E’ evidente che c’è ancora molta strada da fare se si sta insinuando un’idea a dir poco raccapricciante. Ci si vuol far credere normale che una donna affitti il proprio utero e porti avanti una gravidanza e un parto per conto di altri: di donne che non possono o non vogliono accollarsi la fatica, meravigliosa fatica quando segue il proprio naturale percorso; di maschi, che per quanti sforzi facciano, non sono proprio in grado di generare figli senza il concorso di un corpo femminile.
Che cosa vogliamo che sia l’8 marzo? La celebrazione gioiosa di traguardi raggiunti oppure l’occasione per intraprendere nuove battaglie? Negli ultimi anni, la festa della donna è stata vissuta come una giornata che, ricordando tempi bui in cui le donne erano veramente sottomesse e prive di fondamentali diritti, celebra conquiste sacrosante che sarebbe bene vedere nel loro autentico significato, non come spesso accade attraverso caricature che ne snaturano il valore. Bello celebrare l’8 marzo con femminile allegria, bruttissimo distorcerlo nell’imitazione di comportamenti ostentatamente maschili, a voler eliminare ineliminabili differenze.
Classe 1946, per ragioni anagrafiche è ovvio presumere che io abbia partecipato, o magari scelto di non partecipare, alle vicende sessantottine dei movimenti femministi. Ma altre ragioni, economiche familiari culturali, hanno fatto sì che tutto quanto mi passasse accanto quasi senza che me ne accorgessi. Paradossale perché proprio le disuguaglianze, soprattutto quelle che mi derivavano dall’essere femmina, mi costringevano a ritmi di vita e lavoro che mi impedivano di vedere cosa capitava nel mondo. Nel mio mondo si dava per scontato che per una ragazza non avesse alcun senso studiare: doveva guadagnarsi il pane che mangiava in famiglia, nella speranza di entrare al più presto in una nuova famiglia con il matrimonio. Così era, quasi per tutte. La scuola una possibilità per poche fortunate. A me è stato concesso, dopo lunghe discussioni per una richiesta considerata a dir poco stravagante, uno strano capriccio, di studiare di sera. Quando qualcosa arrivava alle mie orecchie pensavo che sì, avevano proprio ragione, dovremmo anche noi poter fare le cose che fanno i maschi. La disuguaglianza era veramente vistosa. Lasciavo che fossero altre ad agire anche per me.
Lo sguardo, grato per alcune fondamentali conquiste, si fa in seguito più attento e comincia a vedere anche le crepe. Comincia a comprendere che le conquiste fondamentali non riguardano affatto una presunta totale uguaglianza tra uomo e donna, che grazie al cielo sono profondamente diversi. E che i diritti, mai disgiunti dai diritti dell’altro, comportano quindi anche sempre dei doveri. L’idea di diritti assoluti è fonte per forza di cose della strumentalizzazione di altri, cosa inaccettabile, come ben evidenzia la morale kantiana, che rimane tuttavia ancorata ad una visione asettica, fredda, astratta, incapace di relazionarsi con la vita che non è mai razionalmente classificabile. E’ legata al razionale principio di identità che Florenskij definisce “spirito di morte, di vuoto, di annientamento … mentre la vita scorre, non è mai identica a se stessa e proprio per questo non è contenibile nel raziocinio”. L’impressione che si ricava è che si stia parlando di individui irrelati, quali nella realtà è impossibile trovare. Nella vita troviamo persone che sempre si confrontano con un Tu ed ogni situazione è caso a sé, mai generalizzabile, mai riducibile a formule. Ogni uomo è persona, unica irripetibile, e sempre in relazione con altri. Ogni persona è responsabile per sé e per gli altri. Nel nostro ‘progredito’ mondo si sta facendo avanti la stravagante mortifera idea che l’individuo possa decidere autonomamente su tutto, vita e morte, la propria, ma anche di coloro che ancora non sono in grado di avanzare ragioni o di vantare diritti perché soggetti deboli. Individui che in realtà, ignorando il tu dell’altro, rinunciano ad essere persone, che sanno di essere in relazione con altre persone. Scrive Mounier: « Ogni persona ha un significato tale da non poter essere sostituita nel posto che essa occupa nell’universo delle persone. Tale è la maestosa grandezza della persona che le conferisce la dignità di un universo; e tuttavia la sua piccolezza, in quanto ogni persona è equivalente in questa dignità, e le persone sono più numerose delle stelle » Uguale dignità e immensa dignità per ciascuna persona.
Le leggi che regolarizzano divorzio e aborto, nate dalla necessità di affrontare drammi immensi che vedono quasi sempre la donna come soggetto debole, vengono vissute come conquiste epocali nel nome del progresso. Guardando più da vicino, con occhi disincantati e soprattutto valutando nel tempo le conseguenze, vediamo una realtà costellata di drammi di segno diverso, in cui sono comunque sempre i deboli a soccombere. Il divorzio, non più rimedio a situazioni dolorose, diversamente irrisolvibili, ma fonte di una fluida concezione del matrimonio, che sta, sempre più e per sempre più persone, assumendo il carattere di un impegno a tempo. L’amore, una visione piccina dell’amore, giustifica tutto: ci si prende, ci si lascia e se ci sono figli pazienza. Se la caveranno. L’aborto da soluzione estrema per situazioni estreme diventa diritto ormai incondizionato. Il corpo è mio, ne faccio quello che voglio. Il corpo dell’altro, il dolore dell’altro, semplicemente non esiste.
Anche l’utero in affitto segue questa logica. Se la donna è padrona del suo corpo può benissimo farne un’incubatrice. Peccato che si tratti di donne che si prestano a questa barbarie per fame, una nuova forma di schiavitù che in nome del “progresso” viene giustificata. Nei paesi “progrediti” (il Canada è in avanguardia su questo fronte) la legge consente che gli uteri vengano prestati “a titolo gratuito”, da donne che si mettono per altruistico amore a disposizione di coppie che non possono generare. Ma è credibile? Nessuna madre, ma anche nessuna persona di buon senso, può ritenerlo possibile. Ma poi, quale altruistico amore può dimenticarsi del bimbo sottratto violentemente al rapporto che è base e fondamento irrinunciabile di ogni vita nascente? Gli si impone una ferita che non potrà essere senza immense sofferenze e per tutta la vita. Solo un individuo che si pretende irrelato, può ingenuamente, ma sarebbe più corretto dire colpevolmente, pensare che non ci saranno conseguenze.
Se la pratica (io preferisco dire barbarie) esiste, tanto vale normarla, come appunto fanno i paesi progrediti. Questo si dice. Ma normare equivale a legalizzare. A fatica e con sofferenza non si può fare a meno di pensare che in molti paesi esiste la pena di morte: possiamo dire che è una “norma” che non ci piace e preferiremmo non esistesse? Qualcuno oserebbe forse dire: esistono gli omicidi, oppure la schiavitù, oppure qualche altro obbrobrio, quindi “normiamoli”? Donne, svegliamoci. Chiamiamo le cose con il loro nome. L’utero in affitto è barbarie. Opponiamoci con tutte le nostre forze, diamo un significato forte all’8 marzo.