Il 1919, successivo alla fine del conflitto, segnerà un vero spartiacque nella vita politica italiana: Nulla sarà come prima.

In effetti quell’anno fu l’incubatrice per eventi che segneranno profondamente la vita politica del nostro Paese.

Mi sembra interessante proporre questo capitolo del “la Fabbrica di mattoni rossi”.

Camillo Olivetti, nel settimanale canavesano che edita e in cui scrive i commenti politici, ci fornisce la sua cronaca politica di quell’anno. Lo fa con un maggiore distacco rispetto gli anni che precedettero la guerra. Non aderisce più ai Socialisti ufficiali e nemmeno al nuovo Partito di Turati e Matteotti, tuttavia appoggia il Socialismo democratico di Bissolati e Bonomi che hanno fondato l’Unione Socialisti Italiana.

Riporto gli articoli più significativi con un mio commento che serve, non solo da legante ma vuole chiarire il contesto storico temporale, anche con qualche giudizio personale che mi perdonerete.

L’Azione Riformista: un giornale fai da te

La grande guerra era finita con una vittoria certamente sofferta. Camillo riprese a costruire macchine per scrivere, l’azienda aveva sicuramente tratto vantaggio dall’evento bellico, com’era successo a quasi tutta l’industria dei paesi belligeranti, non solo quelli che avevano vinto, ma in parte anche quelli che avevano perso. La fabbrica di mattoni rossi tornò alla produzione originaria, con più risorse e maggiore esperienza. Dal ’19 al ’24 l’imprenditore di Ivrea è stato anche editore di due settimanali: l’eporediese «L’Azione Riformista» e il torinese «Tempi Nuovi». Il primo, negli articoli politici, venne redatto quasi del tutto da Camillo per circa un anno, con l’aiuto di un non ben identificato “gruppo di giovani”, che lo erediteranno quando si ritirerà dall’attività giornalistica, pur continuando a supportarli economicamente, solidale con la loro linea politica. Disponiamo quindi del pensiero del nostro personaggio, lungo un anno centrale per la vita politica del paese quale fu il 1919, anno forse non decisivo perché ancora interlocutorio, ma certo d’inizio di un processo involutivo della vita politica italiana che porterà l’Italia alla dittatura fascista.

«L’Azione Riformista» vede la luce il 14 agosto 1919 a Ivrea. Il tentativo di acquistare «La Gazzetta del Popolo» di Torino evidentemente non è andato a buon fine: Camillo ripiega su questo settimanale che, pur avendo caratteristiche provinciali con notizie dai vari paesi del Canavese, politicamente ha ben altre ambizioni. Il settimanale è pubblicato con un fondo di apertura scritto da Camillo.

Metodi nuovi Uomini nuovi

Premessa

L’Italia del dopoguerra non deve e non può essere l’Italia dell’anteguerra. Essa deve preparare uno stato di cose migliore con istituzioni e uomini migliori, cosicché il paese possa presto rimarginare le sue piaghe e assurgere a più alti destini, sì da figurare degnamente tra le nazioni civili, non solo per merito di poche persone elette, ma anche per l’elevatezza morale media di tutti i suoi cittadini. Il nostro credo Noi crediamo si debba tendere rapidamente verso un nuovo assetto sociale nel quale tutto il frutto del lavoro vada a chi utilmente lavora, ed in questo grande principio siamo d’accordo con i socialisti delle diverse tendenze. In un’altra cosa pure noi siamo, fino ad un certo punto, d’accordo con essi ed è nel concetto della lotta di classe intesa nel senso che i rivolgimenti politici ed economici non possono ottenersi se non mercé la lotta delle classi che da tali rivolgimenti ritrarrebbero il massimo utile contro quelli che, per paura o per interesse, a tali rivolgimenti si oppongono. Sennonché non siamo semplicisti e sappiamo che i fenomeni sociali sono per loro natura molto complessi e non possono nella loro essenza esprimersi in poche formule brevi come vorrebbero, da una parte i teorici e dall’altra i demagoghi. Quelli per inerzia mentale, in quanto è molto più facile giurare su formule che indagare su fenomeni complessi, questi per comodità di propaganda perché è molto più comodo esporre alla gente concetti semplici e suggestivi, anche se non interamente veri, piuttosto che compiere il lavoro faticoso di istruire e di persuadere. E tale è il programma che noi ci proponiamo con questo giornaletto. Pur serbando fede alle direttive sopra esposte crediamo che si possa e si debba tendere verso nuovi ordinamenti politici e sociali anche in modo diverso da quello che forma il vangelo delle varie scuole. Perciò pur essendo socialisti non ci sentiamo di legarci ad uno o all’altro dei diversi partiti socialisti, ma ci proponiamo di essere, con gli uni e con gli altri e quando lo reputeremo necessario, contro gli uni e contro gli altri, sempre ossequienti a concetti ed idee, non a preconcetti e interessi. (c.o.)

Il pensiero di Camillo ci sembra sufficientemente chiaro. È nato un nuovo partito socialista, l’Unione Socialisti Italiani (USI), che lui presenterà nel primo numero del settimanale.

L’Unione Socialista rappresenta un tentativo, finora non riuscito in pieno, soprattutto per deficienza dei capi e per certi errori di tattica che potevano essere evitati, di formare un saldo partito fra tutti quegli italiani che, come noi, sentono la necessità di profondi e radicali mutamenti nella organizzazione sociale e che, ben sapendo come il presente sia figlio del passato, vogliono soprattutto preparare il terreno a queste trasformazioni e far si che esse rappresentino un reale e duraturo progresso.

In un curioso articolo, Camillo esprime concetti di grande modernità per l’epoca.

Roma Capitale Onoraria d ’Italia

Rio de Janeiro, la grande metropoli del Brasile, non sarà più la capitale. Un telegramma ci annuncia che la capitale sarà trasportata a: Belo Horizonte, piccola città dello stato del Minas. Belo Horizonte è una piccola città, ed in questo il Brasile ha l’ottimo esempio degli Stati Uniti e della Svizzera che hanno collocato la propria capitale in una piccola città, cosicché la popolazione di questa non può influire menomamente sulle sorti della nazione, come è il caso di tutte le capitali europee che sono collocate nelle più popolose città […]. In Italia la capitale è Roma, grande città piena di monumenti e di storia, abbastanza popolata per poter avere un’influenza alle volte decisiva sul governo, ma la cui mentalità non rappresenta per nulla la mentalità dell’Italia, ed in modo speciale di quell’Italia che lavora e produce. La Monarchia Sabauda, nel trasferire la capitale da Torino a Roma, dopo la breve e infelice permanenza a Firenze, vi ha portato quello spirito accentratore ristretto della burocrazia piemontese che alla sua volta, andando a Roma, ha anche perduto gran parte della qualità di rigida onestà e di buona volontà di lavorare che la distingueva. Nessuna nazione ha divisioni storiche, geografiche ed etnografiche così naturali quanto l’Italia: ciascuna delle diciotto regioni italiane (comprese il Trentino e l’Istria) forma un tutto a sé ben distinto, sia per il dialetto, sia per i confini geografici, sia per il tipo di popolazione, sia per le tradizioni storiche. Una federazione di queste regioni italiane con un governo unico per tutti i rapporti con l’estero e per l’indirizzo generale della Nazione, ma aventi ciascuna ordinamenti adatti all’indole degli abitanti, e allo stato di civiltà di essi, avrebbero dato all’Italia e vi potrebbe dare tuttora incalcolabili benefici. Una forma federativa simile a quella della piccola Svizzera o della grande repubblica Americana potrebbe in breve tempo fare assurgere la nostra nazione a non sperate altezze. In tal caso però sarebbe bene che l’Italia, seguendo l’esempio di quelle due repubbliche, si scegliesse la propria capitale in una piccola città sita in un salubre luogo dell’Italia media, fondandola a nuovo se fosse necessario. E di Roma cosa ne faremo? Dovremo forse darla al Papa come vorrebbero i clericali? No. Il papato come potere temporale non risorgerà mai più, e forse ciò è meglio anche per esso. D’altra parte anche le tradizioni storiche ed artistiche hanno il loro valore e debbono essere rispettate. Roma potrà rimanere la capitale storica ed artistica d’Italia come Milano ne è la capitale commerciale, e Torino sta diventandone la capitale industriale. Roma quindi, potrebbe essere proclamata la capitale onoraria d’Italia.

Ancora una volta abbiamo la riprova di quanto il pensiero di Camillo abbia influenzato Adriano. Quando elaborerà il suo piano regolatore della Valle d’Aosta (il Canavese negli anni ’30 non era più in provincia di Torino, ma di Aosta), porterà avanti questi concetti relativi al federalismo che ritengo assolutamente condivisibili. Il 1919 si aprì con lo spettacolare tour del presidente americano Wilson nelle capitali europee per poi raggiungere Parigi dove si sarebbe svolta la conferenza di pace. Wilson in precedenza aveva elaborato una teoria che sul piano dei principi non faceva una grinza, ma su quello pratico cozzava contro gli interessi delle potenze europee vincitrici. Egli sosteneva il diritto dei popoli di avere un proprio Stato, ponendosi in antitesi con le brame spartitrici o con gli interessi politici ed economici degli altri partner, compresa l’Italia. Se i discorsi del presidente americano fossero stati analizzati meglio, i nostri governanti avrebbero avuto un anticipo di come si sarebbero svolte le trattative a Parigi. Quando Wilson arrivò a Roma l’accoglienza fu entusiasta: d’altronde l’America aveva non poco aiutato l’Italia dopo Caporetto. Seduto alla destra del re, Wilson fece discorsi generici inneggianti soprattutto alla nascita di quella Società delle Nazioni che avrebbe dovuto garantire la pace eterna tra i popoli. Il vero pensiero di Wilson venne però alla luce nell’ambito della conferenza parigina, dove arrivò con un seguito di milleduecento consulenti preparati in ogni campo dello scibile umano, fuorché sulla storia e la situazione europea: le università americane, d’altronde, prestavano all’epoca ben poca attenzione al vecchio continente. Wilson sostenne che la richiesta italiana del Sud Tirolo violava i diritti dei popoli, in quanto quelle popolazioni erano sicuramente di lingua tedesca e, per quanto riguardava le rivendicazioni in Croazia, non riconosceva i diritti sul porto di Fiume (che in effetti, a parte la città, era a maggioranza croata). Poiché i sacrifici erano stati tanti e con l’entrata in guerra del nostro paese le potenze dell’Intesa avevano avuto un interesse strategico determinante (al di là della nostra potenza o abilità bellica, infatti, il fronte italiano aveva fortemente impegnato l’esercito austro-ungarico, distogliendolo da altri fronti), era logico pensare che l’Italia avrebbe avuto diritto alla sua parte di merito e di premio. Quasi tutta la classe politica (esclusi naturalmente i socialisti), gli ambienti nazionalisti, i futuristi e gran parte dell’opinione pubblica sostenevano che a Parigi gli interessi dell’Italia dovessero andare al di là del trattato di Londra, dove si era detto tutto e nulla, come spesso succede quando si ha fretta di concludere un accordo, nella speranza che, a vittoria ottenuta, gli alleati sarebbero stati magnanimi. Cosa che non si verificò: Wilson ne faceva una questione di principio, ma la Francia e l’Inghilterra, per ragioni diverse, non avevano alcun interesse ad accontentare l’Italia, e si limitavano a una mera interpretazione burocratica del patto di Londra. Il capo del governo era Vittorio Emanuele Orlando che, seduto al tavolo parigino delle trattative con Wilson, Clemenceau, Lloyd George, ne uscì con le ossa rotte. Abbandonate giustamente e platealmente le trattative, Orlando sarà considerato per breve tempo un eroe; ma le negoziazioni furono riprese anche con noi, dato che la nostra assenza avrebbe portato a un risultato ben peggiore dello scarso ottenuto, e l’umore del paese nei confronti del governo mutò, al punto che ci fu la crisi e a Orlando succedette Saverio Nitti. Sul fronte interno l’Italia del ’19 era in aperta fibrillazione. I socialisti, che da Caporetto in poi si erano astenuti da quel pacifismo antipatriottico esasperato che li aveva caratterizzati dal 1913, ripresero le ostilità, questa volta ringalluzziti dal malcontento che si era diffuso nel paese per la crisi economica provocata, in gran parte, dalla riconversione dell’industria bellica e dalle ingenti risorse spese (e mal spese) per il conflitto. A tutto questo si dovevano aggiungere le promesse, in parte demagogiche, fatte ai combattenti sull’assegnazione delle terre incolte e, non ultimo, il mito della rivoluzione russa che per i socialisti diventerà un obiettivo da realizzarsi a breve termine. Se il partito socialista si era sempre diviso quasi su tutto, era stato per contro sostanzialmente concorde sull’atteggiamento negativo da tenere nei confronti della guerra, anche quando gran parte dei partiti fratelli a livello europeo avevano scelto la via patriottica. A conflitto ultimato, le alternative che avevano di fronte potevano essere due: prendere atto che in qualche modo la guerra era stata vinta e voltare pagina, oppure sfruttare l’onda del malcontento popolare. Scelsero questa seconda opzione. Lo fecero senza impedire che la polemica dal terreno politico si trasferisse alle persone e, in particolare, a quanti avevano combattuto in posizioni non proprio subalterne: ufficiali e sottufficiali non di carriera. La grande guerra testé conclusa aveva provocato un fenomeno sociale del tutto nuovo. Fino ad allora i conflitti erano stati sostenuti da eserciti in cui il ruolo di comando era delegato a militari di carriera, legati a filo doppio con l’ambiente monarchico. In questa circostanza la mobilitazione era stata, in tutti i paesi europei, pressoché totale: contadini e operai erano diventati soldati, i borghesi, e per la prima volta anche la piccola borghesia scolarizzata, ufficiali. A parte gli esentati, o per motivi di inadeguatezza fisica o per il ruolo che ricoprivano nell’industria bellica, gran parte della popolazione maschile partecipò a quella che sarà, da una parte, una carneficina e, dall’altra, fonte di grandi cambiamenti politici e sociologici. Il fenomeno più rilevante riguardò soprattutto quella fascia di piccola borghesia che si ritrovò per la prima volta a comandare. Non pochi travet torinesi, che avevano sempre chinato il capo, divennero ufficiali, assaporando per la prima volta il gusto del potere. In verità non furono comandanti ingiusti e insensati, come spesso accadeva agli alti gradi dei militari di carriera; furono piuttosto un cuscinetto democratico, riuscendo a stabilire in qualche modo rapporti camerateschi con la truppa, ben diversi da quelli usuali. L’errore fondamentale dei socialisti fu di non rendersi conto del fenomeno e di cavalcare il reducismo solo per sottolineare il malcontento generalizzato, sia per le promesse mancate sia per l’esito deludente delle conquiste territoriali. Se i vertici furono ciechi, la base e i quadri intermedi furono sciocchi e in molti casi profondamente ingiusti, offendendo quella massa di reduci che – già delusi per conto loro – dovettero subire l’oltraggio di chi, in gran parte, la guerra l’aveva vista da lontano. A sinistra, la guerra rappresenterà una spaccatura insanabile, ma più dell’evento bellico, per molti fu il concetto di patria a creare lo spartiacque. Camillo fu tra questi, e come lui molti altri. Un altro errore dei socialisti fu sul piano delle lotte dei lavoratori. Naturalmente il malcontento era notevole, poiché gli industriali, nonostante i superprofitti della guerra, scaricarono sui lavoratori i prezzi della riconversione. Tutto ciò avrebbe dovuto far parte di una normale dialettica sindacale e politica, ma tale non rimase. I socialisti erano, quasi senza eccezioni, inebriati dalla rivoluzione russa. «Facciamo come in Russia» era lo slogan coniato in quel periodo, mentre si magnificavano le conquiste della dittatura del proletariato. Intravedendo una possibile scorciatoia verso un potere che vedevano a portata di mano, le agitazioni si svilupparono non solo nell’industria, ma anche nel pubblico impiego, coinvolgendo postelegrafonici e ferrovieri. Nel frattempo le trattative a Parigi erano riprese con risultati tutt’altro che incoraggianti. Nel paese la protesta montava, anche sotto la spinta degli ambienti nazionalisti. Nacque l’arditismo, un fenomeno destinato a influenzare gli avvenimenti: gli arditi erano un corpo militare scelto, adoperato durante il conflitto per le missioni più pericolose. Nell’immediato dopoguerra furono i primi a reagire agli attacchi dei rossi, al punto che la loro reazione si trasformò ben presto in attacco, dando vita ai primi episodi di una sorta di guerra civile che si protrarrà per anni. Al fenomeno dell’arditismo se ne affiancò un altro altrettanto rilevante: l’irredentismo, che ebbe come personaggio emblematico Gabriele D’Annunzio. Nel periodo bellico il poeta aveva compiuto gesta eclatanti, come il raid aereo su Vienna per lanciare volantini patriottici. D’Annunzio vantava amicizie e proseliti anche negli alti gradi militari, i quali erano i primi a lagnarsi dei risultati parigini. Con la solita ambiguità tutta italiana, D’Annunzio armò una specie di esercito con l’appoggio degli ambienti militari, approfittando anche di quelli che, ribellandosi, non volevano abbandonare Fiume dove le truppe italiane presidiavano la città insieme ad altri contingenti internazionali. La Società delle Nazioni e i “congressisti parigini” furono messi di fronte al fatto compiuto. Il governo naturalmente cascò dalle nuvole e minacciò fuoco e fiamme contro “il vate” e i suoi arditi: a scoppio ritardato, tuttavia, perché D’Annunzio a Fiume ci resterà più di un anno. D’Annunzio mandò al compagno Mussolini un biglietto per informarlo che “il dado era tratto” e l’invasione di Fiume iniziata.

Mio caro compagno,

il dado è tratto.

Parto ora. Domattina

prenderò Fiume con le armi.

Il Dio d’Italia ci assista.

Mi levo dal letto febbricitante. Ma non è possibile differire. Ancora una volta lo spirito domerà la carne miserabile.

Riassumete l’articolo che pubblicherà la Gazzetta del Popolo, e date intera la fine.

E sostenete la causa vigorosamente, durante il conflitto. Vi abbraccio Gabriele D’Annunzio 11 Settembre 1919

A proposito di Fiume «L’Azione Riformista» scrisse:

L’impresa di Fiume

Il 12 settembre, alle ore undici circa, Gabriele D’Annunzio, capitanando un gruppo di circa diecimila volontari, appartenenti alle varie armi del nostro esercito, è entrato improvvisamente in Fiume, sostituendo il comando interalleato e dichiarando l’annessione della città all’Italia. Certamente il piano è stato favorito da innegabile fortuna e attuato con molta precisione, come forse gli organizzatori non avevano sperato. L’avvenimento inaspettato ha suscitato ovunque una grande impressione, dando luogo a disparati commenti e riaccendendo ancor più, se fosse possibile, l’animosità dei vari partiti politici […]. Il giornale passa poi a esaminare l’atteggiamento dei grandi quotidiani nazionali, tra cui cita «Il Popolo d’Italia» di Mussolini. Il Popolo d’Italia dice che: “la coalizione plutocratica dell’occidente – Francia, Inghilterra e Stati Uniti – è quella che dopo essersi dispartita il bottino di guerra, mira ai danni delle nazioni proletarie e dell’Italia. Il primo gesto di rivolta contro questa coalizione è l’impresa di Gabriele D’Annunzio. Il gesto non è soltanto magnifico dal punto di vista nazionale, ma è eminentemente rivoluzionario, perché va incontro ad un sistema che gli stessi socialisti e proletari combattono.” […] se non si fosse compiuta l’Unità d’Italia, lo sbarco dei fratelli Bandiera, lo sbarco di Sapri e anche la leggendaria impresa dei Mille sarebbero forse considerati come insani tentativi di filibustieri. [Camillo poi prosegue di suo…] Noi pertanto non avendo in mano elementi sufficienti, ci asteniamo di giudicare l’atto di D’Annunzio. Quello che è certo però è che se il governo non fosse stato inetto nelle trattative di pace, questo gruppo di giovani audaci non si sarebbe scagliato in un momento di esasperazione patriottica nella contesa città, la quale già molto tempo addietro fu proclamata italianissima, anche dai cosiddetti rinunziatari. […] oggi l’Italia è povera, siamo d’accordo onorevole Nitti, ma non ripeteteci più ad ogni minuto, che corriamo il rischio di morire di fame qualora ne saltasse il ticchio alle potenze dell’Intesa. Noi che conosciamo, per aver soggiornato in America un certo tempo e vissuta la vita del paese, il popolo degli Stati Uniti, siamo sicuri che se anche il Governo di Wilson volesse mettere in opera il mostruoso ricatto sfacciatamente prospettato da Nitti, il popolo si ribellerebbe. È sufficiente invitare gli Italiani, con tutti i mezzi, alla economia e alla disciplina. Sparlando in tal guisa voi minaccerete di far conoscere alla nostra dignità gli ultimi gradini dell’umiliazione… […] il Governo avrebbe una politica sola da seguire, sia nei riguardi dell’interno, sia nei rispetti dell’esterno, la politica patrocinata da Cavour [Purtroppo se D’Annunzio non è un Garibaldi, tanto meno Nitti è un Cavour] nel 1861.

A questo punto occorre parlare di un personaggio che abbiamo già incontrato: Benito Mussolini. L’uomo è rientrato dal fronte per una ferita causata dallo scoppio accidentale di una granata durante un’esercitazione (una ferita in battaglia avrebbe maggiormente gratificato il suo amor proprio…), ma in guerra si è comportato dignitosamente, meritandosi la stima dei commilitoni: l’antico renitente alla leva che era dovuto scappare in Svizzera è ormai un ricordo lontano. Ora è un patriota e un ottimo giornalista tornato a dirigere il suo giornale. È un periodo, quello del ’19, nel quale il futuro Duce sta cercando una collocazione politica e, forse, anche una reale sistemazione economica: ormai tiene famiglia… Naturalmente non ha rinunciato a fare politica, ha tenuto i contatti con i compagni socialisti che l’avevano seguito nella giravolta interventista del 1914. «Il Popolo d’Italia» è un giornale che accomuna il patriottismo con il socialismo massimalista, tipico dell’uomo. Quanto sta succedendo in quell’immediato dopoguerra gli fa capire che i vecchi compagni di cordata non sono sufficienti per un’iniziativa che dia risposte al malcontento di coloro che non sono socialisti ufficiali, ma vogliono comunque cambiare le istituzioni. L’idea sarà in parte simile a quella del ’14 quando promosse “i fasci di combattimento”, attorno ai quali egli si proponeva di riunire tutto l’interventismo progressista (vi partecipò pure Pietro Nenni, suo vecchio amico repubblicano). Fu nella sede della Camera di Commercio di Milano in piazza San Sepolcro che si tenne la riunione costitutiva del movimento fascista, con partecipanti eterogenei, anche se legati tutti dall’interventismo. C’erano soprattutto i nazionalisti e quel che rimaneva dei futuristi marinettiani, con Marinetti in testa; mancava invece Pietro Nenni, che nel frattempo era ufficialmente entrato nel partito socialista. Naturalmente una simile adunanza, se poteva essere d’accordo sul patriottismo e sull’odio verso i socialisti ufficiali, in molti casi era posizionata agli antipodi sui grandi temi politico-ideologici del paese. I mussoliniani doc erano ancora legati alle antiche concezioni massimaliste ed erano ovviamente repubblicani, mentre erano presenti nazionalisti monarchici come il capitano De Vecchi di Casale Monferrato, considerato un eroe per un’impresa compiuta durante la guerra in quel di Valcismon. Mussolini in quel frangente dimostrò di essere la personalità più forte, tanto da far passare un documento finale tutt’altro che moderato. In casa socialista le posizioni massimaliste, influenzate tra l’altro dall’acritica ammirazione verso il bolscevismo, presero il sopravvento nei confronti dei riformisti (Turati, Treves, Modigliani ecc.), i quali, con il loro atteggiamento rinunciatario, confermarono a quei riformisti ormai da tempo fuori dal partito che l’attesa sarebbe stata vana e che era meglio organizzarsi. Questi uomini erano capitanati dal vecchio Leonida Bissolati. Al loro interno oltre ai vecchi socialisti espulsi, c’erano i sindacalisti rivoluzionari dell’USI (Unione Sindacale Italiana) che nel ’12 si erano staccati dalla CGIL. Essi facevano capo ad Alceste de Ambris, che con l’altro sindacalista morto in guerra, Filippo Corridoni, diedero vita all’interventismo sindacale. Anche questo nuovo partito era politicamente disomogeneo, poiché quella sinistra interventista conservava gran parte delle convinzioni massimaliste. Nel frattempo erano arrivate le elezioni politiche e si dovette andare a votare: ecco cosa scrive «L’Azione Riformista» di Camillo a proposito dei partiti in campo.

I socialisti ufficiali

Nel campo socialista, almeno apparentemente, non vi è troppa armonia e molti vanno profetizzando che nel prossimo congresso, che avrà luogo verso la fine del corrente mese, possano scoppiare dissidi destinati a compromettere l’unità del partito. Le tendenze sono numerose e svariate ed ogni giorno vengono a galla nuove teorie e nuovi atteggiamenti, i quali denotano una crisi di spirito che, sinceramente o ad arte, va sempre più diffondendosi. Tali tendenze possono essenzialmente ridursi a due: quella elezionista, cioè quella di coloro i quali ammettono l’efficacia dell’azione parlamentare e perciò vogliono che il partito prenda parte alle prossime elezioni politiche e mandi alla camera il maggior numero possibile di deputati – e quella antielezionista – cioè la tendenza di coloro i quali negano qualsiasi importanza all’azione parlamentare e credono soltanto nell’efficacia del metodo rivoluzionario esercitato mediante l’azione diretta delle organizzazioni operaie. […] La storia ha i suoi ricorsi e anche questa volta il peggio che possa succedere consisterà in qualche vana logomachia o nell’innocua espulsione di qualche incomodo. Alla fine i socialisti ufficiali di casa nostra, benché vadano predicando ad ogni pié sospinto il leninismo e la dittatura proletaria, sono dei bravi figlioli i quali hanno più a cuore il seggio a Montecitorio che non un posto sulle fumanti barricate; e non riesce difficile prevedere come, trascorso questo incerto e confuso periodo di assestamento, il socialismo ufficiale ritorni agli aborriti carughi del riformismo, e che, se le elezioni andranno bene, parecchi dei suoi capi diventino Ministri e Sottosegretari di Stato, sia pure regnando S. M. Vittorio Emanuele III.

I Cattolici

I cattolici, dopo il noto congresso di Bologna, dove assunsero la nuova veste di Partito Popolare, sotto la quale nascondono tuttavia le antiche sembianze care a Pio X e all’ineffabile conte Della Torre, fanno pompa di propositi… democratici; gesto assai sospetto per della gente che fu fino a ieri reggi coda delle più livide consorterie reazionarie, e che porta ancora stampato in fronte il marchio del fu Gentiloni di imperitura memoria. Questo intruglio grigio, questo inqualificabile miscuglio che si chiama: Partito Popolare Italiano, nelle cui file si raccolgono gli individui più disparati per posizione sociale, per interessi, per idee e per tendenze, questa strana accolita di gente che va dal cardinale al povero curato di campagna, dal marchese già austriacante, e dal conte papista al contadino semidemocratico e all’operaio socialistoide, più che un partito è una confraternita, un corpo mastodontico privo di anima, un colosso dai piedi di creta. […] Il partito Popolare potrà ottenere un largo successo elettorale, ma alla prova dei fatti, il grandioso blocco si sfascerà clamorosamente, perché, se la logica è logica, i Pagarruzzi e i Cristoldi mai saranno in grado di procedere uniti con i Mauri e i Miglioli.

I democratici

Nella democrazia in genere manca, come al solito, quella chiarezza di atteggiamento e di indirizzi che ha sempre costituito il lato debole dei partiti intermedi e che ha determinato la grave stasi del loro sviluppo. Ogni partito opera per conto proprio secondo le proprie vedute e i propri mezzi, ma il lavoro indispensabile della preparazione e dell’organizzazione manca completamente. Secondo voci correnti, raccolte e propalate da qualche giornale, sembra che sotto gli auspici degli uomini più in vista si tenda a costruire un blocco democratico che dovrebbe raggruppare in sé radicali, repubblicani e riformisti. Al proposito abbiamo già espresso in precedenza il nostro modo di vedere, e poiché il nostro giornale non è un organo ufficiale dell’Unione Socialista Italiana e non può quindi arrogarsi il compito di rispecchiarne il pensiero, non sappiamo se l’opinione da noi espressa sia quella predominante in detto partito. Il quale avrebbe tutto il dovere e l’interesse di differenziarsi e di isolarsi, a meno che, come ripetiamo, non si presentassero dei casi concreti e circostanziati, in cui un’intesa fosse possibile, e non per il fine di un passeggero e fittizio successo elettorale, ma per uno scopo ben più elevato e più nobile, quale potrebbe essere il bene del paese ed il consolidarsi di una sana e forte democrazia.

I Liberali

Vi è ancora in Italia un partito liberale inteso nel senso storico della parola? Se potessimo prestare ascolto a tutte le attestazioni di fede democratica e di propositi riformistici venuti a galla in questi ultimi tempi sugli organi maggiori della stampa ortodossa, dovremmo concludere che i conservatori vecchio stampo siano definitivamente scomparsi dalla scena politica. Tuttavia per quanto concerne l’antico partito Liberale Riformatore, il contenuto non ne può essere di gran lunga mutato, e va da sé che gli uomini del conservatorismo, malgrado la nuova etichetta, rimangono quelli che erano in passato, e rappresentano tuttora quello che hanno sempre rappresentato. Avremo dunque, per quanto si dice, il partito dei giolittiani da una parte e quello dei salandriani e degli orlandiani dall’altra, nuove truccature delle vecchie e nefaste consorterie. I combattenti Un gruppo politico che avrebbe potuto rappresentare degnamente le aspirazioni ideali ed i bisogni materiali dell’Italia vittoriosa ed operare come centro di raccolta e di coordinamento delle forze più vive e più sane, era certamente quello degli interventisti e specialmente degli interventisti di sinistra. Senonché la maggior parte di costoro, se pure durante la guerra poterono adempiere alla missione di promuovere e di rafforzare la resistenza morale del paese, terminato il conflitto, non seppero o non vollero seguire le giuste vie della rigenerazione e della ricostruzione; anzi parecchi, per poca capacità ed onestà dei dirigenti, rinnegarono completamente i loro propositi democratici, e ben lungi da rappresentarsi come forza di rinnovamento, divennero un organismo di conservazione, il quale tende a perpetrare nel paese quella mentalità e quegli istinti militaristici che, appena cessata la guerra, dovevano essere capovolti e dovevano scomparire. Così in quel mentre tra gli ex combattenti avrebbe dovuto sorgere un’unica organizzazione forte di un unico programma e di un orientamento ben sicuro e preciso, per gli inevitabili dissensi determinati dallo strano contegno di alcuni capi, nacquero decine di associazioni, l’una diversa dall’altra per carattere e per indirizzo, associazioni che diventarono ben presto facile preda dei vari partiti politici, i quali oggi vanno plasmandole e amalgamandole secondo i loro gusti e i loro scopi…

Ci sembra un quadro chiaro dei partiti presenti in Italia in quel 1919, che riflette certamente anche le antipatie di Camillo che si estrinsecano soprattutto sul giudizio del nuovo Partito Popolare. I socialisti dell’USI svolsero il loro secondo congresso a un anno di distanza dal primo. Camillo vi partecipò: eccone la sua cronaca.

Il Congresso dell’Unione Socialista

Del congresso di Roma dell’USI se ci dichiarassimo soddisfatti diremmo una bugia. A noi sembra che un congresso dell’USI, che aveva nel congresso precedente stabilito le sue direttive generali, avrebbe dovuto soffermarsi sui problemi pratici e questo non fece. Noi abbiamo della politica un concetto alquanto diverso da quello solito. Nell’ordine morale bisogna che ciascuno di noi da una parte abbia delle direttive di ordine generale che ci devono servire di guida, ma d’altra parte la nostra azione morale si deve esplicare nell’azione di tutti i giorni, che deve essere per sua natura mutevole e varia e che è quella che dà veramente la misura della moralità dell’individuo. Ebbene, qualche cosa di simile dovrebbe avvenire nei partiti relativamente la politica. Essi dovrebbero avere dei principi di ordine generale, e l’USI questi principi li ha e sono quelli che formano le basi dello statuto approvato nel congresso dell’anno scorso. Ma oltre le direttive generali un partito dovrebbe avere una politica propria risultante da un insieme di programmi eminentemente pratici sui vari problemi di immediato interesse. Quest’azione pratica finora l’USI non l’ha espletata. Io avrei sperato che nel congresso di quest’anno si sarebbe discusso e sanzionato un programma di ordine prevalentemente pratico, riflettente le poderose questioni che interessano il nostro paese, e tale programma avrebbe dovuto essere ponderato e preparato prima dalla direzione del partito, cosa che essa non fece. Molte delle cosiddette relazioni furono semplici improvvisazioni, alcune volte brillanti, ma che altro non riflettevano che le opinioni personali dell’oratore. La maggior parte del tempo fu, secondo noi, perduta in una brillantissima discussione tra i luminari del partito relativa alla politica estera. Sappiamo anche noi che è molto interessante e piacevole per le orecchie degli uditori il sentire discussioni di carattere elevatissimo a cui presero parte uomini come Bissolati, Canepa, Romualdi, Arcà, sulla grande politica estera in cui si ebbero tra l’altro rivelazioni interessantissime, ma quella fu una discussione che avrebbe dovuta avvenire in un parlamento, non in un congresso che avrebbe dovuto segnare le direttive pratiche di un partito… Così si venne al terzo giorno senza aver concluso quasi nulla. Predominava nel congresso, da una parte la paura di allontanarsi troppo dalle masse, dall’altra non erano neppure assenti le preoccupazioni di ordine elettorale, acuite dall’incertezza e dagli inconvenienti del nuovo sistema di votazione. All’ultimo giorno soltanto si concretò un ordine del giorno pletorico di Susi, ma che, eccetto forse in qualche parte più felice (specialmente per quello che riguarda la politica agraria) non ci pare improntato a quella praticità che avremmo desiderato fosse stata la dote precipua delle deliberazioni del congresso. […] Concludendo il Congresso, secondo noi, non ha giovato al partito e degenerò in un’accademia parlamentare di ordine assai elevato, ma pur sempre accademia. Per fortuna nei partiti vitali vi è qualcosa di meglio che non le logomachie dei congressi, e noi siamo fermamente convinti che malgrado tutto l’USI, se i suoi componenti vorranno e sapranno fare opera di saggia propaganda, potrà farsi conoscere per quello che è: l’unico partito che nelle sue direttive rappresenta la necessità di questo grave momento della vita della nazione.

Nonostante l’USI non fosse il massimo per Camillo, nell’ambito del barnum socialista, per lui fu il meno peggio. Con le elezioni arrivarono delle novità, tra le quali l’USI in fondo era la minore. Si presentarono Mussolini, con il suo movimento fascista, a Milano e i popolari organizzati da Don Sturzo: anche grazie alle riforme elettorali liberali, infatti, per la prima volta un partito di ispirazione cattolica metteva in campo le masse popolari. Probabilmente con qualche esitazione, Camillo decise di appoggiare la lista piemontese dell’USI, senza tuttavia parteciparvi personalmente. Riportiamo il simbolo elettorale della lista presentata in provincia di Torino dalla coalizione di cui fece parte l’USI e la descrizione dei suoi due candidati più rappresentativi. «L’Azione Riformista» prende ufficialmente posizione invitando i lettori a votare quella lista e quegli uomini.

Per l’Elettore!

Francesco Repaci è il segretario della sezione di Torino dell’Unione Socialista Italiana. È direttore di un giornale socialista: Vita Nuova. Iniziò la sua carriera politica nel partito socialista come la maggior parte degli appartenenti all’Unione socialista, e si è diviso dal PSU dopo il congresso di Reggio Emilia, ove Mussolini, allora onnipotente nel partito, riuscì a scacciare Bissolati e altri valentuomini. La guerra lo trovò preparato e convinto che l’Italia non poteva rimanere neutrale, andò con cinque fratelli ad arruolarsi e combatté fino che fu costretto con la salute permanentemente compromessa in trincea, a lasciare la divisa per combattere nelle file del partito diverse ma non meno importanti battaglie. Pietro Monaco nato a Torino nel 1874 da famiglia operaia, ed operaio egli stesso, completa la sua istruzione rubando il tempo destinato al riposo per destinarlo allo studio dei problemi sociali. Dedicò tutta la sua vita all’organizzazione operaia e in special modo alla classe dei tipografi a cui egli apparteneva. Negli anni in cui la missione dell’organizzatore era difficile e non scevra di pericoli, egli diede tutto per la causa abbracciata. Fu in prigione e dovette emigrare causa le persecuzioni internazionaliste, capì, quando lungamente all’estero, che non è rinnegando la patria che l’umanità si incamminerà verso una forma superiore di civiltà, ma cercando che questa patria, madre per gli uni e matrigna per gli altri, diventi madre giusta per tutti. Perciò, egli operaio, non poté più seguire il PSU, bensì le ultime evoluzioni, e fu uno dei fondatori dell’Unione Socialista Italiana.

Emergono con chiarezza da queste candidature le due anime del partito: quella socialista riformista e quella sindacalista rivoluzionaria. Ed ecco ciò che pensa Camillo sul finanziamento pubblico dei partiti per le elezioni, tema per altro ancora attuale.

Elettori pagate!

Chi deve pagare le spese elettorali? Oh bella… i candidati… Se vogliono essere eletti paghino! È questa la risposta che si sente dare comunemente, ma a pensarci un poco sopra si vede che è una scempiaggine e un’immoralità. Premettiamo che per spese elettorali intendiamo le spese purtroppo ingenti e necessarie per pagare le schede e per la propaganda, non quelle che fanno alcuni uomini e partiti per corrompere gli elettori […]. La carica di deputato non deve essere più considerata un onore per il quale si deve spendere, salvo rifarsi dopo delle spese mercé quei vantaggi di varia natura che la carica offre ai deputati meno onesti […]. Perciò il deputato, deve realmente nell’adempiere al proprio mandato, fare sacrifici al pro dei suoi elettori. Gli elettori devono perciò scegliere liberamente i propri candidati fra le persone adatte, indipendentemente dalle loro condizioni finanziarie, e devono fare quanto è necessario perché essi siano eletti, cioè pagare anche le spese elettorali…

Infine una curiosità: cosa pensa Camillo dell’estensione del voto alle donne.

Il voto alle donne

[…] In massima parte noi non siamo contrari alla concessione del suffragio femminile, soltanto osserviamo che è sempre un grave errore elargire delle riforme politiche di capitale importanza, quando queste non siano sentite e desiderate dalla maggioranza dei cittadini. Le donne in Italia, e così, del resto, in tutti i paesi latini, non hanno mai chiesto il voto, anzi molto spesso hanno dato prova di non desiderarlo, e d’altra parte anche gli uomini, fatta eccezione di alcuni partiti interessati o in mala fede, non sono mai stati troppo teneri nel favorir l’ingresso nella vita politica alle donne, ben sapendo come essi stessi, per quanto uomini, abbiano dimostrato in parecchie occasioni e continuino a dimostrare di non sapere fare buon uso dei diritti politici e ciò, purtroppo, per mancanza di cultura, di civica educazione e spesso di moralità.

Per i fascisti milanesi quelle elezioni furono un disastro. Per le vie di Milano sfilò una bara che doveva contenere il cadavere di Mussolini, per iniziativa degli ex compagni meneghini che lo sbeffeggiarono in questo modo. I primi risultati portarono la notizia che i socialisti avevano conquistato la maggioranza assoluta dei seggi in parlamento.

La Vittoria del Partito Socialista Ufficiale

Dunque il Partito Socialista Ufficiale ha vinto con uno strabocchevole numero di voti ed è inutile arzigogolare sopra il fatto che molti non hanno votato, perché chi è assente non dice niente o al più se dice qualche cosa questo qualche cosa non è certo a favore delle classi che finora hanno detenuto il potere. Esaminiamo pacatamente le cause del successo. Anzitutto bisogna mettere in prima linea, il desiderio, in cui noi conveniamo completamente, di nuove forme sociali, e ancor più l’irritazione contro la bestiale ignoranza di chi ci ha governato per tanto tempo e che specialmente durante gli anni di guerra e l’anno di armistizio ha gettato il paese in una crisi spaventosa. I cosi detti partiti dell’ordine non hanno capito che solo rinnovandosi completamente avrebbero potuto salvare quello che era salvabile del presente ordinamento politico sociale, e invece ci hanno ammannito gli stessi uomini e gli stessi metodi di una volta facendo le vista di credere che sarebbe stato sufficiente tirar fuori qualche programma di riforme sociali rubacchiate qua e là per poter convincere gli elettori a dimenticare tutto il male che in cinquant’anni di mal governo hanno fatto al paese. D’altra parte l’Unione Socialista Italiana e le categorie con essa collegate eran troppo povere di denaro e di uomini, ed eran troppo male organizzate (per non dire disorganizzate del tutto) per poter attirare a sé, malgrado l’innegabile bontà ed onestà dei programmi, il voto di tutte quelle persone che pur volendo radicali mutamenti, sia nella forma del governo che nell’assetto sociale, desideravano che questi mutamenti avvenissero per gradi, e quello che più importa, fossero preceduti da una sufficiente preparazione morale e intellettuale delle masse. A queste cause si deve aggiungere la buona organizzazione del partito socialista ufficiale aiutato potentemente dalla Confederazione del lavoro. Certamente la vittoria elettorale dà al partito socialista il modo di conquistare il potere senza ricorrere alla violenza, a meno che, e ciò speriamo non avvenga, le cricche finora imperanti non cerchino di ostacolare al partito vincitore il libero esercizio della vittoria… Nel suddetto convegno l’on. Turati ha chiaramente affermato il suo dissenso dalle correnti estremiste, sostenute e sviluppate da vari oratori, i quali non solo si affermarono per il cosiddetto massimalismo elezionista, ma sostennero la tesi rivoluzionario-estremista. L’on. Turati dopo aver ricordato che la presente lotta di tendenze ha un esatto riscontro con quella avvenuta nel 1892 fra bakunisti e socialisti, si domandò che cosa intende di volere il cosiddetto massimalismo. Ecco: Abbandono dei vecchi mezzi d’azione e di lotta, instaurazione della dittatura proletaria, esclusione dei non lavoratori dall’esercizio del potere, violenta conquista dello Stato. Vecchio programma – egli osservò sotto una nuova etichetta. Ritorna ancora il vecchio contrasto fra il socialismo utopistico e il socialismo scientifico. Si dimentica la teoria secondo cui la società borghese cederà il posto al proletariato quando questo sarà capace di subentrare nell’esercizio del potere. La violenza non è sinonimo di rivoluzione.

Questo commento a caldo avviene prima che si sappia che i cattolici hanno contenuto la vittoria socialista: infatti, come aveva previsto Camillo, i cattolici conquistarono cento seggi che impediranno ai socialisti di formare il nuovo governo in solitaria. Pur essendo evidente la delusione per quella débacle dell’USI, Camillo ritenne che la vittoria dei socialisti li avrebbe portati su posizioni più moderate: se essi fossero stati su posizioni riformiste, forse il corso della storia avrebbe potuto prendere un’altra direzione. Quel partito, invece, fu incapace di cogliere i frutti del suffragio universale che, per la prima volta, aveva consentito alle masse lavoratrici l’accesso al voto, e si trattò indubbiamente di un’occasione perduta, perché proprio una riforma liberale avrebbe dovuto far capire loro che i termini di una collaborazione esistevano. I popolari, con la loro affermazione, si candidarono a fungere da stampella ai veri sconfitti di quelle elezioni: i liberali! Nitti ebbe un po’ di ossigeno e riuscì a formare un nuovo ministero approfittando dei popolari, che comiziavano a sinistra ma decidevano a destra. Al congresso del partito comunque ebbero la meglio i conservatori e quindi Nitti poté governare ancora per qualche mese. Ringalluzziti dalla vittoria elettorale i socialisti, invece di pensare a una possibile via parlamentare, cavalcarono sempre di più la protesta popolare: la stessa Confederazione del Lavoro, che si era distinta in passato per moderazione e buon senso, si lasciò trascinare dalle sirene del bolscevismo nostrano: anche Bruno Buozzi, mitico leader dei metalmeccanici, pur su posizioni politicamente riformiste, perse la testa in quegli anni che dagli storici saranno definiti “il biennio rosso”, e non seppe, o non volle, smorzare i furori proletari. Si arrivò a chiedere un aumento salariale del 40%, e quindi si rese coeso ciò che non era mai stato: il fronte degli industriali. Nel triangolo industriale la guerra aveva permesso una forte crescita, soprattutto nel settore metalmeccanico. Il fenomeno più eclatante si ebbe a Torino, dove questa categoria di aziende aveva fatto registrare uno sviluppo di filiera soprattutto attorno all’industria dell’auto: non solo la FIAT, ma la motoristica in generale. La crescita di queste aziende aveva incrementato la spersonalizzazione tra il “padrone” e gli operai, e quindi creato una barriera di diffidenze reciproche. Fenomeno già vissuto nelle nazioni più industrializzate, che aveva provocato l’affermarsi di rappresentanze operaie agguerrite e politicizzate, basti pensare alle Unions inglesi che erano rappresentate politicamente dal labour party. In quei paesi, tuttavia, non fu mai messa in discussione l’interdipendenza tra datori di lavoro e manodopera, perché quel sindacalismo e quel socialismo non misero in discussione la proprietà privata. Lo stesso Marx aveva sostenuto che lo sviluppo industriale era all’inizio del suo ciclo e le trasformazioni in senso collettivistico potevano attendere. Per contro, la crisi del dopoguerra in Italia, dovuta alla forzata riconversione industriale, fu interpretata dagli strateghi massimalisti come l’inizio del declino capitalista. Si aprì di conseguenza la stagione conflittuale più esasperata che l’Italia abbia mai visto (quella degli anni ’70 ne sarà una pallida emulazione, anche perché difficilmente la storia insegna a evitare gli errori del passato…). Ecco un po’ di cronaca di quei primi eventi che furono l’avvisaglia del biennio rosso: 

Il Grande Sciopero I

l grande sciopero dei metallurgici che involve la mano d’opera metallurgica della Lombardia e del Genovesato, continua da molte settimane. Purtroppo, in questi ultimi tempi, le relazioni tra gli industriali e le maestranze si sono fatte difficili ed a invelenire ha concorso il fatto che, la federazione generale degli operai, la quale a parte le opinioni personali dei dirigenti, si era mantenuto nel campo prettamente economico, dopo il deplorevole e deplorato ritiro di Rigola, ha in molte occasioni dimostrato di obbedire troppo pedissequamente agli ordini del partito socialista ufficiale o meglio ai dirigenti di esso, i quali, almeno in questo momento, professano idee apertamente bolsceviche. Gli industriali poi accusano apertamente gli operai di non produrre sufficientemente e di lavorare il meno possibile, accusa che i dirigenti della federazione respingono sdegnosamente e che ad ogni modo non può coinvolgere la gran parte operaia. Quello che è grave e che rattrista in questo sciopero, non è lo sciopero in sé, che può essere considerato uno degli episodi della lotta tra capitale e lavoro, ma è piuttosto lo stato d’animo fra le parti contendenti, le quali si considerano come nemici dichiarati, mentre, a parer nostro, operai e industriali in Italia avrebbero ancora molta strada da fare insieme, per lottare contro il parassitismo delle classi che sono le vere classi dominanti nel nostro paese e che, valendosi dei loro dissensi, le sfruttano e rendono difficile il progresso industriale della nazione.

Questo articolo di Camillo ci sembra illuminante, coglie con moderazione e buon senso quanto sta avvenendo nel paese. Le posizioni tra gli industriali e i lavoratori diventano sempre più inconciliabili. Camillo nel suo eremo industriale eporediese non vive in prima persona quegli avvenimenti e ne può parlare con distacco. Cogliamo tuttavia differenza di accenti soprattutto in questo secondo articolo, rispetto alla lettera che scrisse da Milano a Luisa.

Lo sciopero generale in tutta Italia

I fatti violenti accaduti a Roma dopo l’inaugurazione della XXV legislatura hanno avuto un seguito immediato a Milano, a Torino e nelle principali città d’Italia. L’uso delle armi da fuoco che purtroppo va generalizzandosi anche fra i dimostranti ha causato vari morti e molti feriti. A rendere pericolosa la situazione concorre nelle grandi città il numero di delinquenti amnistiati dal loro compare Nitti. A Milano e a Torino formano un esercito. Frattanto la Confederazione Generale del lavoro, d’accordo con la Direzione del partito Socialista, deliberò di proclamare per il 3 corrente lo sciopero generale in tutta Italia. Senza andare a fare una lunga disamina dei fatti per accertare a che debbano ascriversi le responsabilità dei gravi incidenti, possiamo rilevare che il rinnovarsi di questo grave dissidio fra la popolazione è da addebitarsi alla irriducibilità e all’intransigenza del partito nazionalista da una parte e del partito socialista dall’altra. La partecipazione di ufficiali alle pubbliche dimostrazioni è poi più che mai deplorevole. Noi riteniamo che sia necessario cambiare metodo. Attenersi al vecchio sistema di stigmatizzare in Parlamento ed altrove il verificarsi di fatti di sangue tra agenti e dimostranti (ora che questi fatti si verificano purtroppo almeno una volta ogni dieci giorni) è semplicemente puerile e soprattutto letale per la vita del paese. Chi ha la responsabilità delle masse operaie sia all’altezza del suo grave compito, e faccia si che esse non trascendano mai in azioni violente. Chi è al Governo capisca una buona volta per sempre che è ora di modificare completamente i nostri attuali vieti ordinamenti […].

Anche il più convinto degli industriali socialisti non avrebbe potuto esimersi dal rilevare quel folle clima. I torinesi paiono privi di fantasia, sempre pronti a sparare basso, sono però dei gran teorici in politica. La città, che viveva un momento di profonde trasformazioni industriali e sociali, era una fucina in continuo sviluppo che non poteva lasciare indifferenti i giovani intellettuali usciti da un’allora ottima università. «L’Ordine Nuovo» nacque come uno dei tanti giornalini che il movimento socialista aveva partorito a livello locale e nazionale in quarant’anni della sua storia. Gli uomini che diedero vita a quella testata erano intellettuali di prim’ordine, capitanati da Antonio Gramsci, un sardo trapiantato a Torino per ragioni di studio. Erano tutti più o meno coetanei e scontenti della demagogia e del semplicismo politico che imperavano nel partito. Angelo Tasca era il segretario cittadino del partito; Palmiro Togliatti compagno d’università di Gramsci (tra l’altro sulle medesime posizioni interventiste nel ’14, quando entrambi avevano stracciato la tessere del partito); l’ebreo Umberto Terracini, anche lui ex universitario, oltre ad altri meno noti. La carica di Tasca consentì a Gramsci e a Togliatti, che nel frattempo avevano abiurato l’interventismo, di lavorare a mezzadria, facendo i giornalisti (pagati) a «L’Avanti!»: poterono quindi scrivere sul quel nuovo giornale che, sempre grazie a Tasca, fu anche inizialmente stampato e finanziato dal partito e da inserzionisti amici. Se quei giovani intellettuali invece di militare nel massimalismo fossero stati riformisti, avrebbero potuto dare un contributo decisivo alla nascita in Italia di una socialdemocrazia evoluta, come era avvenuto in altri paesi. Ma i giovani, si sa, sono tendenzialmente estremisti, e Turati e soci abbastanza inconcludenti da non generare grande interesse, per cui quel gruppo si ritrovò non solo a sinistra, ma a criticare da sinistra lo stesso massimalismo del partito. Per di più, e questo lo dobbiamo a Gramsci, elaborarono quella teoria operaista della politica che dominerà l’ideologia social-comunista italiana per tutto il Novecento. Il gruppo di «L’Ordine Nuovo» concentrò il proprio pensiero sul ruolo della classe operaia. Essendo torinesi, vivevano la realtà di un’industrializzazione avanzata e, di conseguenza, la presenza di un movimento dei lavoratori che in quegli anni aveva subito una profonda evoluzione e prodotto l’aristocrazia che avrebbe potuto, come in Francia e in Inghilterra, scegliere la via riformista e portare il socialismo nell’alveo istituzionale prima, e al potere poi. L’influenza intellettuale di quei giovani “professorini” e l’insipienza generale del partito fecero invece fare a quegli operai scelte che condizionarono in modo determinante le loro lotte, più rivolte ai cambiamenti politici che a quelli sindacali. A Torino, poi, c’era la FIAT, che se non era in assoluto la più grande azienda italiana, era tuttavia la più moderna e soprattutto leader nel campo della motoristica. La società, che vantava allora venticinquemila dipendenti, aveva avuto, come quasi tutte le industrie, un forte sviluppo grazie alla guerra e beneficiato di superprofitti che tuttavia stava reinvestendo. Si stava costruendo il Lingotto, che per anni sarà il più avanzato stabilimento sul piano industriale. Agnelli non era un socialista come Camillo. Era un liberale giolittiano e credeva nella necessità del dialogo, ma soprattutto sapeva bene che la ricchezza principale di un’azienda risiedeva nella collaborazione dei dipendenti, in special modo degli operai. Proprio la FIAT sarà uno dei protagonisti di quanto andò maturando nel 1920; ma le avvisaglie si ebbero altrove.

I fatti di Mantova

A Mantova il 3 e il 4 dicembre si sono svolte due giornate di anarchia. Prendendo il pretesto che l’on. Murari, uno dei deputati mantovani, era stato percosso a Roma durante le dimostrazioni nazionalistiche del 1 dicembre, la folla scesa nelle vie della città, si diede al saccheggio, all’incendio ed a scene selvagge di violenza. Lo strano si è che il 2 dicembre, quando dalla Camera del Lavoro fu proclamato lo sciopero generale, una speciale commissione si era recata dal prefetto per pregarlo di non fare circolare la forza pubblica, la cui presenza “poteva essere causa di incidenti spiacevoli”. Così i dirigenti lo sciopero di protesta ebbero a garantire l’ordine, il prefetto fece ritirare i pattuglioni di vigilanza, per cui la folle violenza dei dimostranti poté svolgersi per interi due giorni con la massima libertà di azione. Si ebbero una decina di morti e qualche centinaio di feriti; furono liberati dalle prigioni circa duecento carcerati per reati comuni, venne rovinata la stazione ferroviaria, divelte le rotaie, fermati i treni, furono saccheggiati e incendiati negozi, che i danni ascendono a parecchi milioni. Come avviene di solito ad avvenimenti ultimati di tal genere, nessuno vuole assumersi le responsabilità. Anche L’Avanti! del 5 corr.m, la cui Direzione non è certamente all’oscuro dei fatti che la censura vietava di pubblicare, tenta nell’articolo di fondo una difesa che a noi sembra invece sotto certi aspetti un riconoscimento: «Quanto avviene oggi in Italia travalica i limiti di un’azione di partito per assumere tutti i caratteri di una profonda manifestazione di massa, per una situazione, diventata veramente intollerabile. Forse noi stessi dirigenti del movimento politico ed economico – vivendo in uno speciale ambiente di relativo privilegio – non abbiamo intera la sensazione di quanto sta accadendo intorno a noi e la trasformazione psicologica delle masse alla vigilia degli inevitabili avvenimenti che la guerra ha accelerato, si compie con rapidità tale che noi potremmo anche essere travolti dall’improvviso erompere dei fatti nuovi imprevisti ed imprevedibili, dipendenti da elementi assolutamente imponderabili.» Noi pensiamo invece che se anche le parole sopra citate sono state dettate dalla buona fede, i capi partito del PSU non dovrebbero dimenticare quanta parte di responsabilità essi abbiano, e come in un più o meno prossimo avvenire potranno anche essere le vittime del loro stesso gioco. La lamentata mancanza della loro autorità deriva per la massima parte da quanto con riprovevolissimo facilonismo hanno determinato durante la campagna elettorale. Essi pur di conquistare un gran numero di seggi a Montecitorio non temettero di speculare oltremisura sulle tristi condizioni di vita che ha lasciato la guerra. Non possiamo supporre che i capi partito del PSU, non abbiano potuto intuire quale effetto deleterio ed insanabile avrebbero prodotto le facili rampogne contro la guerra sulle folle operaie ancora ad un livello troppo basso di istruzione. È la propaganda che ha ricordato assiduamente ai lavoratori ed ai reduci le loro sofferenze, i loro morti, ha fatto dimenticare alla grande maggioranza della folla proletaria italiana le cause complesse e profonde che dominarono i nostri avvenimenti politici dal 1915 sino a rendere inevitabile l’intervento. Così si è seminato a piene mani il seme dell’anarchia e del bolscevismo. E nessuna voce volle mai dare un po’ di tregua a tanta demolizione che si è andata sviluppando a spese dell’avvenire del paese, per ricordare che la patria non fu mai rinnegata dai socialisti di Francia, del Belgio, dell’Austria e della Germania. – Segno che noi ci evolviamo prima degli altri – potrà obbiettare qualche convinto internazionalista del PSU – No – rispondiamo noi, dolenti della negazione – segno è che la compagine operaia italiana è ancora immersa nella più deplorevole ignoranza, e che noi corriamo il rischio di essere perennemente distanziati dal movimento ascensionale che vivifica le altre nazioni d’Europa. Fra le grandi potenze d’Europa un analfabetismo superiore al nostro, le statistiche lo riscontrano soltanto in Russia e tutti hanno visto cosa è accaduto in quella vasta e disgraziata Russia, dove il bolscevismo si barcamena a stento per quanto aiutato delle risorse naturali del paese, che ricercheremo invano da noi, e dalla bestialità del blocco dell’Intesa. I dirigenti del PSU invece di iniziare con la forza di cui dispongono (veramente vasta e irresistibile per il gran numero di aderenti al partito) il progresso delle masse proletarie, non hanno saputo, o non hanno voluto condurre che un’opera negativa intessuta di esagerazioni.

L’articolo, riportato per intero, dà la misura di come si fosse radicalizzato lo scontro e di come i socialisti e il movimento sindacale non sapessero, o non volessero, disciplinare le lotte, ma soprattutto, e questo scandalizzerà gli storici antifascisti, Camillo non cita mai il neonato movimento fascista, mentre parla dei nazionalisti. Per Camillo, questo è l’inizio di una svolta politica dove, più che il suo interesse industriale, entra in gioco la consapevolezza del baratro verso cui il paese sta incamminandosi. In questo clima di opportunismo politico e di ecatombe del buon senso, Camillo decide che il suo giornale è inadeguato, e che il pulpito eporediese è troppo provinciale. Complici saranno anche gli impegni in fabbrica: la nuova macchina, la M20, che nel frattempo sta sostituendo la M1, gli impone forse di lasciare ancora una volta l’agone politico giornalistico. Questo l’articolo in cui annuncia la chiusura del giornale.

Commiato

Con questo numero L’Azione Riformista sospende le sue pubblicazioni. La parola sospende può essere un eufemismo per far passare una parola più definitiva, ma può anche rappresentare uno stato reale di cose. Ciò dipenderà dalle circostanze e soprattutto dalle possibilità che un giornale del nostro tipo possa vivere e prosperare in un centro come Ivrea […]. Il nostro giornale sotto un certo punto di vista era un po’ spostato. Esso avrebbe preteso di essere letto da molti, mentre invece oggi le idee complesse che esso propugnava erano idee accessibili a pochi. Le idee che esso ha onestamente propugnato lo rendevano poco accetto ai conservatori che sono la grande maggioranza degli uomini. Con questo appellativo noi non vogliamo denominare quei pochissimi che al giorno d’oggi osano chiamarsi conservatori perché il conservatorismo pare non sia più di moda […]. Ora questa mentalità conservatrice è comunissima in tutti i partiti anche in quelli che si dicono rivoluzionari […]. In questo momento le occupazioni nostre e di chi ci aiuta nella direzione di questo giornale ci impediscono di dedicarvi maggior tempo e crediamo molto difficile trovare oggi chi possa surrogarci nel non facile compito.

«L’Azione Riformista» è in crisi, ma pensiamo che in crisi sia soprattutto Camillo. La sconfitta dei riformisti, le follie rivoluzionarie socialiste, ma soprattutto la scarsa rispondenza dell’elettorato canavesano al periodico lo inducono, in questo forse aiutato dal successo della sua industria che lo impegna molto, a chiudere il giornale. In realtà vi subentreranno i suoi “giovani collaboratori” e quindi, da giornalista editore, Camillo si trasformerà in semplice finanziatore. Dalla biografia di Adriano Olivetti di Valerio Ochetto, apprendiamo che tra quei giovani vi è anche lui. Quel settimanale chiuderà comunque verso la fine del 1920. Dalla lettura di «L’Azione Riformista» emerge un quadro sufficientemente chiaro dell’evoluzione del pensiero politico di Camillo. Soprattutto ci si rende conto di come egli abbia ben pochi effettivi riferimenti nei partiti presenti in Italia. Sostiene l’USI di Bissolati, pur facendone una critica preventiva: anche in questo caso, vista la débacle elettorale, fu buon profeta. Nel 1919-20 questi confronti sembrano sparire del tutto: la totale mancanza di commenti sulla nascita del movimento fascista fa riflettere sul fatto che certi avvenimenti, che influenzano in modo determinante un’epoca, possano passare inosservati ai contemporanei, e quindi siano sostanzialmente sottovalutati anche da un osservatore attento come Camillo. Non passarono per contro inosservate le violenze rosse, il che sta a dimostrare che queste precedettero quelle nere se un “rivoluzionario” come lui (lo era sempre nei confronti dei governi al potere) denunciò e stigmatizzò quanto avvenne in quel biennio di follie rivoluzionarie. Camillo fu pronto a riconoscere come salutare la vittoria socialista alle elezioni, illudendosi che aumentare la compagine parlamentare potesse portare i socialisti all’abbandono della sterile protesta di piazza. I successivi articoli saranno tutti incentrati sull’incontrollato ricorso alla piazza da parte delle sinistre, che lui sosteneva a ragione essere privo di sbocchi concreti. Poche alternative politiche credibili rimanevano pertanto a Camillo, e fra esse quel movimento promosso da Mussolini a cui aveva aderito Pietro Giraudo, ma anche un suo valente tecnico: l’ingegner Fulgido Pomella.