Gli Studia humanitatis, rinati con l’Umanesimo, sono studi volti a conoscere l’humanitas, cioè l’essenza di tutto quanto è umano. L’umanista non va a frugare nei recessi dell’animo umano, si sofferma sull’opera di coloro che lo hanno preceduto (i famosi giganti, sulle cui spalle dichiara di trovarsi), ma anche di quanti gli sono compagni di strada, cercando di capire quanto di importante, notevole, meraviglioso l’umanità sappia operare.

In realtà tante cose che destano in noi stupore, una volta che siano studiate a dovere, perdono quell’alone di quasi magia che a tutta prima pareva dovessero possedere. Che sia un’opera di ingegneria, come per esempio la piramide di Cheope o un’opera letteraria come le Satire di Orazio o le Georgiche diVirgilio, poco cambia. Quando sei entrato nel gioco, parli con chi quella piramide ha concepito, con chi in quella certa poesia ha dato qualcosa di sé. Nulla come il nostro lavoro racconta profondamente di noi e del nostro mondo.

Non è peraltro tanto l’operosità degli Antichi a entusiasmare l’umanista, quanto piuttosto il fatto che le opere d’arte, di letteratura e di scienza, descrivano, ai suoi occhi, una civiltà. E in questo senso i primi umanisti presero a rileggere, cioè a leggere con attenzione, Cicerone e Tito Livio, dopo che erano stati ufficialmente ritrovati il De rerum natura di Lucrezio e l’ Institutio oratoriae di Quintiliano.

Recentemente ho letto dei testi, opera di scrittori palestinesi che vivono nella Striscia di Gaza. Vivono come cani braccati, assistendo a scene orribili perché i razzi che colpiscono le loro case hanno un potere distruttivo che non è esagerato definire devastante. Secondo quanto si legge in articoli di stampa diffusi anche in Italia, alcuni corpi si ritrovano a pezzi una mano di qua, un piede di là. Adesso poi si muore anche di fame e di sete. Perfino nei pochi ospedali che sono rimasti.

Preferisco non fare il nome degli scrittori che fanno di tutto per sfuggire ai bombardamenti e alle fucilazioni per poter continuare non a vivere ma a scrivere perché, da neo-umanisti, hanno preso a cuore il loro compito che è, al mio sentire, altamente civile. Ne taccio il nome per non nuocere a chi trova la forza di alzare la voce per dire quello che qualcuno deve pur dire. Si sa che l’esercito israeliano sa come colpire quanti giudica essere suoi nemici. Tempo fa un missile ha colpito un internet-caffè, luogo di ritrovo di quanti da remoto lavorassero per informare e per essere informati, trovando anche il modo di scambiare qualche opinione.

“Diritto alla difesa” – dice qualcuno. Mi dispiace, non sono d’accordo. Il fatto che alcuni di questi testimoni di quanto accade nel loro paese si sentano dei martiri e si affidino al loro dio non vuol dire che siano fanatici e perché fanatici anche “terroristi”. Circa tremila anni fa Omero cantò l’addio di Ettore ad Andromaca alle porte Scee, badando – lui greco – a non fare dell’eroe troiano un uomo da disprezzare perché nemico della sua gente. E raccontò la storia di questo leale e coraggioso nemico, mostrando di possedere a sua volta intelligenza delle cose, un profondo senso di umanità e grande generosità di cuore. Non è a questo punto da escludere che il poeta o i poeti, che sotto il nome di Omero si nascondono, usassero come fonte canti di poeti troiani. Non sono terrorista se documento quel che accade sotto i miei occhi, se mi faccio testimone di quel che vedo. 

Per quel che mi riguarda, faccio lo scrittore e non mi lascio facilmente fregare dai giochi di parole. Non è clandestino chi probabilmente lo diventerà suo malgrado, nonostante attraversi il mare su barconi sovraffollati e insicuri, andando fiducioso a una frontiera, mettendoci la faccia e con documenti che attestano la sua identità. È clandestino semmai chi di soppiatto varca i confini del mio paese perché chiamato dalle mafie africane e orientali che se la fanno, come tutto lascia supporre, con la mafia nostrana. Cattiveria? Meschine insinuazioni? Direi piuttosto deduzioni da esprimere liberamente, dal momento che non offendono nessuno. Non credo infatti che la mafia nazionale si senta punta all’idea di fare affari con mafie straniere. In un ambiente nel quale la furbizia ha rubato la scena all’intelligenza, è legittimo ritenere che sia offensivo il pensare che non si sfruttino tutte, ma proprio tutte, le occasioni che si offrono.

Stesso discorso vale per chi viene bollato col termine “terrorista”. Il termine si riferisce propriamente a chi semina il terrore, panico e morte fra gente inerme. Non chi si sospetta o si teme che possa per disperazione trasformarsi in terrorista. A quel punto succede quel che sta accadendo a Gaza. Non ci si fa scrupolo di far morire dei bambini in quanto futuri  possibili “terroristi”. 

Non sto a dire qui che quanto ho letto, sia pure in traduzione, mi è parso fosse finalmente più autentico delle notizie compassate date dalla tv di Stato.  Sembra che la Presidente del Consiglio dei ministri abbia detto qualche tempo fa: non ignoriamo quel che accade a Gaza, ma non vogliamo contribuire all’isolamento di Israele, che da sempre è l’obiettivo del fondamentalismo, a partire da Hamas.

È una frase riportata da vari giornali italiani e che ho sentito in vari notiziari. È solo una frase e quindi, citata, diventa un’interpolazione. Non mi pare però che possa dare adito ad equivoci, per quanto è chiara.

La premier parla con chiarezza ma anche con la durezza che certe volte è tipica del linguaggio politico per cui, se bene intendo il passaggio più sopra riportato, pur di salvare lo Stato di Israele dall’isolamento a cui Hamas minaccia di condannarlo, non può evitarsi quel che a Gaza accade. Obietto che Israele si è isolato dal momento in cui ha seguito una diplomazia inadatta allo spazio geopolitico in cui è stato infelicemente insediato dalle potenze che ne hanno caldeggiato la nascita.

Aggiungo che abbiamo imparato dalla grande tragedia della Shoah che uccidere bambini è una raffinata crudeltà che rivela il proposito di sterminare una popolazione, inducendo i superstiti alla fuga, al difficile destino di integrarsi dove non si ha casa e si ignora perfino come si verrà accolti. L’Italia ha soccorso il popolo ucraino, mettendo perfino armi e mezzi a disposizione dei militari, che difendono il loro paese. Per me che un bambino sia ucraino o palestinese non fa alcuna differenza. Comprendo d’altro canto che, se l’Italia fosse stata alleata della Russia, quel che s’è fatto per l’Ucraina non si sarebbe potuto fare. Credo però che di fronte a certe enormità, si possa anche minacciare di rompere certe alleanze, ovvero mantenerle facendo però presente che un’alleanza può sempre rompersi per motivi gravi. E il motivo grave c’è. Certamente oggi Israele non è una sorta di avamposto dell’Europa nel Medio Oriente. È piuttosto un avamposto del mondo occidentale la cui leadership è stata ceduta agli U.S,A. che da grande potenza economica va trasformandosi in una potenza militare. Una potenza che, rischiando di minacciare gli equilibri internazionali, può rivelarsi pericolosa per tutti.

Incrinare i rapporti d’alleanza sanciti all’interno della Nato può pure significare di lasciare l’Ucraina al suo destino, che è quanto tuttavia sta accadendo. Va però anche detto che quando è in corso una guerra, la diplomazia per necessità tace. Io penso – e non pretendo che quanto penso sia da condividere necessariamente – che l’errore, per quanto riguarda l’Europa Orientale in genere, è stato nel voler attirare i paesi di quell’area in un ambito economico dalle dinamiche mal definite, protetto dall’egemonia degli U.S.A. Direi, per essere più esplicito, che Silvio Berlusconi, introducendo da noi il neo-capitalismo, ha da un lato rovinato l’Italia, dall’altro ha trovato il modo di far galleggiare la barca mandandola avanti sia pure con qualche fatica. Non mi stupisce in questo senso che qualcuno lo giudichi oggi un “genio” dell’economia e della politica, opinione che rispetto ma non condivido. Ragioni storiche e politiche rendevano ineluttabile richiamare verso l’Eu l’ex Germania dell’Est, l’Ungheria, la repubblica ceka e quella slovacca nonché la Polonia. La “vergogna” del muro di Berlino, i fatti del 1956, il Sessantotto praghese, il predominio di una cultura cattolica in Polonia consigliavano un passo del genere. Essere andati oltre è stato poco lungimirante. Sul piano dell’economia ha turbato, e non poco, i rapporti con la Russia. Ne sono nati venti di guerra che si fanno sempre più minacciosi.

L’episodio delle Torri gemelle scosse, a suo tempo, l’opinione pubblica americana. Gli U.S.A. sottovalutano il rischio di poter diventare teatro di guerra. Non così l’Europa che già lo è stata e non vuole tornare a esserlo. I popoli europei guardano con crescente diffidenza a un riarmo che è preludio a una guerra. Le armi non si fabbricano per soddisfare un’esigenza estetica, come può accadere di un quadro, di una poesia, di un’architettura. Una volta fabbricate, vanno vendute e impiegate, consentendo la fabbricazione di nuove armi, possibilmente più “efficienti” di quelle che, per quanto vecchie, possono tuttavia impiegarsi. È quanto impone la logica dell’industria. Chi governa gli stati europei fa bene a tener conto della diffidenza diffusa che, quanto al riarmo esiste un po’ in tutta Europa.

Non escludo che la distruzione di Gaza sia stato fin qui un esperimento, che mi auguro si sospenda al più presto, anche se non sono granché ottimista a riguardo. Intendo dire che anche il nuovo affare dell’ Intelligenza artificiale si va legando sempre di più al potenziamento di armi che quanto più colpiscono obiettivi certi, tanti più danni creano all’economia di uno Stato. Un raid potrà domani valere una guerra che non sarà guerra di conquista ma un’operazione di destabilizzazione, che è quanto basta a mantenere il controllo su un’area geopolitica “vitale” per i traffici e/o certe risorse minerarie e energetiche. L’operazione dell’aviazione U.S.A. nei confronti dell’Iran è in questo senso esemplare.

Il fatto che sconforta e demoralizza è che l’ impoverimento di tutto un paese può avere ripercussioni gravi sul mondo intero. L’Europa ha perso fin qui il grano ucraino e il gas metano della Russia. L’Iran ha minacciato la chiusura dello stretto di Hormuz. Fatti che non interessano a una cultura che, come l’attuale, guarda “ottimisticamente” al bicchiere sempre mezzo pieno. È l’ottimismo romantico e positivistico che fra Ottocento e Novecento ha celebrato il progresso, nascondendo alle popolazioni il prezzo che si paga per un “progresso”, ridotto infine a semplice progresso tecnologico, che oggi sfocia nella tecnocrazia. A parole siamo umanisti ma nei fatti stiamo tornando a credere nelle favole, vittime di slogan e di luoghi comuni.

Pare che nessuno avanzi l’obiezione: “ma di che cosa è mezzo pieno questo dannato bicchiere: di ambrosia che dà l’eterna giovinezza o di emerite schifezze che ci avvelenano giorno dopo giorno?”