Singolarmente priva di avvenimenti clamorosi o romanzeschi fu la vita non lunga di Maurice Ravel, improntata, al contrario, ai principi della più stretta riservatezza e della più coltivata discrezione, quella discrezione che avvolse, in particolare, la sfera sentimentale e affettiva del musicista così come la genesi delle sue creazioni.

            Nato a Cibure, nei Bassi Pirenei, il 7 marzo del 1875 da padre di origine svizzera (un ingegnere da cui ereditò la parte di anima scientifica, razionale, votata al culto della precisione e della nettezza, della linearità e della chiarezza) e madre basca (che gli trasmise la passionalità e la fantasia, la sensualità e il brio, oltre che il gusto per il folclore e l’esotico a livello emozionale ed estetico), all’età di tre mesi fu condotto a Parigi dove trascorse l’intera esistenza con la parentesi di frequenti e talvolta prolungati viaggi e soggiorni all’estero. E un perfetto parigino non stentò a diventare presto Ravel, indulgendo non senza garbo e ironia all’atteggiamento del dandy di derivazione baudelairiana. Compì solidi studi musicali al Conservatorio, allievo di insigni maestri fra cui spiccò, per la composizione, Gabriel Fauré. Pur concorrendo cinque volte, non riuscì mai a vincere il Prix de Rome a causa dell’anticonformismo delle sue opere. I mancati riconoscimenti accademici furono presto compensati dal quasi immediato successo presso il pubblico e gli intenditori più aperti al nuovo. Dal 1902 al ’09 frequentò lo studio del pittore Paul Sordes dove si riuniva un gruppo di artisti –  che ora si potrebbe definire “d’avanguardia” – denominato Les Apaches (I Teppisti) e comprendente fra gli altri i musicisti Manuel de Falla e Florent Schmitt e i poeti Tristan Klingsor e Léon-Paul Fargue[1].

            Nel 1913 trascorse due mesi a Clarens, in Svizzera, lavorando insieme con Stravinsky a una revisone dell’opera Chovanščina di Musorgskij.

            Allo scoppio della guerra, considerata una immane tragedia, un mostruoso massacro (ma anche un evento epocale che fatalmente spezzava il corso della storia), a cui intese partecipare al fronte non per spirito nazionalistico ma per etico adempimento di un dovere, ad onta della gracile costituzione fisica volle arruolarsi volontario nell’esercito e per quasi tutto il 1916 prestò servizio come guidatore di autocarri; dopo una seria malattia e un’operazione chirurgica venne congedato nel giugno dell’anno successivo. Quello che seguì fu per Ravel un perioso triste e infruttuoso, giacché la morte della madre, avvenuta nel ’17, e gli orrori del conflitto lo precipitarono in un esaurimento nervoso che quasi gli precluse il lavoro per un paio d’anni.

            Nel 1920, in virtù dei meriti artistici fu proposto per la Legion d’Onore, ma essendosi diffusa la notizia ancor prima della sua accettazione egli stizzito la ricusò. Quando la faccenda parve aggiustata il capriccioso Maurice rifiutò di pagare i diritti di cancelleria, per cui fu definitivamente radiato dal ruolo degli insigniti. Accettò invece di buon grado, nel 1928, la laurea honoris causa dell’Università di Oxford.

            Gli anni Venti videro fittissimo il calendario dei viaggi di Ravel, esenzialmente impegnato come interprete della propria musica sia come pianista sia come direttore d’orchestra: se già nel 1905 era stato in Olanda e nel ’09 e nell’ ’11 il Gran Bretagna, nel terzo decennio si recò a Vienna nel 1920 e poi spesso ancora in Gran Bretagna, Olanda, Italia, Spagna, Scandinavia, Belgio, Svizzera. Particolarmente importante e ricca di incontri e di esperienze fu la tournée che nel 1928 lo  portò per quattro mesi in Canada e negli Stati Uniti.

            Fra il 1932 e il ’33 cominciarono a manifestarsi i primi sintomi della malattia che doveva rivelarsi fatale. La vera patologia non è stata chiarita ancora oggi (si parlò, impropriamente, di anemia cerebrale o di tumore al cervello), si trattò comunque di una forma assai crudele che, senza intaccare l’intelligenza rimasta sempre perfetta e lucidissima, impedì progressivamente al paziente di compiere determinati gesti e attività manuali, di muoversi, di scrivere, di parlare, bloccandogli di conseguenza ogni operosità artistica. Nel 1935 riuscì ancora ad effettuare con amici un lungo viaggio in Spagna e in Marocco, poi l’inarrestabile peggioramento. Il 19 dicembre del 1937 si tentò alla disperata un intervento chirurgico, il cui risultato fu la scoperta di un emisfero cerebrale completamente atrofizzato. All’alba del 28 Maurice Ravel si spegneva a soli sessantadue anni.

                                                                   *     *    *

            Storicamente Ravel si trovò coinvolto in pieno nella crisi delle forme e del linguaggio musicale tardo-romantici e del tardo-romanticismo fu uno dei demolitori più decisi e gentili a un tempo. Almeno fino a un certo grado, poiché se è vero che egli fu tra i maggiori musicisti del periodo a ripudiare il gigantismo sinfonico e teatrale con cui si andava pur trionfalmente estinguendo la superba stagione del tardo-romanticismo (si pensi a Wagner, Brahms, Bruckner, Čajkovskij, Richard Strauss, Mahler, Sibelius, il primo Schoenberg), è pure indiscutibile che il linguaggio raveliano rimase sostanzialmente ancorato ai cànoni della tonalità (che all’inizo del secolo XX cominciava a mostrare evidenti segni di esaurimento storico), pur affrontando e praticando questo sistema con ampia libertà ed elasticità e capacità di disinvolti quanto controllatissimi allargamenti linguistici. I Trois poèmes de Stéphane Mallarmé per voce e 9 strumenti (1913), ad esempio, segnano il punto di maggior avvicinamento di Ravel allo Schoenberg “rivoluzionario” di Pierrot lunaire (1912), lavoro – segnalatogli da Stravinsky – in cui riconosceva una delle vie maestre del rinnovamento musicale novecentesco; per non parlare delle Chansons madécasses per voce e 3 strumenti (1926), la «partitura più sperimentale» di Ravel implicante processi compositivi che apparentano, anche secondo le interpretazioni del compositore giapponese Toru Takemitsu, il processo di creazione musicale «al travaglio con cui la natura produce le sue creature»[2].

            Dotato di spiccata e squisita eleganza – tratto peraltro variamente distintivo della tradizione musicale francese e proprio, con firme di volta in volta personali, anche di quei maestri che sulle prime gli furono modelli e ispiratori come Chabrier, Saint-Saëns, Fauré, Satie e in qualche misura anche Debussy – Ravel si segnalò per la relativa esiguità della produzione, per giunta costituita da opere di mole e durata per lo più alquanto limitate. Fu campione delle forme piccole e brevi, cesellate con paziente e tenacissima maestria di orefice, senza peso di retorica, innalzamento di tono, potenza di espressione, perentorietà di messaggi: al contario, mirò a forgiare un universo sonoro pervaso di sensibilità e di ironia, di intelligenza e sottigliezza, anche se le ombre del dolore e dell’angoscia fanno talvolta inevitabile irruzione fra oggetti congegnati con arte così limpida e cristallina.

            Nell’opera di Ravel è assente l’amore-passione, così come ogni esplicita meditazione sul destino e sulla condizione umana o un qualsiasi anelito a orizzonti metafisici o religiosi. Vi regnano invece una partecipe e affettuosa attenzione per il mondo dell’infanzia e quello degli animali, per le cose gli oggetti i prodotti dell’uomo anch’essi detentori di un’ “anima”, magari indotta; un gusto incantato e prezioso per il fiabesco e il favoloso; l’abbandono all’esotico spaziale e temporale. Il musicista si inebria di forme, ritmi, stilemi propri della Spagna, della Grecia, della tradizione ebraica, perfino del jazz e di altri idiomi musicali extraeuropei: il secondo movimento del Trio per pianoforte, violino e violoncello in la minore (1914), ad esempio, è strutturato come un pantoum, cioè una particolare forma della poesia malese, mentre il secondo movimento della Sonata per violino e pianoforte (1923-27) è un blues. L’esotico nel tempo lo induce invece a ricuperare modi e forme del Barocco, della tradizione clavicembalistica francese settecentesca, del Classicimo, specie nella produzione pianistica dove significativamente troveremo titoli come Menuet antique, Pavane pour une infante défunte, Sonatine, Menuet sur le nom d’Haydn, Le tombeau de Couperin.

            Il gusto per l’esotico e il pittoresco, e la scoperta referenzialità letteraria di molte opere, non estrinsecano soltanto un’ovvia proiezione dell’indole raveliana ma sono altresì da interpretarsi come evidente manifestazione di travestimento e di parafrasi di una realtà interiore gelosissima dei propri sentimenti. Analogamente, se il ricorso al pastiche, alla parodia musicale, al mélange stilistico attesta senza ombra di dubbio la crisi della musica europea (porzione della crisi  della cultura e della storia europee a uno snodo drammaticamente periglioso) alla ricerca di nuovi sbocchi vitalistici, è  vero altrettanto che quegli ingredienti si  rivelano, per Ravel, eccellenti pretesti per non esporre il suo cuore troppo in vista, per non dare il proprio intimo in pasto a tutti. Un’esigenza di oggettivare il più possibile, di divertirsi, di sorridere anche (sempre con misura e sobrietà), di far musica per il piacere proprio e altrui senza mai indulgere, anzi bandendolo rigorosamente, a quell’apparato di straripante soggettività, di esasperata coscienzialità, di vissuta visceralità che il Romanticismo aveva indossato come habitus consustanziale per quasi tutto l’Ottocento. E attenzione! Ché i veleni secreti dalla cultura e dall’arte romantiche e decadenti potrebbero intossicare (e in parte già hanno iniziato a farlo) la cultura e la vita della modernità.

                                                                    *     *     *

            Il genio e la concezione di Ravel nel privilegiare documenti brevi e intimistici trovano l’espressione più adeguata nel pianoforte e nella lirica per voce e pianoforte o piccola o grande orchestra. Spiccano nel catalogo pianistico, che fonde il virtuosismo lisztiano con la chiarezza  e la nettezza tutte francesi e “illuministiche”, oltre ai brani già citati, capolavori come i 5 pezzi di Miroirs (1904-05) e i 3 pezzi di  Gaspard de la nuit (1908), dove di possono ravvisare elementi di quello che, un po’ superficialmente, fu definito dalla critica “impressionismo” musicale. Ammesso che nelle prove precedenti abbia serpeggiato qualche influsso della lezione di Debussy (anch’egli –  da collegare artisticamente piuttosto a Chopin – bollato come “impressionista”), qui Ravel consegue un’assoluta autonomia espressiva, creando organismi sonori in cui la suggestione e la magìa fonica più fascinose e insinuanti, fondate su innovazioni tecniche e stilistiche di eccezionale rilevanza, non perdono mai di vista il senso rigoroso della struttura e la ferrea e razionale consapevolezza dei contorni formali.

            Numerose e spesso incantevoli sono le liriche per voce e pianoforte o piccola o grande orchestra, la cui confezione comporta le più audaci e raffinate soluzioni vocali congiunte con la suprema sapienza strumentale.

            Discorso in parte analogo è da estendere alle poche composizioni cameristiche, tutte peraltro degne di menzione. Fra queste: il Quartetto per archi (1903), delizioso lavoro con profumi ancora debussysti; Introduction et Allégro per arpa, flauto, clarinetto e quartetto d’archi (1905), di smagliante virtù evocativa; il Trio con pianoforte e la Sonata per violino e pianoforte già menzionati; la straordinaria Sonata per violino e violoncello (1922), una delle operte più ardue e meno eseguite, per le enormi difficoltà tecniche, di Ravel, dove l’estrema tensione dei rapporti contrappuntistici fra le voci e la tentazione sempre in agguato della dissonanza ai limiti dell’atonalità  creano una dialettica di spericolato sperimentalismo.

            Non sarà incomprensibile, a questo punto, come l’impiego della grande orchestra non sia molto pertinente al mondo affettivo e ideale di Ravel, anche se alcune delle composizioni che lo hanno reso famoso sono scritte proprio per tale organico: ma si tratta, in buona parte, di trascrizioni di precedenti lavori per pianoforte o di partiture destinate alla scena, in particolare di balletti.

            Concepiti e realizzati specificamente per orchestra sono tre dei quattro pezzi della Rhapsodie espagnole (1908: l’ Habanera era già nata in versione pianistica), dove palese si rivela l’amore raveliano per la Spagna e il suo colorito cosmo folclorico. Analoga origine hanno i due stupendi concerti per pianoforte, elaborati presso che contemporaneamente fra il 1929 e il ’31. Il Concerto in sol segue in apparenza lo schema tradizionale del concerto classico suddiviso, salvo eccezioni, nei tre movimenti canonici, caratterizzandosi invece per una libertà formale e una ricchezza inventiva ritmico-lessicale veramente originali. Più ammirevole ancora è il Concerto in re “per la mano sinistra”, composto per il pianista austriaco Paul Wittgenstein[3] che aveva perso in guerra il braccio destro. Il brano, strutturato in un solo movimento variamente articolato, offre una scrittura pianistica di strabiliante virtuosismo (e una trama orchestrale del tutto adeguata) che affida a una sola mano – la sinistra, appunto – prodigi di efflorescenze sonore. Ma non si pensi a una bravura fine a sé stessa: il Concerto, come il precedente e in fondo l’intera opera di Ravel, è il trionfo e la sublimazione del virtuosismo nella sfera più alta e globale della trasfigurazione espressiva e poetica.

            Une barque sur l’Ocean (1906-26), Pavane pour une infante défunte (1910),  Alborada del gracioso (1918), Menuet antique (1928) sono felici e luminose trasposizioni orchestrali di precedenti pezzi pianistici, così come esercizio magistrale riuscirà l’orchestrazione dei pianistici Quadri di un’esposizione di Modest Musorgskij (1922)[4].

            La sensibilità alacre e vivace, mercuriale e brillante di Ravel trovò perfetta estrinsecazione nel genere del balletto, dove la predisposizione per la danza si concreta su livelli altissimi di stilizzazione. Alcune delle partiture ballettistiche nascono anch’esse come orchestrazioni di musiche pianistiche: così Ma mère l’oye (1911) deriva da una precedente suite di pezzi infantili per pianoforte a quattro mani e Adélaïde, ou Le langage des fleures (1912) è la rielaborazione di una delle più belle suite pianistiche di Ravel, quelle Valses nobles et sentimentales (1911) che vollero essere un omaggio al romanticismo schubertiano con accenti fedeli ma aggiornati allo spirito del ventesimo secolo.

            Espressamente destinati alla scena sono invece la sinfonia coreografica in 3 movimenti Daphnis et Chloé (1909-12), ispirata all’antico romanzo pastorale greco di Longo Sofista e di cui sono entrate stabilmente in repertorio le due suite orchestrali, e il celeberrimo trascinante ossessivo Boléro, composto nel 1928 su richiesta della danzatrice  Ida Rubinstein e forse destinato a restare in eterno il lascito più inestinguibile del suo autore. Sempre nel ’28 Ravel trasse un balletto dal suo conturbante poema coreografico La Valse che, scritto nel 1918-19, si propose come estremo ammirato omaggio, ma a un tempo come stravolto e deformato monumento funebre, all’idea del valzer viennese, simbolo di un mondo di gentilezza ed eleganza ormai oggetto di angosciato rimpianto in quanto inesorabilmente distrutto e spazzato via dalla barbarie della guerra.

            L’inclinazione raveliana all’oggettivizzazione scenica trovò attuazione anche in due brevi e deliziose opere teatrali, autentici capolavori di spirito, di gusto, di sottile poesia, pur se non privi di risvolti inquietanti e brividenti. La “comédie musicale” in un atto L’heure espagnole, rappresentata a Parigi nel 1911 e librata sull’«enigmatico confronto tra il mondo degli automi e quello degli umani»[5], racconta un’arguta e scanzonata storia  di beffe e di adulterî sullo sfondo di un Settecento un po’ generico che, più che spagnolo, diffonde un inequivocabile profumo parigino. La “fantaisie lyrique en deux parties” L’enfant et les sortilèges, su libretto di Colette e andata in scena a Monte Carlo nel 1925 sotto la direzione di Victor de Sabata, si può forse considerare la summa commovente e pensierosa dei sentimenti e delle pieghe dell’animo del suo creatore, la sigla distintiva della concezione della vita e dell’arte squisita di Ravel: le ragioni delle cose e degli animali umiliati e offesi dal viziatissimo enfant, peraltro turbato dall’impatto con il mondo per lui “demoniaco” delle cose e degli animali, e la loro indignata quanto mite rivolta assumono poeticamente il valore di una testimonianza anche etica di vibrante risonanza universale che oltrepassa assorbendola la pur sorridente e appagante dimensione estetica nella tensione alla legittima appropriazione della vita.                                                                                                     Cuore e intelletto, sentimento e ragione si misurano senza posa in una schermaglia incruenta e leale, dialetticamente fecondata dalle luci e dalle ombre di misteriosi sortilegi, di recondite fabulazioni, con eleganza e cortesia, delicatezza e affetto: potrebbe forse riassumersi così l’ipersensibile e discretissima parabola umana e artistica di Maurice Ravel.                                  


[1]Ravel conobbe Fargue, uno dei più ragguardevoli poeti francesi della prima metà del Novecento, nel 1903 e ne nacque una fraterna amicizia durata fino alla prematura scomparsa del compositore: in merito si veda Léon-Paul Fargue, Maurice Ravel e Per la musica, trad. it., Edizioni dell’Orso, Alessandria 2021, su cui Loris Maria Marchetti,

      A proposito di Léon-Paul Fargue e Maurice Ravel, in Id., Scrittori e musica, BastogiLibri, Roma 2023.

[2]Enzo Restagno, Ravel e l’anima delle cose, Il Saggiatore, Milano 2009, p. 455.

[3]Fratello del celebre filosofo Ludwig, Paul Wittgenstein (Vienna, 1887 – Manhasset, New York, 1961), privato del braccio destro, proseguì con eroica determinazione la carriera di pianista e di didatta. Per lui, oltre a Ravel, scrissero apposite composizioni tra gli altri Richard Strauss, Franz Schmidt, Sergej Prokof’ev, Paul Hindemith, Erich Wolfgang Korngold, Benjamin Britten.

[4]Altri musicisti si sono cimentati in un’analoga impresa (non senza meriti, il grande pianista e direttore d’orchestra russo Vladimir Aškenazij), ma l’intelligenza e il fascino dell’orchestrazione di Ravel ci sembrano ancora insuperati.

[5]Enzo Restagno, op. cit., p. 179.