Con la morte di Sandro Galante Garrone nel 2003 si chiuse una pagina importante della storia civile del Piemonte. Egli fu per molti anni magistrato integerrimo e poi docente di Storia del Risorgimento a Torino. Chi scrive fu suo allievo negli anni dell’Università e trovò in lui un maestro a cui è stato difficile rinunciare. Galante Garrone fu un esponente autorevole di “Giustizia e Libertà” e dell’effimero Partito d’Azione durante la Resistenza, anche se poi nel corso degli anni scelse di stare lontano dalla politica militante, al contrario del fratello Carlo che optò per l’impegno attivo che lo portò al Senato della Repubblica.  Il suo magistero sui giornali è stato sempre significativo e presente nella coscienza di chi non aveva rinunciato a credere nei valori della libertà. Le battaglie per i diritti civili e la laicità dello Stato lo trovarono sempre in prima fila, proseguendo la linea dettata da Gaetano Salvemini e Piero Calamandrei che Sandro considerava, insieme a Francesco Ruffini, i suoi punti di riferimento ideale. L’Italia di minoranza, l’Italia della ragione trovavano in lui una voce autorevole ed ascoltata. Negli ultimi anni il radicalismo di Sandro si era accentuato fino a farne un «mite giacobino», mite nei modi, ma certo piuttosto aspro nei contenuti della sua polemica. Di qua partì il mio graduale allontanamento da lui, senza traumi o rotture né da parte mia, né da parte sua. Non posso né potrò mai dimenticare il suo comportamento nei miei confronti all’Università e non posso dimenticare la generosità con cui parlò del Centro “Pannunzio” e di me personalmente: «La storia del Centro è tutta nella sua ventennale attività, nello spirito di libertà che lo ha sempre animato e nella figura del prof. Pier Franco Quaglieni, che io conobbi studente all’Università. Posso attestare, come suo vecchio insegnante, che fin d’allora egli aveva sentito il fascino del “Mondo”, e del suo direttore Mario Pannunzio. A questo spirito Quaglieni è rimasto fedele, trasfondendolo operosamente nel Centro. Sono contento della strada percorsa fino ad oggi dal mio allievo. Da quella sua giovanile ispirazione il Centro è nato. Non è stata un’impresa di poco conto». Storico di spessore, egli aveva studiato le figure più emblematiche di quella che Bobbio definì l’«Italia civile». Lo ricordo come docente di sicuro fascino intellettuale e di assoluta apertura verso i giovani, sempre generoso e disponibile con tutti. Forse della sua opera storica poco è destinato a rimanere, ma sicuramente le sue ricerche su Buonarroti restano punti di riferimento significativi. Da allievo sono diventato naturaliter suo amico. A lui mi legavano l’amicizia con altri protagonisti della cultura laica, da Venturi a Valiani, da Spadolini a Casalegno. In quegli anni, anche se le mie posizioni liberali divergevano dalle sue, non ho mai voluto polemizzare con lui, vedendo nel maestro della mia giovinezza una voce importante della mia formazione. Le polemiche contingenti non potevano avere eco in un rapporto d’amicizia così profondo e così vero. Non posso dimenticare le parole che egli scrisse nel 1989 con una generosità che forse nessun altro dimostrò nei miei confronti: La storia del Centro è tutta nella sua ventennale attività, nello spirito di libertà che lo ha sempre animato e nella figura del prof. Pier Franco Quaglieni, che io conobbi studente all’Università. Posso attestare, come suo vecchio insegnante, che fin d’allora egli aveva sentito il fascino del “Mondo”, e del suo direttore Mario Pannunzio. A questo spirito Quaglieni è rimasto fedele, trasfondendolo operosamente nel Centro. Sono contento della strada percorsa fino ad oggi dal mio allievo. Da quella sua giovanile ispirazione il Centro è nato. Non è stata un’impresa di poco conto. Mi disse una volta che lui, antifascista intransigente, non avrebbe mai potuto scrivere una storia del fascismo, che vedeva come qualcosa contro cui si doveva combattere senza cedimenti anche dopo il crollo del regime, perché il pericolo di “rigurgiti” nostalgici era sempre in agguato. Il suo impegno politico antifascista gli impediva di essere uno storico disincantato del regime. Un atteggiamento apparentemente simile, ma anche molto diverso, da quello di Croce quando nella lezione L’obiezione contro le storie dei propri tempi ne1 1949 affermò: Non scrissi quella storia perché il compito che mi toccò fu non di fare la storia del regime fascistico ma di aborrirlo e, con quel tanto d’intelletto e di animo che possedevo, contrastarlo…[…] Se a un simile lavoro mi fossi risoluto o se potessi mai risolvermi, si stia tranquilli che non dipingerei mai un quadro tutto in nero, tutto vergogne ed orrori, toccherei del male solo per accenni […] e darei risalto al bene che, molto o poco, allora venne al mondo, o alle buone intenzioni e ai tentativi, e altresì renderei aperta giustizia a coloro che si dettero al nuovo regime, mossi non da bassi affetti, ma da sentimenti nobili e generosi […]. Infatti il fermissimo antifascismo di Sandro, mantenuto con coerenza estrema fino ai suoi ultimi giorni, non gli avrebbe mai permesso di condividere l’atteggiamento di Croce perché per lui il fascismo era stato e rimaneva da dipingere come un «quadro tutto in nero, tutto vergogne ed orrori». Più o meno così mi disse quando nel 1999 pubblicai la lezione crociana con un’introduzione di Sergio Romano che suscitò durissime critiche da parte di Sandro, in quanto Romano sollevò il timido dubbio che in Croce ci fosse in nuce una sorte di revisionismo. La diversità di valutazione negli ultimi anni della sua vita non mi ha tuttavia mai impedito di vedere in Sandro un maestro e soprattutto una coscienza intemerata. I miei maggiori è il titolo di un suo libro di successo in cui parla di Salvemini, di Croce, di Calamandrei e di altre figure dell’Italia laica ed antifascista. Tra i miei “maggiori” continua ad avere un posto ragguardevole, al di là del dissenso negli ultimi anni, la sua figura di storico e di uomo. Ed ho letto con piacere la bella biografia dal titolo Un Paese migliore che il magistrato Paolo Borgna ha scritto su di lui. Da quel libro emerge la ferrea morale laica di Sandro e il suo profondo senso dello Stato che egli riteneva dover essere il difensore dei più deboli. La sua lunga battaglia civile su giornali e riviste dimostra la coscienza intemerata di un democratico sincero che avrebbe desiderato la Repubblica sognata nella Resistenza e delineata dai Costituenti. Una Repubblica che non ci fu e che portò il “mite giacobino” a volte ad assumere toni sempre meno miti, soprattutto negli anni della II Repubblica nei quali i valori intangibili in cui Sandro credeva, venivano snaturati, calpestati, umiliati. Io non fui d’accordo con lui su alcune critiche estreme ma, a distanza di tempo, ritengo di dovergli dare atto che aveva ragione lui e torto io, forse vittima di un liberalismo troppo rigido o forse era lui ad essere un giacobino troppo rigido, anche se aveva confidato all’amico Jemolo di sentirsi un girondino destinato a subire il taglio della testa. Gli va dato atto comunque che, già avanti negli anni, non esitò a rigettarsi nella mischia con la stessa passione degli anni della Resistenza. Se si rileggono gli insulti a lui rivolti in quel periodo c’è da indignarsi per il progressivo degrado del dibattito politico, totalmente scisso da valutazioni culturali.