie è fondamentale per la salute, e squilibri possono manifestarsi come problemi fisici o mentali. Nella medicina tibetana, l’energia interna o vitale (grossomodo come il chi cinese o il prāṇa indiano) è suddivisa in tre umori (vento, bile e flemma), può subire squilibri che portano a malattie fisiche e mentali. Le sue polarità, o meglio, le sue qualità, sono spesso descritte in termini di Caldo e Freddo. In Occidente è diffuso il simbolo del Caduceo ermetico, due serpenti intrecciati attorno a una croce, immagine che evoca le due energie del corpo e dell’universo.
La filosofia ermetica contempla la legge della polarità, per la quale il mondo è mosso da due poli opposti che si alternano a vicenda, ma sono nel profondo in sintonia. Il Principio che governa il mondo ha degli alti e dei bassi, delle trasformazioni all’apparenza contradditorie, polarizzate, ma che costituiscono aspetti della stessa sostanza (legge del ritmo). Un noto detto ermetico recita: “Ciò che è in alto è come ciò che è in basso”. Pertanto il bene e il male solo le facce di una stessa medaglia. Chi si prepara a ricevere il bene, dovrà anche fare i conti con il male. In riferimento a questo il filosofo rinascimentale Cusano parla di coincidentia oppositorum.
La cabala ebraica si esprime nei termini della Via di Mem quanto al fatto che il dolore altro non è che una manifestazione di Dio, dominata dalla sephirah Geburah, il Rigore. Per l’ebraismo, infatti, Samael, il diavolo, altro non è che un angelo distruttore che esegue gli ordini del Signore. Sempre in seno alla cabala, esiste l’insegnamento del Sigillo che inverte, per il quale ciò che sembra un male nel mondo terreno è in realtà un bene nel mondo spirituale.
Secondo la dottrina tradizionale i Tarocchi sono delle carte che celano in immagini degli insegnamenti sapienziali antichissimi. In questo senso, l’Arcano Maggiore detto l’Appeso presenta un torturato ma che è nella gioia: è questo il segreto più recondito del dolore, una porta di ingresso che introduce alla vera felicità e realizzazione di sé.
Lo stesso cristianesimo, nell’atto massimo della salvezza, presenta la croce nel sacrificio di Cristo. Salvezza e croce sono due aspetti di una stessa ondata positiva di energia cosmica. Per questo l’evangelista Giovanni intende la “gloria” di Cristo (in greco doxa) quale costituita da due elementi tra di loro inscindibili: la croce e la risurrezione. Non per nulla nel Quarto vangelo la passione di Nostro Signore è intarsiata di una terminologia regale. La liturgia cattolica canta che la croce di Cristo è “talamo, trono e altare”. Paolo considera la sofferenza il mistero di Dio definito “la ricchezza della Gloria”, espressione che nell’originale greco suona: to ploutos tēs doxēs (Colossesi 1):
24 Ora sono lieto di soffrire per voi; e quel che manca alle afflizioni di Cristo lo compio nella mia carne a favore del suo corpo che è la chiesa. 25 Di questa io sono diventato servitore, secondo l’incarico che Dio mi ha dato per voi di annunciare nella sua totalità la parola di Dio, 26 il mistero che è stato nascosto per tutti i secoli e per tutte le generazioni, ma che ora è stato manifestato ai suoi santi. 27 Dio ha voluto far loro conoscere quale sia la ricchezza della gloria di questo mistero fra gli stranieri, cioè Cristo in voi, la speranza della gloria, 28 che noi proclamiamo esortando ciascun uomo e ciascun uomo istruendo in ogni sapienza, affinché presentiamo ogni uomo perfetto in Cristo. 29 A questo fine mi affatico, combattendo con la sua forza, che agisce in me con potenza.
La filosofia rosacrociana afferma che, solo dopo essere passati per la croce, sarà possibile far fiorire la rosa, simbolo della nostra trasformazione nella reintegrazione nel Divino.
È della sapienza di tutti i popoli che la fortuna è transeunte, ci sarà presto il polo opposto, quindi che non bisogna mai crogiolarsi sugli allori. Citiamo solo il Bhaṭṭikāvyam, scritto in perfetto sanscrito. Il Bhaṭṭikāvyam è il poema di Bhaṭṭi, probabilmente un colto uomo di corte indiano del VI secolo d.C. il quale adotta un doppio registro: da una parte il poema narra la vicenda di Rāma, quale era nota già da diverse fonti, ma dall’altra la storia offre il destro per continue esemplificazioni grammaticali. La fortuna in India di questo poema, redatto nel colto stile kāvya, intessuto di virtuosismi linguistici e retorici, è stata enorme, ma da noi è poco conosciuto, sicuramente per il fatto che, onde apprezzarlo adeguatamente, bisogna aver bene appreso il sanscrito classico. Ebbene, in 5, 16 è scritto:
sahāyavanta udyuktā bahavo nipuṇ̣āś ca yām
śriyam āśāsate, lolāṃ tāṃ haste-kṛtya mā śvasīḥ
“molti che hanno alleati e che sono attivi e abili si augurano la fortuna, che è (però) incostante: se ti è giunta tra le mani, non vivere tranquillo”.


