Spigolature ottocentesche, di Loris Maria Marchetti
Il quotidiano torinese «Il Nazionale», fondato per iniziativa del conte di Cavour, nel 1848 riportava con patriottico sdegno una espressione, destinata a universale risonanza, del principe di Metternich che spregiativamente avrebbe dichiarato: «L’Italia non è che un’espressione geografica». In realtà il Cancelliere di Stato in una nota confidenziale del 12 aprile 1847 al diplomatico ungherese Georg Apponyi aveva scritto, nel quadro di una più ampia analisi della politica europea del periodo e senza un particolare intento denigratorio: «La parola “Italia” è una denominazione geografica, una qualificazione che pertiene alla lingua, ma che non ha il valore politico che gli sforzi degli ideologi rivoluzionari tendono ad imprimerle, e che è piena di pericoli per l’esistenza stessa degli Stati di cui la penisola si compone» (cfr. Denis Mack Smith, Il Risorgimento italiano. Storia e testi, Laterza, Bari 1999, pp. 172-73). Ovvio che l’acceso clima risorgimentale non poteva cogliere, e neppure apprezzare, le sottigliezze del consumato statista austriaco.
È altresì risaputo che Massimo d’Azeglio avrebbe coniato la frase divulgatissima (con lievi varianti): «Fatta l’Italia, bisogna fare gli italiani». In realtà il simpatico marchese piemontese, scrittore pittore statista diplomatico, mai scrisse o pronunciò quelle parole. In «Origine e scopodell’opera», sorta di premessa al volume I miei ricordi, iniziato nel 1863 e apparso postumo nel 1867 (l’autore era morto nel ’66), l’Azeglio scrive: «Gl’Italiani hanno voluto far un’Italia nuova, e loro rimanere gl’Italiani vecchi di prima, colle dappocaggini e le miserie morali che furono ab antico il loro retaggio; perché pensano a riformare l’Italia, e nessuno s’accorge che per riuscirvi bisogna prima riformare sé stesso; perché l’Italia, come tutti i popoli, non potrà divenir nazione, non potrà esser ordinata, ben amministrata, forte così contro lo straniero, come contro i settari dell’interno, libera e di propria ragione, finché grandi e piccoli e mezzani, ognuno nella sua sfera non faccia il suo dovere, e non lo faccia bene, od almeno il meglio che può. Ma a fare il proprio dovere, il più delle volte fastidioso, volgare, ignorato, ci vuol forza di volontà, e persuasione che il dovere si deve adempiere non perché diverte o frutta, ma perché è dovere; e questa forza di volontà, questa persuasione, è quella preziosa dote che con un solo vocabolo si chiama carattere, onde, per dirla in una parola sola, il primo bisogno d’Italia è che si formino Italiani dotati d’alti e forti caratteri. E pur troppo si va ogni giorno più verso il polo opposto: pur troppo s’è fatta l’Italia, ma non si fanno gli Italiani» (I miei ricordi, con prefazione enote di Gustavo Balsamo-Crivelli, G. B. Paravia & C., Torino 1924, pp. XVIII – XIX). Peraltro, Ferdinando Martini (cfr. «Illustrazione Italiana», 1896, I, p. 99) ricorda che, poco prima del ’59, alle Terme di Montecatini Massimo d’Azeglio avrebbe detto: «Se vogliono far l’Italia, bisognerà che prima pensino a fare un po’ meno ignoranti gli Italiani». E aggiunge Martini: «Corsi rapidi i tempi e le nuove fortune d’Italia sopraggiunte più presto ch’egli non osasse sperare, la frase divenne più comprensiva ad esprimere pensiero più largo. Fatta l’Italia bisogna far gli Italiani». È quindi dello scrittore e politico toscano la formulazione della frase poi celeberrima, come estensione e convalida del pensiero dazeglino.


