A riprova del fatto che la nostra arte e la nostra fantasia rappresentano un unicum nel panorama della pasticceria riporto nel seguito due storie che vedono coinvolti prodotti simili ma che hanno avuto un percorso diverso ed hanno attraversato la storia e le valli del Piemonte.

L’arte della confetteria nasce da lontano, forse da un pasticcere francese alla Corte del Re di Francia Luigi XV, ma è in Italia che si sviluppa più rapidamente e con esiti particolarmente felici ottenendo grande successo presso la Corte Sabauda. Già nel Medioevo era in uso nel Ducato distribuire le “treggee”, sorta di dolcetti fatti di mandorle o semi di finocchio rivestite di zucchero, e “trocisci”, pastiglie a base di anice caramellate. In Piemonte durante i banchetti venivano distribuiti cartocci (“cornet”) colmi di confetti o di frutta candita. La frutta candita proveniva dal Nizzardo e da Genova, ove da tempo si praticava l’arte di candire, arte che i marinai avevano conosciuto dagli arabi, scoprendo che immergendo le scorze di agrumi nella melassa le conservano a lungo e con esse riuscivano a supplire almeno in parte durante i lunghi viaggi per mare alla carenza di vitamine, proteggendosi dallo scorbuto.

I frutti e le scorze di agrumi canditi divennero presto alla moda presso la nobiltà piemontese, come raffinata chicca da offrire agli ospiti, tanto da essere addirittura prodotti in alcune località del territorio, come ad esempio a Carignano, cittadina della pianura torinese, già in tempi lontani. Troviamo un riferimento significativo in una lettera che nell’ottobre del 1516 la duchessa Bianca di Monferrato scrive al Duca di Savoia Carlo III in cui gli comunica l’invio, tra le altre leccornie, di un quantitativo di gestes (zeste) preparate da lei stessa. Si ha notizia che le “gestes” nel corso del tempo ebbero tra i loro estimatori anche il Cardinale Mazzarino, il generale napoleonico Jourdan e i Re di Sardegna.

Le zeste di Carignano ebbero poi alterne fortune legate alla situazione sociale dei tempi: scomparse nel corso del Cinquecento ricomparvero nel Seicento. Si ha ancora notizia di un banco di vendita di zeste allestito da alcuni abitanti di Carignano durante le Gianduiedi, feste popolari carnevalesche di Torino svoltesi tra il 1868 e il 1893; in una di queste occasioni vennero donate alla Regina Margherita di Savoia in una scatola d’argento. Le zeste di Carignano vengono prodotte ancora oggi e tutelate dalla denominazione PAT (Prodotto Agroalimentare Tradizionale) del Piemonte.

Dalla pianura ci spostiamo a Bardonecchia, cittadina montana della Provincia di Torino ai confini con la Francia, per parlare ancora di arance, ricordando ancora una volta come storia e alimentazione siano strettamente allacciate e influenzate l’una dall’altra.

Negli anni ’30 del Novecento una Ditta di imprenditori francesi specializzata nella sbucciatura di arance, bucce destinate alla produzione di essenze, prodotti farmaceutici, drogherie, ecc. della Società Mancior & E. D’Amico, che precedentemente si riforniva di arance dalla Spagna, trovandosi in profonda crisi durante la guerra civile che imperversò in quel Paese in quegli anni, aveva individuato un percorso di approvvigionamento alternativo dal Sud Italia dedicando un apposito scalo al confine di Bardonecchia. Sorse quindi tra gli anni 1937 e 1939 una nuova ed imprevista attività per la popolazione di questa cittadina. Allo scopo venne riattata una vecchia stalla costruita all’epoca della costruzione del traforo del Frejus (1856-1871) per il ricovero dei cavalli; le arance arrivavano in treno su un binario dedicato che le scaricava direttamente nella “scuderia”. Si trattava di un lavoro stagionale invernale che occupava il tempo di sosta dai lavori agricoli: era un lavoro faticoso e di precisione prettamente femminile che impiegava una settantina di operaie che si dedicavano alla sbucciatura a coltello, avendo cura di mantenere intera la buccia separandola dalla parte bianca.  Agli uomini era assegnato invece il compito di scaricare le casse di arance dai vagoni.

Una storia curiosa, dimenticata dai più, che il sig. Ugetti, rinomato e storico pasticcere di Bardonecchia, ha voluto far rivivere con la realizzazione di uno splendido dessert che raccoglie ed attualizza le memorie del territorio. In una sua creazione, “la pietra del seirass”, ci parla in modo dolcissimo della sua terra unendo e armonizzando alcuni suoi prodotti: arancia, di cui abbiamo appena parlato, il seirass, il grano saraceno, la farina di mais. Il seirass è la ricotta piemontese, caratterizzata da dolcezza e cremosità, particolarmente adatta per i dolci tanto che la ritroviamo protagonista nella “coppa sabauda” di antica memoria amata dai Reali. É il risultato di una coagulazione acida e presamica del latte e a differenza di altre ricotte è prodotta a partire esclusivamente dal latte, una volta di pecora, ora vaccino. Per quanto riguarda la farina di mais, nel nostro dolce viene utilizzata la varietà Pignoletto Rosso coltivata nell’Alta Valle Susa e l’unione del grano saraceno all’impasto di farina di mais, che costituisce la base del dessert, vuole omaggiare i progetti volti a reimpiantare coltivazioni di questo antico grano nel territorio. Il dolce di Ugetti si presenta a strati formati da questi prodotti del territorio racchiusi in una leggera copertura marmorizzata a simulare una pietra. La pietra è un altro simbolo della terra, di quanto questa ha significato per il lavoro di chi ha vissuto in quelle terre, della fatica di trasformarla in oggetti, muri, opere d’arte.

Ecco la tradizione innovata, la memoria fattasi presente e futuro, inglobata in noi come una dolce madeleine il cui sapore ci ricorda e ricorderà la nostra storia, chi siamo stati e chi siamo.