La sura più importante del Corano è la prima. Al versetto 6 di essa è scritto:

ihdinā –ṣ-ṣirāṭa –l-mustaqīma

“guidaci sul sentiero retto”

          La forma ihdi-nā è un imperativo + pronome suffisso “noi”, da un verbo che vuol dire “condurre lungo la strada giusta”, “guidare alla fede”. Dalla stessa radice semitica si forma in ebraico il verbo hādāh (Isaia 11, 8), che vuol dire “tendere le mani” verso di te, anche con il senso: affinché ti possa guidare sulla retta via. 

           “Sentiero” è una derivazione del tardo latino strata, “strada”. Questo sostantivo ha trovato in arabo anche un suo plurale: suruṭ (plurale interno). Questa parola latina è entrata anche in altre lingue semitiche, per esempio in siriaco: ‘esṭrāṭ-ā (dove la –ā finale è l’articolo determinativo).

          La parola mustaqīm è un participio della X forma di un verbo arabo. Esso ha una radice ben comune nelle lingue semitiche: qāma, “alzarsi, mettersi in piedi”. La radice è comune all’ebraico: qūm. Ma anche all’aramaico, infatti in Vangelo secondo Marco 5, 41 è scritto “Fanciulla, alzati!”, traslitterazione greca dell’aramaico ṭlīthā qūm, costituito dalla parola ṭlīthā, forma femminile di ṭlē, che significa “giovane”, mentre qūm è il verbo aramaico che indica “alzarsi”. L’imperativo femminile singolare era originariamente qūmī. Comunque, esiste evidenza che nella lingua parlata la -ī finale non si pronunciava. Ora la parola araba mustaqīm è formata dalla m- iniziale che forma il participio, assieme al suffisso sṭ- della X forma. Alla X forma il verbo significa “alzarsi assumendo posizione ritta”, quindi il participio mustaqīm significa “retto”, “giusto”, “santo”, “sacro”. Infatti dal verbo qāma si ricava il sostantivo maqām: la m- iniziale significa “luogo”, pertanto maqām vuol dire “luogo sacro” e pure “tomba di un maestro venerato”, perché in vita era “retto”, “santo”. Pertanto la santità è vista in arabo come seguire il retto sentiero.  

          Continua la sura 1 così:

ṣirāṭa –lladhina am’amta ‘alahim

“strada di coloro hai effuso (la grazia) su di essi” = “il sentiero di coloro hai quali hai elargito benefici in abbondanza”.

        La parola –lladhina è un pronome relativo: ālladhina, che deriva dal *d̲ relativo protosemitico + l’articolo arabo āl-. In siriaco dal relativo d̲ si forma lo stato costrutto (tar‘ā ḏ-haykl-ā, “la porta del tempio”). Questo è significativo. Infatti nelle lingue semitiche lo stato costrutto deriva dal *d̲ relativo, è come se fosse “porta quae (est porta) templi”, in cui un elemento ridondante viene omesso. L’arabo classico ha perso la congiunzione relativa e forma lo stato costrutto in maniera sintetica (senza particelle), invece altre lingue semitiche lo formano in maniera analitica, anche i dialetti arabi. In ebraico moderno si usa šel-, che è un retaggio di ašer li (dove ašer significava in ebraico antico “orma, impronta” prima di diventare nella Bibbia congiunzione relativa), quindi etimologicamente “impronta per me”. 

            Il verbo di IV forma am’amta significa “essere ben disposto”, “nutrire benevolenza”, perfetto. Dalla stessa radice in ebraico biblico si forma naham, che significa “essere dolce” (Proverbi 2, 10), mentre in ebraico moderno na’im mehod, che significa “molto piacere” (forma di saluto). Dalla stessa radice abbiamo in arabo naham, “sì”, letteralmente “piacere”, “sono lieto”.

            Pertanto, da una parte la santità è essere moralmente retti, dall’altra essa è una elargizione della benevolenza di Dio. Possiamo concludere che la santità è un piacere, è una condizione paradisiaca donata da Dio ai suoi seguaci già su questa terra.

         Pensiamo al Salmo 33:

“1 Esultate, o giusti, nel SIGNORE;

la lode s’addice agli uomini retti.

2 Celebrate il SIGNORE con la cetra;

salmeggiate a lui con il saltèrio a dieci corde.

3 Cantategli un cantico nuovo,

suonate bene e con gioia.

4 Poiché la parola del SIGNORE è retta

e tutta l’opera sua è fatta con fedeltà.

5 Egli ama la giustizia e l’equità;

la terra è piena della benevolenza del SIGNORE.

6 I cieli furono fatti dalla parola del SIGNORE,

e tutto il loro esercito dal soffio della sua bocca.

7 Egli ammassò le acque del mare come in un mucchio;

rinchiuse gli oceani in serbatoi.

8 Tutta la terra tema il SIGNORE;

davanti a lui abbiano timore tutti gli abitanti del mondo.

9 Poich’egli parlò, e la cosa fu;

egli comandò e la cosa apparve.

10 Il SIGNORE rende vano il volere delle nazioni,

egli annulla i disegni dei popoli.

11 La volontà del SIGNORE sussiste per sempre,

i disegni del suo cuore durano d’età in età.

12 Beata la nazione il cui Dio è il SIGNORE;

beato il popolo che egli ha scelto per sua eredità.

13 Il SIGNORE guarda dal cielo;

egli vede tutti i figli degli uomini;

14 dal luogo della sua dimora

osserva tutti gli abitanti della terra;

15 egli ha formato il cuore di tutti,

egli osserva tutte le loro opere.

16 Il re non è salvato da un grande esercito;

il prode non scampa per la sua gran forza.

17 Il cavallo è incapace di salvare,

esso non può liberare nessuno con il suo gran vigore.

18 Ecco, l’occhio del SIGNORE è su quelli che lo temono,

su quelli che sperano nella sua benevolenza,

19 per liberarli dalla morte

e conservarli in vita in tempo di fame.

20 Noi aspettiamo il SIGNORE;

egli è il nostro aiuto e il nostro scudo.

21 In lui, certo, si rallegrerà il nostro cuore,

perché abbiamo confidato nel suo santo nome.

22 La tua benevolenza, o SIGNORE, sia sopra di noi,

poiché abbiamo sperato in te”.

           In questo splendido Salmo si canta la gioia di appartenere al Signore, è “beato” il “retto di cuore” che gli appartiene. Questo perché prima di tutto è la parola di Dio a essere “retta”, jašar; poi si aggiunge un altro termine del lessico dell’alleanza, ‘emūnah, “fedeltà”: letteralmente il versetto 4 dice “ogni opera di Dio è nella fedeltà”. Nel sintagma “nella fedeltà” abbiamo un bet essentiae, un modo semitico per esprimere l’essenza profonda su cui poggia una realtà.

           Pertanto tutta la creazione vige per via della fedeltà di Dio e, come sua creazione, cioè nascendo dalla di Lui rettitudine, dona piacere. Insomma è bello essere creati ed è bello seguire l’alleanza di Dio!

           Infatti il Salmo 34, 9 così recita:

ma’amu wre’u mi tob YHWH

“assaporate e gustate quanto è dolce YHWH”.

          Pertanto l’esperienza che il fedele fa di Dio appaga pienamente il cuore, abbiamo qui l’immagine del cibo, che è squisitamente orientale. Infatti nel mondo biblico il banchetto esprime connotazioni di amicizia e pienezza talmente forti e totali che gli occidentali hanno perso.

         1 Pietro 2, 2-3:

“Come bambini appena nati, desiderate il puro latte spirituale, perché con esso cresciate per la salvezza, se davvero avete gustato che il Signore è buono”.

          Nel mondo semitico il corpo è anche l’anima, pertanto il buon cibo, che dona piacere al palato, diviene una metafora delle delizie spirituali che dona il rapporto autentico con Dio.

          Stare con Dio è una gioia continua in quanto Egli è l’unica cosa necessaria.

           La più grande disgrazia che gli uomini di tutti i tempi incontrano nella loro vita è la perdita del rapporto con Dio. Solo se si invita Gesù nella barca, la tempesta si placa. In una rivelazione privata Gesù Cristo disse a Santa Faustina Kowalska che l’uomo non troverà la pace fino a quando non si rivolgerà al suo Cuore misericordioso. Salmo 73, 28: “Il mio bene è stare vicino al Signore”, che nell’originale ebraico suona wa’ani qirabat ‘Elohim li tob, dove qirabat, “essere vicino”, è assai pregnante in ebraico, la traduzione italiana non rende ragione. In accadico qerebu indica il rapporto sessuale e la forma D indica “portare offerte agli dei”. L’ugaritico qrb indica l’offerta di un sacrificio. Nei testi aramaici di Elefantina la radice significa “vantare un diritto”. In siriaco (alla forma etpa.) la radice viene usata in senso sessuale. Per questo la traduzione greca della Settanta rende l’ebraico qirabat con il verbo proskollaomai, “essere incollato”.    

           La prima parte del Salmo 27 così recita:

“1 Il SIGNORE è la mia luce e la mia salvezza;

di chi temerò?

Il SIGNORE è il baluardo della mia vita;

di chi avrò paura?

2 Quando i malvagi, che mi sono avversari e nemici,

mi hanno assalito per divorarmi,

essi stessi hanno vacillato e sono caduti.

3 Se un esercito si accampasse contro di me,

il mio cuore non avrebbe paura;

se infuriasse la battaglia contro di me,

anche allora sarei fiducioso.

4 Una cosa ho chiesto al SIGNORE,

e quella ricerco:

abitare nella casa del SIGNORE tutti i giorni della mia vita,

per contemplare la bellezza del SIGNORE,

e meditare nel suo tempio.

5 Poich’egli mi nasconderà nella sua tenda in giorno di sventura,

mi custodirà nel luogo più segreto della sua dimora,

mi porterà in alto sopra una roccia.

6 E ora la mia testa s’innalza sui miei nemici che mi circondano.

Offrirò nella sua dimora sacrifici con gioia;

canterò e salmeggerò al SIGNORE …”.

        L’unica speranza del credente è abitare nella casa del Signore, che è il luogo della sua Dimora. Nelle chiese di tutto il mondo vi è l’Eucaristia, nella quale vige la presenza vera e reale del corpo del Signore Nostro Gesù Cristo.

        La fede rivela che nel pane eucaristico vi è il corpo risorto di Cristo, specialmente il suo cuore.

          Beato l’uomo che riconosce nei segni sacramentali nientemeno che il Risorto. Solo questo può dare vera pace al cuore in questo nostro mondo travagliato.

          Nell’Apocalisse, l’ultimo libro della Bibbia, ci sono riferimenti allusivi all’impero romano che all’epoca perseguitava i cristiani. Facciamo un esempio. Apocalisse 13:

“11 Vidi poi salire dalla terra un’altra bestia, che aveva due corna, simili a quelle di un agnello, che però parlava come un drago. 12 Essa esercita tutto il potere della prima bestia in sua presenza e costringe la terra e i suoi abitanti ad adorare la prima bestia, la cui ferita mortale era guarita”.

        L’Apocalisse è un libro di enigmi, alcuni studiosi spiegano questa simbologia ricorrendo a riferimenti a Roma. La ferita mortale guarita della prima bestia – nell’originale greco ou etherapeuthē ē plēgē tou thanatou autou, “della quale la ferita della propria morte venne guarita” – fa pensare al mito di Nero redivivus o redux. Nerone, noto persecutore dei cristiani si era tolto la vita nel 68, pugnalandosi alla gola con l’aiuto del suo segretario Epafrodito. Il termine greco plēgē, “ferita”, ha come primo significato quello di “colpo inferto”.

          Si tratta della leggenda antica per cui Nerone non sarebbe morto bensì solamente nascosto da qualche parte in attesa di ritornare a Roma. Questa storia aveva due versioni: una redux (pronto a tornare per riprendere il potere a Roma alla stregua di un liberatore) e una redivivus (uno zombie, un demone venuto a vendicare l’usurpazione).

         Riguardo la versione redux, cioè di una figura positiva di pretendente al trono che, dopo essersi nascosto, ritorna vincitore, pensiamo a Cassio Dione (Orazioni 21.10): “Ancora adesso ognuno desidera che Nerone sia vivo e di fatto molta gente lo crede”. Ma nel passato vi erano anche altre figure candidate al medesimo ruolo nell’immaginario collettivo: nel 69 uno schiavo del Ponto (Cassio Dione 63.9.3) oppure un liberto d’Italia (Tacito, Storie II.8) oppure nell’80 un certo Terentius Maximus (Cassio Dione 66.19.3) oppure nell’88 un anonimo (Svetonio, Nero 57.2.4) oppure una figura messianica trionfante contro Roma (Oracoli Sibillini IV 119-122).

           Riguardo la versione redivivus, cioè di una immagine negativa di natura demoniaca che opprime, pensiamo al passo di Vittorino di Poetovium (Commentarius in Apocalypsin CSEL 49.121) nel quale si trova scritto che Nerone ha avuto da Dio la stessa sorte di Cristo, cioè sarebbe risuscitato per riprendere il potere. Oppure, un altro demone, analogo, sarebbe “un matricida fuggiasco” (Oracoli Sibillini IV. 143-149). 

           In ogni modo, compaiono due bestie con tratti demoniaci, sembrano figure storiche che si attanagliano contro i cristiani dell’epoca. Ma l’Apocalisse presenta simboli per parlare anche dei cristiani di tutti i tempi, i quali sempre saranno perseguitati dal demonio che ispira i personaggi della storia, e la storia umana è quel “mondo”, kosmos, che nel Vangelo secondo Giovanni si scaglia contro Cristo e quindi contro i suoi discepoli.

           L’Apocalisse vuole dire ai cristiani di tutti i tempi di non perdere la speranza. L’Apocalisse è un libro che vuole rincuorare i perseguitati per via della croce di Cristo con la quale si segnano.

           Solo stando uniti a Dio, a lui “incollati”, è possibile superare ogni prova. Paolo diceva (Romani 8, 28): “Tutto concorre al bene di coloro che amano Dio”.

           La Vergine Santa mette sotto il proprio manto tutti i cristiani e li protegge dalle insidie del maligno e di coloro che, scelti dal demonio infernale, fanno le sue opere anziché quelle di Dio. Tommaso d’Aquino diceva che, come Dio si incarnò in Cristo, così è necessaria una incarnazione del male.

           È il segno della croce che scaccia le tenebre e la parola “Maria”, che viene considerata da alcuni teologi quasi un sacramento. L’umiltà della Vergine Madre di Dio scaccia la testa al serpente superbo. Come nel mondo il peccato si è introdotto per la superbia dei progenitori di essere come Dio, così tutto viene redento dall’umiltà di Maria che con il suo Sì ha spalancato le porte dell’umanità nientemeno che a Dio.   

        Romani 5, 5:

ē de elpis ou kataischunei oti ē agapē tou theou enkechutai en tais kardiais ēmōn dià pneumatos agiou tou dothentos ēmin

“La speranza poi non delude, perché l’amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato”.

        Qui abbiamo un problema di traduzione. “L’amore di Dio”, nell’originale greco ē agapē tou theou, può essere sia un genitivo soggettivo (l’amore che Dio prova nei nostri confronti) oppure un genitivo oggettivo (l’amore che i cristiani provano nei riguardi di Dio). In ogni modo, da un certo punto di vista, si tratta della stessa dinamica di amore. Dio ama i suoi figli adottivi, i cristiani, e li inonda del suo Spirito, inoltre spinge con lo Spirito affinché i cristiani lo riamino a loro volta. 

        Chi fa la volontà di Dio dimora con l’anima in Dio stesso. Lo dice lo stesso Cristo: “Io sono la vite, voi i tralci. Chi rimane in me e io in lui, fa molto frutto, perché senza di me non potete far nulla” (Giovanni 15, 5). Per questo i cristiani sono “separati” dal resto degli uomini, la loro cittadinanza infatti è nei cieli (Filippesi 3, 20).

         In ebraico biblico Dio è Qadosh, Santo, ma etimologicamente vuol dire “separato” dal mondo degli uomini. Anche il popolo dell’Alleanza viene detto nell’Antico Testamento in ebraico “santo” in quanto prescelto da Dio e quindi “separato” da tutti gli altri popoli. Con la Nuova Alleanza istituita da Cristo sono i cristiani ad essere “santi”. Paolo scrive (2 Corinzi 6, 17): “Perciò, uscite di mezzo a loro e ‘siate separati’”, in greco aforisthēte.   

          Dio sceglie di avere delle persone “separate”, la cui cittadinanza è nei cieli, cioè che dimorano con l’anima in Dio, come atto di benevolenza nei loro confronti. Già nell’Antico Testamento vi sono parole ebraiche come hen, ḥesed, ‘emet che indicano le varie sfaccettature della benevolenza di Dio verso le sue creature. Esodo 34, 6:

YHWH ‘El raḥum weḥannun ‘erek ‘appaym werab ḥesed we’emet

“Il Signore, Dio misericordioso e pietoso, lento all’ira e ricco di amore e di fedeltà”.

        Il termine ebraico raḥum, “misericordioso”, presenta la stessa radice della parola raḥamim, “misericordia”, ma che letteralmente vuol dire “viscere materne”. Dio ci ama come una tenera madre. Isaia 49, 15: “Si dimentica forse una donna del suo bambino, così da non commuoversi per il figlio delle sue viscere? Anche se queste donne si dimenticassero, io invece non ti dimenticherò mai”.

         Poco sopra (Isaia 40, 26) il Deuteroisaia cantava: “Levate gli occhi in alto e guardate: Chi ha creato queste cose? Egli le fa uscire e conta il loro esercito, le chiama tutte per nome; per la grandezza del suo potere e per la potenza della sua forza, non ne manca una”. Per la concezione babilonese le stelle erano le divinità più alte (il supremo Marduk era il dio del sole): ma per la Bibbia Dio le crea e “le chiama per nome” (espressione semitica che vuole indicare dominio), quindi non c’è niente al di sopra di Lui, egli è il Creatore e il Dominatore di tutto. In Deuteronomio 17, 3 le stelle sono dette “esercito del cielo”, ṣeba haššamaym, e non devono essere adorate: ora in questo passo di Isaia questo “esercito”, ṣeba, viene contato da Dio, cioè sottoposto al suo comando.

         Pertanto per il Deuteroisaia Dio è sia Creatore (capitolo 40) sia Redentore/Soccorritore/Benevolo nei confronti delle sue creature (capitolo 49). Egli è l’eccelso, sopra il quale nulla vige, ma è anche come una tenera madre nei confronti del suo popolo.

        Ma c’è qualcosa in più. Certamente il passo di Isaia 49 allude alla madre che non dimentica i figli, ma anche al marito che non dimentica la sposa, infatti in ebraico il pronome “ti” è femminile! Il Deuteroisaia sta giocando con due immagini, simbolo di una parentela stretta: quella materna e quella nuziale. È Osea che canta magistralmente che il Signore è lo sposo del popolo di Israele, quindi l’infedeltà di quest’ultimo alla Legge viene vista come un “adulterio”.

         Nel Nuovo Testamento abbiamo la parola greca charis, “grazia”, che riassume i vocaboli ebraici della benevolenza. Charis deriva dal verbo greco chairō, “gioire” (la stessa radice indoeuropea si ritrova nel latino horior, “esortare”). Quindi la “grazia” è quel dono di benevolenza che ci fa gioire, che dà pieno significato alla nostra vita.  

          Maria viene definita dall’angelo “piena di grazia” (Luca 1, 28), in greco kecharitōmenē. Si tratta del participio perfetto passivo del verbo greco charitoun, “dare grazia”, quindi indica che Maria è investita (passivo) di una grazia perfetta e duratura che implica pienezza (perfetto). Non per nulla il Magistero della Chiesa afferma che “la pienezza di grazia indica tutta l’elargizione soprannaturale, di cui Maria beneficia in relazione al fatto che è stata scelta e destinata ad essere Madre di Cristo” (Redemptoris Mater 9).

         Maria è il modello di ogni vero cristiano. Ciò che Dio ha fatto in Maria era quanto accadeva ai progenitori prima del peccato originale e quanto accadrà ai salvati in Cristo.

          Dio si incarna in Gesù Cristo, vero Dio e vero Uomo, per redimere l’uomo dal peccato mediante il sacrificio della croce. Su quel patibolo Cristo cancella i nostri peccati. Questo sacrificio, compiuto duemila anni fa in maniera cruenta, continua ad avvenire in maniera non cruenta in ogni Messa: il pane spezzato e il vino versato dal sacerdote diventano, con la invocazione dello Spirito (epiclesi), il vero e reale corpo di Cristo, che partecipa della morte e della risurrezione. San Pio da Pietralcina vedeva in ogni Messa Cristo che moriva e assieme a lui la Madonna.

          Anticamente il popolo ebraico offriva dei sacrifici di animali per ottenere da Dio il perdono dei peccati, adesso è Cristo che si offre a Dio Padre come vittima di espiazione, portando a compimento i sacrifici antichi. Con la sua risurrezione Cristo ha annullato sull’umanità il potere della morte, conseguenza del peccato.

          Dal fianco squarciato di Cristo in croce esce “sangue e acqua” (Giovanni 19, 34), cioè “grazia su grazia” (Giovanni 1, 16) per tutta l’umanità. 

          1 Tessalonicesi 5, 9-10:

“Poiché Dio non ci ha destinati alla sua collera ma all’acquisto della salvezza per mezzo del Signor nostro Gesù Cristo, il quale è morto per noi, perché, sia che vegliamo sia che dormiamo, viviamo insieme con lui”.