Il dharma e l’amore, di Marco Calzoli
Dio è l’essere e noi, in quanto particelle di Dio, siamo. Tutto il resto è illusione (in sanscrito māyā). In sanscrito l’essere è detto sat, participio presente che significa “ciò che è”, nel senso di ciò che esiste veramente. L’essere è la vera realtà.
La Bṛhad-āraṇyaka-Upaniṣad (I.3.28) così recita:
“Fa’ che io passi dal non essere all’essere;
dalle tenebre fa’ che io passi alla luce,
dalla morte fa’ che io passi all’immortalità”.
In sanscrito abbiamo: da asat, “non essere”, a sat, “essere”. Ogni scelta che va nella direzione del non essere produce sofferenza, smarrimento di identità, una opzione verso la irrealtà della illusione.
Noi siamo ciò che scegliamo in continuazione: pertanto è fondamentale fare le scelte giuste. Con Dio siamo nella realtà, diversamente siamo fuori. Quando siamo fuori da Dio trionfa la personalità egoica, conflittuale, che non riesce a soddisfarsi. Perché non ci si può soddisfare con ciò che non è, con la illusione. Sono fiumi di illusione che danno l’impressione della felicità e della vita, ma è soltanto euforia illusoria, come con gli stupefacenti. Finito l’effetto illusorio, la persona piomba più in basso di dove era prima. Paura, angoscia, dolore.
Cosa vuole realmente il nostro cuore? Cosa desidera? Il cuore desidera l’essere, la vera realtà, la vera felicità, che coincide unicamente con Dio. Come diceva sant’Agostino, il nostro cuore è inqueto fino a che non riposa in Dio.
Se noi vogliamo vivere bene e vogliamo che si avveri la promessa di Dio, dobbiamo avvicinarsi alla domanda insita nel profondo del nostro cuore. Che è la esigenza più importante dell’uomo.
Gli esseri umani hanno quattro tipi di limite: nascita, malattia, vecchiaia e morte. Questi limiti dipendono dal nostro corpo. La nostra anima però ci fa trascendere da queste deficienze creaturali, facendoci porre la domanda sul senso della nostra esistenza. Questa domanda ci apre a Dio, il quale solamente può farci superare questi limiti.
La riconquista della eternità e della sapienza sono l’unico vero scopo dell’uomo. La forma umana è uno strumento per realizzare il senso della vita. E questi due traguardi riguardano Dio.
Dio è l’origine della vita e in Dio è la Verità. Lo dice anche il Corano. Lo afferma il v. 29 della sura 18:
La Verità viene dal vostro Signore.
La conoscenza vera è di Dio, colui che conosce l’Arcano (gẖayb). Il termine usato è ḥaqq, che, come noto, significa sia verità che realtà. In effetti, Dio crea secondo una verità d’intento (bi’l-ḥaqq), realizzando la verità nella realtà: per esempio, leggiamo nella Sura del Fumo (44, 38-39): “Non abbiamo creato i cicli e la Terra e quel che sta tra di essi per gioco, ma li abbiamo creati con Verità d’intento”.
Iddio, creando, scaglia la Verità (ḥaqq) contro la Vanità (bāṭil) oppone cioè al Nulla la sua stessa essenza (21, 18). Infatti, Dio stesso è la Verità: Allah huwa al-ḥaqq (22, 6).
Nella sura 31, 3 è scritto: “Dio è la verità e vanità è ciò che adorate in luogo di Dio”. Nel popolare Tafsir (Commentario) dei due Jalāl, composto in Egitto nella tarda epoca mamelucca, il termine al-ḥaqq, “la Verità”, di questo passo del Corano è tradotto con aṯẖ-ṯẖābit, cioè con “Colui che è permanente” o “duraturo” o “stabile”. Al contrario, la vanità del mondo (al-bāṭil), che i miscredenti adorano in luogo di Dio, è tradotta con az-za’il, letteralmente “l’effimero”, “il transeunte”.
Per andare oltre all’io bellico, guerrafondaio e cattivo, principio demoniaco dentro di noi, bisogna ritornare a Dio, che, essendo la realtà, costituisce l’unita di tutte le cose e la vera sapienza
Noi possiamo seguire il filo conduttore della vita quando scegliamo i valori spirituali. Noi stessi ci facciamo luce quando siamo consapevoli della legge divina. Questa, in sanscrito, è detta dharma, l’ordine cosmoetico presente in tutte le cose. Secondo Benveniste, dharma deriva da una radice indoeuropea, dhar-, che vuol dire “tenere fermamente”: il dharma è il fondamento dell’universo nel senso che lo tiene unito nelle sue componenti, costituendone il sostegno. La radice dhar- si ritrova probabilmente nel latino firmus, quindi il dharma è ciò che tiene fermamente, che è solidamente stabilito.
Per le concezioni indiane, la prima componente del dharma è la pratica dell’amore, bhakti.
Inoltre, nello Yoga (disciplina indiana tesa alla liberazione dell’individuo mediante la meditazione, con l’aiuto di posizioni corporee, dette asana, che la favoriscono) ci sono cinque attività da non fare (yama) perché portano sofferenza e cinque altre regole da fare (niyama), perché in sintonia con Dio, la realtà.
Come si deve vivere? La confusione tra yama e niyama genera sofferenza. I yama sono:
- Ahimsa (non violenza): Implica la non violenza fisica, verbale e mentale verso tutti gli esseri viventi.
- Satya (verità): Significa essere veritieri nelle parole e nelle azioni, promuovendo la fiducia e la trasparenza.
- Asteya (non rubare): Riguarda il rispetto per la proprietà altrui, sia materiale che immateriale (tempo, energia).
- Brahmacharya (astinenza/moderazione): Spesso interpretato come controllo dei sensi e della sessualità, ma anche come moderazione in generale.
- Aparigraha (non attaccamento): Consiste nel non attaccarsi alle cose materiali, riducendo il desiderio e l’avidità.
Invece le cose da fare (niyama) sono:
- Saucha (purezza): Riguarda la pulizia sia del corpo che della mente, promuovendo uno stato di equilibrio e chiarezza.
- Santosha (contentezza): Significa accettare e apprezzare ciò che si ha, coltivando la gratitudine.
- Tapas (disciplina): Implica l’impegno e la perseveranza nella pratica yoga e nella vita quotidiana.
- Svadhyaya (studio di sé): Consiste nell’esplorazione e nella comprensione di sé stessi, attraverso lo studio dei testi sacri e l’introspezione.
- Ishvarapranidhana (abbandono al Divino): Riguarda la resa a una forza superiore, sia essa un concetto religioso o una fiducia nel flusso della vita.
Per essere felici su questa terra occorre avere cura sia di sé che degli altri. La filosofia medioevale riconosceva nell’uomo due momenti: esse in (essere per sé) e esse ad (essere per gli altri). La parola latina beatus deriva da una radice indoeuropea che vuol dire “allattare”.
Secondo il filosofo tedesco Heidegger, la nostra umanità non è semplicemente data: la forma di cui siamo fatti non è compiuta e definitiva ma necessita di una “cura” (Sorge) per essere portata a perfezione.
Per la filosofia esistenzialista la Cura consiste nel “prendersi cura delle possibilità” (Heidegger). La cura non è una pratica contingente bensì la condizione costitutiva del Dasein, cioè dell’Esserci, vale a dire della nostra condizione umana. Per Heidegger, Sorge è l’essere dell’Esserci.
Dobbiamo aver cura degli altri per portarli a compimento. Un genitore non ha semplicemente il compito di far sussistere il figlio dandogli nutrimento ma anche quello di educarlo ai valori per trasformarlo in un uomo e in un cittadino. L’insegnante non veicola solamente nozioni (istruzione) ma mediante quelle nozioni e mediante il suo comportamento promuove lo sviluppo integrale della persona (formazione).
La cura è ciò che ci rende persone verso i nostri simili e non degli animali. Ognuno di noi ha responsabilità di amore, di affetto o comunque di empatia nei confronti di ogni essere umano che incontra, e anche verso gli animali (che sono esseri senzienti, quindi abbisognano della nostra attenzione). La parola italiana “responsabilità” significa etimologicamente “rispondere” e veicola l’idea che tutti noi dobbiamo rispondere alle esigenze degli altri, che ci interpellano in quanto membri di una stessa comunità, anche globale, e anche della stessa umanità.
È questa cura verso gli altri che ci rende simili a Dio, il quale è amore, come rivela 1Giovanni 4, 8 (in greco: o theòs agapē estin).
La nostra cura spinge il nostro simile a diventare ciò che è destinato ad essere, cioè immagine di Dio. Noi, prendendoci cura degli altri, li facciamo diventare sempre più consapevolmente particelle di Dio, come si squadra una pietra a colpi di scalpello o si pialla un legno per formarne un’opera d’arte. E la unione con Dio equivale alla eternità.
Questo perché la cura, attingendo alla verità della realtà, è un perfezionamento che spinge lungo la via divina.
Marco Vitruvio Pollione, architetto e scrittore romano del I secolo a.C., affermava nel De architectura che quando ci accingiamo a costruire un edificio dobbiamo valutare tre cose:
- Che la costruzione sia stabile
- Funzionale allo scopo
- Bella.
Possiamo quindi dire allargando il discorso che ciò che facciamo deve avere valore di stabilità e di senso e deve essere in armonia con l’universo, quindi deve essere qualcosa di “bello”.
Infatti, l’armonia e la bellezza sono strettamente legate, spesso considerate concetti interconnessi. L’armonia, intesa come equilibrio e proporzione tra le parti, può generare una sensazione di bellezza, sia essa percepita nell’arte, nella natura, o nella stessa persona. La bellezza, d’altra parte, può essere vista come il risultato di un’armonia intrinseca o percepita. Molte teorie estetiche, sia antiche che moderne, associano la bellezza all’armonia. Ad esempio, in filosofia, l’armonia viene spesso associata a proporzioni, equilibrio e ordine, qualità che sono considerate fondamentali per la percezione della bellezza. Questo concetto si riflette nell’arte, nella musica, e nella natura, dove forme armoniose tendono ad essere considerate più belle.
E l’arte è propriamente la tecnica del bello. Kant osservava come l’arte è “una specie di rappresentazione che ha il suo scopo in sé stessa”. Allora l’arte non è artigianato, che ha uno scopo di utilità, ma è concentrata autoreferenzialmente su di sé: ed è questo precisamente il bello. Il bello non ha altra utilità che il piacere estetico. Pertanto il bello è costituito dalla perfezione armonica delle parti.
In sanscrito “bellezza” si dice sundara, termine formato da su (prefisso che indica le cose buone, belle, piacevoli) e dṛś, “vedere”: quindi la bellezza è ciò che è piacevole alla vista, vale a dire armonioso nelle forme.
C’è una connessione tra il greco harmonia e il latino ars: essa risiede nella loro comune radice indoeuropea, che indica l’abilità di mettere insieme, di creare ordine e proporzione. Entrambi i termini, sebbene con sfumature leggermente diverse, si riferiscono all’arte, alla tecnica e alla capacità di creare qualcosa di armonioso e ben fatto. Il sostantivo greco harmonia originariamente significava “accordo”, “proporzione”, “concordanza” e si riferiva all’unione di elementi diversi che crea un insieme armonioso, sia in musica (accordatura degli strumenti) che in altri ambiti, come l’architettura e la filosofia. Il sostantivo latino ars deriva dalla radice indoeuropea ar- che significa “connettere” o “adattare” e inizialmente ars indicava l’abilità, la competenza, la tecnica, e successivamente si estese al concetto di arte nel senso più ampio, includendo le belle arti.
Ebbene, come diceva Platone, le cose belle sono difficili (chalepà tà kalà): per questo educare un figlio, fare il professore, ma semplicemente essere comunque una persona giusta e empatica è difficile, anche se non impossibile. Dobbiamo lottare contro le forze del male che ci spingono continuamente all’egoismo e alla cattiveria.
È veramente significativo che, nell’Albero Sephirotico della cabala, Hesed (Amore) sta appena sopra Nezach (Vittoria): sono due sephirot collegate strettamente. Infatti, per avanzare lungo la via del bene dando amore ad ogni creatura nella cura costante, dobbiamo “vincere” le energie contrarie, che ci spingono continuamente a desistere.
Nel Ṛg-Veda (10.72.3), il più antico dei Veda, i testi sacri dell’induismo, è scritto:
devānāṃ yuge prathame ‘sataḥ sad ajāyata | tad āśā anv ajāyanta tad uttānapadas pari ||
“Nella prima età degli dei l’esistente nacque dal non esistente; dopo nacquero le direzioni (dell’orizzonte) e dopo di esse gli alberi che crescono verso l’alto”
In questa cosmogonia vedica, il passaggio dal non essere all’essere si compie mediante il sacrificio. Pertanto l’azione sacrificale è ciò che pone le basi del mondo, al di là di un prima e di un dopo, che sono categorie occidentali. Per il mondo vedico, infatti, il sacrificio anche se officiato nel tempo ha effetti al di là del tempo e dello spazio.
Facendo un passo avanti, possiamo dire che ogni costruzione e creazione dell’uomo, da un’opera d’arte a un edificio fino alla cura della forma umana (amore, affetto, empatia), è un atto sacrificale in senso lato, in quanto permette la perpetuazione dell’essere.
Secondo varie concezioni, l’essere umano altro non è che un tempio e il servizio all’uomo nella cura è un servizio divino, paragonabile al sacrificio.
È significativo che la parola “terapia” significava in greco antico il servizio agli dei.
Gli dei non sono nell’Iperuranio, in un luogo inaccessibile, ma sono tra di noi. Talete e poi Giamblico dicevano che tutto è pieno di dei.
Le divinità abitano innanzitutto nell’uomo. È l’anima, che è una scintilla divina, o come dicono gli induisti l’anima (ātman) coincide con il Brahman, l’Assoluto, Dio.
Nella concezione indiana esistono quattro tipi di pittura:
- Satya: pittura sacra e mitologica. Il sostantivo sanscrito satya vuol dire “verità” perché la mitologia non era intesa nell’India antica come una serie di favole oppure di allegorie, bensì come le cose avvennero in tempi remoti. È significativo che i poemi epici indiani sono detti in sanscrito Itihāsa, che vuol dire “così è stato”.
- Vainika: pittura di villaggio con accento popolare, locale, decorativa.
- Nagara: pittura secolare più o meno sofisticata che rispecchiava lo spirito e la cultura urbani.
- Mishra: pittura in cui erano presenti in varia combinazione i generi suindicati.
La funzione più importante della pittura è quella espressa dal genera satya, che non per nulla i trattatisti indiani menzionano per primo.
La funzione tradizionale dell’arte, nelle varie civiltà, non è di mero abbellimento bensì di trasmissione del sapere divino.
In questo senso, la vera arte parla degli dei. Ma per le correnti induiste l’essere umano stesso è identificato con Dio. In una famosa Upaniṣad un discepolo chiede al maestro chi sia Dio, quindi il sapiente con una serie di domande e risposte fa arrivare il giovane a concludere che Dio è proprio quel ragazzo.
Gli indiani parlavano e parlano di Dio e, in ciò, parlavano anche dell’uomo. Nelle concezioni tradizionali l’uomo è Microcosmo che rispecchia il Macrocosmo, cioè l’universo nella sua stessa estensione fisica e spirituale, comprendente finanche le divinità e gli altri spiriti.
C’è una forte legge di corrispondenza tra noi e il tutto. Le correnti esoteriche insegnano che gli antichi si resero conto di una legge fondamentale: che ciò che avviene dentro l’uomo avviene anche all’esterno, nel mondo circostante, in questo poggerebbe l’efficacia della pratica magica.
Una concezione analoga viene insegnata tuttora in Cina. I cinesi tramandarono millenni di osservazioni dell’uomo e della natura e conclusero che l’uomo ha dentro di sé una energia vitale detta chi (grossomodo analoga al prāṇa indiano), paragonabile a una sorta di carica elettromagnetica che pervade tutto l’organismo, si allaccia agli organi e ne garantisce equilibrio (se non vi è equilibrio di chi, l’organo si ammala). Ora, il chi umano ha corrispondenza con il chi dell’universo.
Il chi è l’energia che permea tutto quanto esiste, dall’uomo al creato. Xunzi ebbe a scrivere: “Gli elementi hanno chi ma non vita (sheng), le piante hanno chi e vita ma non percezione (zhi), gli uccelli e gli animali hanno anche percezione ma non senso di giustizia (yi), l’uomo possiede tutti questi elementi”.
Viene espresso da un carattere cinese che si forma dalla unione di quello del “vapore” (aspetto dinamico e immateriale) e di quello del “riso” (aspetto denso e materiale): questo perché il chi è una energia sempre in movimento all’interno dei veicoli densi.
Il concetto di chi attraversa tutta la storia del pensiero cinese (anche se la prima occorrenza del carattere chi nella forma grafica odierna viene fatta risalire ad un’iscrizione su bronzo dell’inizio del periodo degli Stati Combattenti), quindi ha assunto svariati significati, a volte molto diversi. All’inizio il chi dell’uomo era differenziato dal chi dell’universo (erano anche scritti in maniera differente), ma per alcuni si tratterebbe di una divisione di comodo, in quanto i due ambiti sono stati sempre molto vicini, fino a coincidere molto spesso nelle varie scuole. Addirittura Mencio pone in stretto collegamento il chi con il yi, la legge morale dell’universo.
Il Tai Chi Chuan è una antica arte marziale cinese, che unisce combattimento, danza e esoterismo. Secondo i maestri di questa disciplina, con la forza della mente occorre indirizzare il chi, mediante gli esercizi fisici, per farlo sprofondare nel basso addome, tre dita sotto l’ombelico, dove vi sarebbe il centro della vita (tan tien). Perché?
Il Classico dei Mutamenti parla di “dopo il compimento”. Si riferisce alla unione dei due trigrammi Kam e Li. Il trigramma Kam indica l’acqua dei reni, invece il trigramma Li indica il fuoco del cuore. Kam e Li sono entrambi potenti e antitetici alla flessibilità, debolezza. Se nel nostro organismo c’è troppo fuoco, abbiamo ciò che la medicina occidentale chiama infiammazione (dal latino flamma), detta anche flogosi (dal greco flox, “fiamma”); se ne abbiamo troppo poco digeriamo male. Se abbiamo poca acqua il corpo va in disidratazione, ma anche averla in eccesso produce danni al nostro organismo (si parla di umidità patogena, che genera disturbi dal catarro alla fermentazione. L’umidità è appiccicosa: le malattie che provoca sono difficili da curare, la loro evoluzione è lunga, durano a lungo o si manifestano con attacchi ripetitivi: un buon esempio è l’artrosi, che si sviluppa gradualmente nel corso di diversi anni).
Allora, facendo sprofondare il chi nel basso addome, cioè in una posizione diversa da quella del cuore e quella dei reni, abbiamo l’equilibrio del fuoco e dell’acqua. I medici cinesi insegnano che tale equilibrio, cioè “dopo il compimento”, è fondamentale per restare in salute e preservarci sempre vitali nel corpo e nella mente. Infatti “dopo il compimento” permette la flessibilità, che i cinesi associano alla giovinezza. Il neonato è molle, invece l’anziano tende ad essere sclerotico dentro e fuori.
Ebbene, questa stessa dinamica viene riscontrata anche nel Macrocosmo. Infatti se c’è troppa acqua avvengono inondazioni, se invece vi è troppo fuoco c’è siccità: condizioni estreme non auspicabili. È l’equilibrio tra queste forze della natura che permette il buon raccolto.
Siffatto discorso vuol dire che, in tutte le civiltà tradizionali, l’uomo è considerato come una scintilla di Dio. Pertanto la cura (Sorge) è un vero e proprio servizio divino e alle energie del numinose del cosmo.
In questo senso, i cinesi impartiscono anche un altro insegnamento. Il segreto del Tai Chi Chuan sarebbe che tra forza (Yang) e debolezza (Yin) vincerà sempre la debolezza. Per questo bisogna investire nella sconfitta. Ma chi praticherebbe un’arte marziale con l’intenzione di perdere? Tuttavia sarebbe questa la legge fondamentale del reale.
In termini marziali, ad un attacco di forza bruta, come un pugno o un calcio, occorre rispondere con la flessibilità dei movimenti, sbilanciando l’avversario con la sua stessa forza e proiettandolo a terra con un veloce movimento dell’addome e delle braccia.
Invece in termini filosofici, il discorso di questa arte marziale significa che la benevolenza ha sempre la meglio sulla ostilità. La energica ostilità sembra avere vantaggi immediati, invece la benevolenza, che è la flessibilità dell’animo, serba vantaggi migliori sul lungo periodo, in quanto ci permette di non conseguire demerito nei confronti del Cielo, ciò che le filosofie indiane chiamano karma negativo.
Oltre a evitare il karma negativo possiamo anche comportarci per accumulare karma positivo: attraverso la benevolenza verso tutti. L’amore, l’empatia, la cura.
È esattamente come nel Microcosmo: gli eccessi di fuoco e di acqua nel nostro organismo sembrano potenti, ma è una falsa forza, è meglio la temperanza, l’equilibrio tra questi due estremi. Così nella vita bisogna mediare e non ricorrere mai alla forza bruta, altrimenti gli dei non gradiscono e ci puniscono in un’altra vita.
Chi è debole è veramente forte. E nel combattimento si sa che una sconfitta insegna più di una vittoria.
Lao Tzu scriveva che non c’è niente di più potente di una goccia d’acqua per corrodere la roccia. È ciò che i classici cinesi chiamano tung chin, “comprendere la forza”. È veramente forte chi non si fa guidare dall’istinto e dalle passioni distruttive e destabilizzanti, ma mantiene l’equilibrio in ogni cosa, essendo flessibile di fronte ad ogni avvenimento e circostanza della vita.
In qualche modo, è una riflessione analoga a quelle dei pensatori greci antichi. Nella filosofia greca, apatheia e atarassia sono due concetti strettamente legati al raggiungimento della felicità e dell’equilibrio interiore, ma con sfumature diverse.
L’apatheia, termine stoico, indica l’assenza di passioni, intese come turbamenti emotivi che impediscono la retta ragione. Il filosofo stoico Seneca si confrontava con la malattia, in particolare con l’asma. Egli la considerava una sorta di meditatio mortis. L’apatheia è quindi l’esperienza del proficiens di fronte alla sorte. Il vero proficiens non può evitare di esser messo alla prova e di verificare la sua apatheia.
L’atarassia, invece, è uno stato di tranquillità e imperturbabilità, tipico delle scuole epicurea e scettica, che si ottiene attraverso la liberazione dalle passioni e dalle preoccupazioni, raggiungendo una condizione di serenità interiore.
Bibliografia
- E. Benveniste, Il vocabolario delle istituzioni indoeuropee, vol. 2 (Potere, diritto, religione), Torino 2001;
- G. Boschi, “La difficile traduzione del termine qi”, in Cina, No.24 (1993), pp. 85-100;
- M. Campanini, La Sūrah della Caverna. Meditazione filosofica sulla unicità di Dio, Firenze 1986;
- Citrasutra. Trattato sulla Pittura nell’India antica, Milano 2016;
- M. Heidegger, Essere e tempo, Milano 2009;
- M. Heidegger, Segnavia, Milano 2002;
- I. Kant, Critica del Giudizio, Roma 1997.



