Uno strano personaggio
Robert Green Elliott fu certamente un personaggio curioso, di quelli che, a dispetto di una manifesta tendenza alla riservatezza – fu definito, nel periodo in cui visse ed operò da Agent of Death, come l’uomo più schivo e recalcitrante a farsi fotografare nello Stato di New York dei mitici Roaring Twenties – si ritrovò spesso sulle cronache mondane dei rotocalchi d’epoca. Certamente svolgeva un lavoro insolito, forse più una missione che un lavoro, a dar retta a Joseph De Mastre, visto che dal 1926 al 1939, questo umilissimo tecnico elettricista, che aveva trascorso la sua giovinezza rincorrendo sogni e topolini nella sua casa di campagna di Monroe County, mostrò al mondo la sua straordinaria esperienza di executioner,che gli permise di eseguire ben 387 condanne a morte sulla sedia elettrica di vari Stati della federazione USA.
Mi ritengo uno dei pochi fortunati, ad avere nella mia modesta libreria una copia originale della sua rarissima autobiografia, scritta con stile sobrio e senza indulgere in particolari macabri e raccapriccianti, la quale ci offre l’immagine non di un freddo assassino, ma di una persona mite, umile e onesta, profondamente religiosa e rispettosa della vita, cui un destino beffardo affidò un giorno il compito paradossale e crudele di divenire State electrician, nelle stanze della morte dei penitenziari americani. Accanto alla figura dell’uomo Elliott, emerge nelle sue memorie un realistico, inquietante spaccato dell’America fra la metà degli Anni ruggenti e il decennio della Lawless Decade, quando, nei tribunali di diversi Stati americani furono comminate numerose condanne a morte, alcune delle quali entrate nella storia, come quelle dei due anarchici italiani Sacco e Vanzetti, Ruth Snyder e Bruno Hauptmann.
Una rara immagine di Robert G. Elliott (tratta dalla sua autobiografia Agent of Death New York – E. P. Dutton & Co. Inc. 1940)
Ruth, dalla comoda sedia di un importante ufficio, alla sedia elettrica di Sing Sing
Ruth Snyder fula prima donna messa a morte da Elliott e anche la prima a morire sulla sedia elettrica del penitenziario di Sing Sing. La sua storia, a dispetto della tragica fine che ne scaturì, ha in sé qualcosa di straordinario, e la voglio raccontare. Nata nel 1895 nel quartiere di Manhattan, Ruth era figlia di due genitori di origine scandinava, Harry Sorenson e Josephine Anderson, immigrati negli Stati Uniti. Suo padre, pensando a un nome che gli facesse dimenticare per sempre la propria origine norvegese, una volta giunto nel Nuovo Mondo, decise di chiamarsi Harry Brown, indubbiamente non originale, ma molto americano. Inoltre, anche per far contenta sua moglie, rinunciò per sempre alla modesta attività di marinaio per intraprendere quella, altrettanto modesta e poco remunerativa, di falegname. Come la stragrande maggioranza degli immigrati in quel periodo, anche i Brown si trovarono costretti ad affrontare una dura esistenza fatta di rinunce e sacrifici, rispetto ai quali Ruth manifestò fin dall’infanzia di non volersi rassegnare. La giovane soffriva inoltre di seri malanni fisici, andando soggetta a crisi epilettiche e frequenti svenimenti, cui si aggiunsero gravi problemi intestinali, per i quali fu costretta, fin dall’età di sei anni, a sottoporsi a vari interventi chirurgici.
Sfidando la durissima realtà nella quale suo malgrado era costretta a vivere, ma continuando a sognare una vita agiata, la quindicenne Ruth trovò impiego presso una compagnia telefonica, frequentando nello stesso tempo, con grande impegno e sacrificio, scuole serali di stenografia e contabilità aziendale. La sua grande occasione, come una mano fortunata a un tavolo da gioco, un numero di telefono sbagliato al quale rispose, anche se a parolacce, l’uomo giusto, la portò a conoscere Albert Snyder, noto all’epoca per essere l’editore della rivista nautica Motor Boating, riservata a gente facoltosa e annoiata, che di denaro ne aveva persino da buttare, e le barche di lusso se le poteva permettere. Fattasi ormai, nonostante i numerosi problemi incontrati in passato, piuttosto carina e seducente nei confronti del sesso forte e illusasi di aver finalmente incontrato il suo principe azzurro, cercò in tutti i modi di mettersi in mostra agli occhi di lui, riuscendo infine a farsi assumere come segretaria e, cosa non da poco, a farsi corteggiare. Tralasciando particolari che non ci è dato sapere, come tutte le fiabe a lieto fine, nel 1915 il suo principe le chiese di sposarlo. Ruth, che non aspettava altro, accettò commossa e i due coronarono il loro sogno d’amore, finendo sulle prime pagine dei rotocalchi mondani, specializzati in corna e pettegolezzi. Sempre secondo copione, per un breve periodo vissero felici e contenti, ma durò poco. La signora Snyder s’avvide suo malgrado che il marito non era affatto quell’uomo che aveva sperato d’incontrare. Albert, facendosi pochi scrupoli, cominciò a sbatterle in faccia una certa Julie Guishard, con la quale era stato sentimentalmente legato per dieci anni e che, a dispetto delle giuste rimostranze della moglie, continuava a ricordare come “la donna più bella che avesse mai incontrato” e della quale pretendeva in bella mostra un ritratto, appeso a una parete della loro lussuosa villa. A coronamento di un matrimonio già fallito in partenza, all’età di ventidue anni Ruth rimase incinta di una bambina, nata nel 1918, che i genitori decisero di chiamare Lorraine, l’unica vera e innocente vittima di un dramma che sarebbe scoppiato di lì a poco. Ruth, col trascorrere del tempo, reagì con l’unica arma che una donna degli anni venti poteva permettersi: la seduzione. Letteralmente stregata dall’ondata di libertinaggio di queglianni, forse troppo fragile a dispetto delle apparenze, cominciando anche ad averne abbastanza di una vita matrimoniale frustrante e non avara di umiliazioni, prese a bere e a partecipare a fastose serate mondane trascorse all’insegna del divertimento sfrenato, lasciando marito e figlia a casa.
Ritratto di Ruth Snyder (https://www.headstuff.org/history/terrible-people-from-history/ruth-snyder-housewife-murderer/)
Sui ruggenti anni Venti
Donne, danza e anni Venti, in una parola Charleston. Si tratta di un ballo, quello del Charleston, che affonda le sue radici nel fenomeno del jazz, più precisamente nel rag time, e che nasce e si sviluppa in America. Dinamico, elegante, espressione della gioia di vivere, così affascinante che quando approda successivamente in Europa con il suo ritmo sincopato nessuno riesce a resistergli. Ad ispirare il nome di questo ballo è una città americana della Carolina del Sud, appunto l’omonima Charleston. In quegli anni di trasformazione culturale, di grande sperimentazione, di celebrazione della vita moderna, è una canzone di James P. Johnson che nel 1923 lancia la moda del charleston sotto il profilo musicale. Nel periodo di grande diffusione della musica jazz e di balli associati a questo genere, il Charleston rappresenta una novità particolarmente istintiva, libera da schemi prefissati, nuova e coinvolgente. D’altronde, gli anni Venti del Novecento sono famosi anche per la storia della moda femminile, per i caschetti intriganti, e per le gonne a plissé, per gli abitini e le lunghe collane di perle, per le acconciature femminili e le innovazioni nello stile.
Questa danza si caratterizza per dei movimenti particolari, frenetici, e anche piuttosto divertenti. Come non pensare alle ginocchia unite e alle gambe che si muovono puntando all’esterno al ritmo di musica? La grande fonte di ispirazione ritmica di questa nuova tendenza è in realtà un altro elemento omonimo, il charleston, uno strumento formato da due piatti di metallo, che andava a completare la “batteria” dell’epoca.
Il mitico Charleston, una ventata di luce e speranza dopo il periodo di privazioni della guerra, quei favolosi anni Venti si aprono come una nuova epoca di benessere e ottimismo. La società è pervasa da un nuovo senso di libertà e speranza che porterà a chiamare questo decennio gli “Anni ruggenti”. L’ideale di bellezza femminile cambia radicalmente: cade il mito della donna fatale e si afferma la garçonne, cosiddetta dalla foggia dei capelli, che, per la prima volta nella storia, vengono tagliati corti, alla maschietta.
Ora la donna, come un’eterna adolescente, deve avere seno e vita inesistenti e fianchi stretti. Lo stereotipo della bellezza femminile ha una silhouette tabulare e forme stilizzate, tendenti alla bidimensionalità e all’essenzialità: corpo asciutto, magro, con caratteri androgini, asessuato. La donna ora conduce una vita più dinamica e comincia a praticare sport, sia per il benessere fisico che per migliorare l’aspetto. Se fino a questo momento nei canoni di bellezza femminile erano banditi i muscoli, indice di mascolinità o di lavoro manuale, e le forme dovevano essere morbide e rotonde, adesso anche nelle donne si comincia ad apprezzare il fisico atletico. Le nuove icone di bellezza, senza curve, magre e mascoline, simboleggiano l’aspirazione all’uguaglianza e parità tra i sessi. Alla fine degli anni Venti si scopre il piacere di una pelle femminile abbronzata, non più espressione di appartenenza ad una classe sociale inferiore, ma segno di salute e benessere fisico: Coco Chanel istiga le donne ad abbandonare l’ombrellino che proteggeva la pelle dai raggi solari, ad eliminare i guanti e ad accorciare le gonne. A dettare i canoni della bellezza non sono più i pittori e gli scultori, ma le nascenti dive del cinema muto. L’icona degli anni Venti è sicuramente la leggendaria attrice Louise Brook: bellissima, di una bellezza ancora attuale, slanciata e longilinea, il prototipo perfetto della ragazza flapper, che si contraddistingue per l’indipendenza, l’anticonformismo, la capricciosa volubilità, e nell’aspetto fisico per una figura snella e quasi da ragazzo, sottolineata dal taglio corto dei capelli. La flapper è una donna scanzonata, trasgressiva, che ama le sigarette, il jazz, Coco Chanel e ha forme praticamente maschili, senza seno, senza fianchi, scattante, nervosa.
E chi non ha mai sentito parlare in Europa della regina della danza e del canto, Josephine Baker, icona di stile, rinominata Venere Nera? Sensuale e affascinante, icona di una bellezza esotica, riesce a farsi strada nel mondo musicale del tempo, e in quello dell’intrattenimento. E non solo, anche l’Inghilterra accoglie con grande entusiasmo questo genere musicale, tanto che il Charleston si balla in quel periodo un po’ ovunque, persino per strada.
Sicuramente alla base di questo fenomeno vi è anche la grande esigenza, avvertita dalle donne del tempo, di manifestare la propria libertà, il proprio desiderio di emancipazione sociale, accompagnata da una voglia generale di rinnovamento e apertura. Sono questi i famosi tempi moderni, e il ballo, come le varie forme di espressione artistica rappresenta un linguaggio che si fa portavoce dell’immaginario collettivo per manifestarlo in una forma liberatoria e nuova.
Follia omicida
Ruth, allora trentaduenne, bionda, alta, sguardo malizioso e un’apparente forte personalità, più o meno nel giugno 1925, frequentando il “Henry’s Swedish Restaurant” di New York, conobbe Henry Judd Gray, un buon diavolo trentatreenne, seppur descritto dai media come uomo insignificante, con delle lenti spesse un dito, anch’egli sposato ad una donna che detestava e padre di un figlio, di professione commesso viaggiatore nel settore busti, il quale, come del resto già accaduto a Snyder, fu catturato dagli occhi magnetici e dalla sensuale bellezza della donna.
Con buona probabilità, fu proprio dall’incontro con Gray che Ruth cominciò a pensare in termini concreti alla morte del marito, considerata inoltre l’esistenza di un’allettante polizza assicurativa che avrebbe previsto, in caso di decesso di uno dei due coniugi, una cifra da capogiro di 48.000 dollari. Nondimeno, assassinare Albert si dimostrò impresa tutt’altro che semplice, visto che, dopo quattro goffi tentativi andati a vuoto, l’ignaro consorte continuava ad apparire in ottima salute, senza peraltro nutrire alcun sospetto nei confronti della diabolica moglie. Nel febbraio 1927, decisa oltremodo a portare a compimento il suo piano criminoso, la donna riuscì a convincere l’amante idiota a prenderne parte. Una sera, di comune accordo, mentre i coniugi Snyder si trovavano a cena fuori, Gray si nascose furtivamente nella loro casa e, una volta rientrati, colpì Albert alla testa con un pesante oggetto contundente, senza peraltro riuscire a tramortirlo. Il pover uomo, ferito e sanguinante, chiese disperatamente aiuto alla moglie che, per tutta risposta, prese a colpirlo ripetutamente, fino a farlo stramazzare al suolo privo di sensi. Continuando a perseguire il suo folle disegno, decise infine di strangolarlo con una corda, non prima però di averlo cloroformizzato. Una volta accertato il decesso del marito, allo scopo di inscenare una rapina finita tragicamente, Ruth si fece colpire dall’amante. Quando la polizia giunse sul posto la donna raccontò che a combinare tutto quel disastro era stata una banda di rapinatori, ma qualcosa non convinse gli investigatori, poiché, più che un’aggressione a scopo di rapina, in quella casa sembrava essersi svolto uno spaventoso rito satanico. Il cadavere di Albert Snyder giaceva nella camera da letto legato come un salame, imbottito di cloroformio, con la testa fracassata e una corda intorno al collo. Per giunta, a rendere ancor più singolare quell’orrendo delitto, gli investigatori trovarono tre proiettili sul pavimento e un revolver sul letto. I gioielli che, stando alla testimonianza della donna, dovevano essere stati sottratti dai rapinatori, furono invece ritrovati sotto il materasso. Partendo dalla presenza di tali incongruenze, la polizia, svolgendo indagini accurate, arrivò ben presto sia a Judd Gray che alla famosa polizza d’assicurazione, la quale fu ritrovata in una cassetta di sicurezza, risultante intestata alla donna. Lo stesso Judd, dal canto suo, non aveva dimostrato di essere meno ingenuo di lei, visto che, dopo essersi allontanato dalla scena del delitto, fu notato da almeno un paio di testimoni, che in seguito furono in grado di identificarlo. Arrestato e trasferito alla stazione di polizia, gli inquirenti non ci misero molto a metterlo alle strette, facendogli confessare quel delitto orribile e stupido, perpetrato dalla sua amante. Una volta chiamati a confronto, conseguenza logica e pietosa fu che i due, pur ammettendo le personali responsabilità, cominciarono ad accusarsi a vicenda. Per i due amanti assassini, all’incriminazione per omicidio di primo grado, fece seguito un processo che, se da un punto di vista strettamente giudiziario si rivelò soltanto una mera formalità, non lo fu altrettanto per lo spettacolo che riuscì a offrire ai media e agli americani. Una donna venuta dal niente, alla quale non era bastato il denaro del marito, e un uomo che se n’era follemente innamorato, fino a farsi coinvolgere nel più bieco dei delitti, vennero gettati in pasto a un’opinione pubblica assetata di vendetta, che vedeva Ruth come la personalità seduttrice e diabolica della vedova nera, e Judd il classico idiota soggiogato dalla sua “regina”. Il 9 maggio 1927 la giuria, dopo appena un’ora e mezza di camera di consiglio, dichiarò entrambi colpevoli di omicidio di primo grado, che avrebbe significato morte per entrambi.
La giustizia diventa ingiustizia e la morte fa spettacolo
Il giorno prima dell’esecuzione Ruth trascorse il tempo leggendo tranquillamente la Bibbia, manifestando inoltre la sua volontà di convertirsi alla religione cattolica. Scrive Elliott:
Alcune settimane prima dell’esecuzione cominciarono a circolare un paio di storie collegate alla vicenda della Snyder, nelle quali a mia insaputa mi ritrovai coinvolto. La prima diceva che, mal accettando il pensiero di dover mettere a morte una donna, intendevo rinunciare all’incarico per motivi di salute. La seconda, non meno singolare, ipotizzava addirittura la mia intenzione di appellarmi al governatore Smith, affinché risparmiasse la vita della Snyder. Niente di più falso, ma, come spesso avviene, la conseguenza fu il vedermi recapitare una cospicua quantità di lettere da parte di gente, compresa una donna, che chiedeva di sostituirmi nell’incarico, oltre a numerosi altri messaggi contenenti le solite frasi, tipo: – La sedia elettrica è troppo poco, per quella donnaccia! – e così via. Non risposi mai a questi messaggi, né tantomeno alle storie d’intercessione che giravano sul mio conto. Non ho mai chiesto clemenza per le persone che fui chiamato a giustiziare, certo che anche se l’avessi fatto mi sarebbe stata negata.
I giorni che precedettero l’esecuzione si rivelarono piuttosto difficili, visto il polverone sollevato dalla stampa contro i due amanti assassini, la donna in modo particolare. Oltre ai messaggi di cui ho parlato, ricevetti numerose lettere minatorie, la maggior parte delle quali minacciavano vendette che, se avessi giustiziato la Snyder, avrebbero potuto ritorcersi sui miei cari. Confesso di non aver mai dato troppo peso a minacce e intimidazioni, cercando se possibile di non coinvolgervi le autorità, a meno che tali minacce non fossero rivolte direttamente ai miei figli.
Sing Sing, stanza della morte (Agent of Death New York – E. P. Dutton & Co. Inc. 1940)
Un uomo e una donna stavano per esser giustiziati lo stesso giorno e ciò faceva non poco clamore. Lawes, il direttore di Sing Sing, aveva ricevuto una marea di richieste da parte di persone desiderose di assistere alle esecuzioni, in maggioranza cronisti incaricati dalle principali testate giornalistiche; a causa delle ristrette dimensioni della stanza della morte, poté accontentarne soltanto venti. Il 12 gennaio 1928, data stabilita per le due esecuzioni, dopo aver trascorso il pomeriggio a New York, mi avviai in auto alla prigione di Sing Sing, portando con me un medico. All’esterno della prigione trovai la solita nutrita folla di curiosi, destinata certamente ad aumentare, considerata l’eccezionalità dell’avvenimento. Appena entrato, una guardia mi chiese se i capelli di Ruth, biondi e sottili, dovessero essere tagliati in modo particolare, affinché potesse essere applicato l’elettrodo, ma io risposi che ciò non sarebbe stato necessario. Una volta solo nella stanza, cominciai a preparare l’armamentario che avevo portato con me e che avrei utilizzato per primo con la Snyder, cominciando tuttavia ad avvertire un certo stato di disagio. Mentre ero in attesa dell’arrivo di funzionari e testimoni, venni come sopraffatto da un senso di repulsione, causato dal pensiero di dover spedire all’altro mondo la mamma di una bambina, col risultato che, più mi abbandonavo a tali riflessioni, più il disagio cresceva. Purtroppo non c’era altro da aggiungere a ciò che già sapevo. La legge aveva già stabilito che quella donna, colpevole di aver soppresso crudelmente il defunto marito, doveva a sua volta pagare con la vita.
Alle 11:01 esatte, Ruth Snyder, sorretta da due guardiane, fece il suo ingresso nella stanza della morte, preceduta dal prete cattolico John P. McCaffrey. Indossava un grembiule marrone su una gonna nera di tela che le arrivava fino al ginocchio. I suoi splendidi capelli biondi le erano stati appena pettinati e il mento era alto, ma lei tremava e balbettava, nel tentativo di ripetere le parole pronunciate dal prete. Alla vista della sedia stette quasi per collassare ma le guardiane, con molta delicatezza, l’aiutarono a sedersi. Ripresasi subito dopo, cominciò a singhiozzare, dicendo:
– Gesù, abbi pietà di me, perché ho peccato.
Mentre due guardie si occupavano di legarla e un’altra le collocava l’elettrodo sulla caviglia destra, io stesso, dopo averle sistemato delicatamente i capelli dietro al collo, le applicai in modo corretto spugna e calotta metallica sulla fronte. Impegnato in quell’operazione, la sentii sussurrare:
– Sono innocente – poi, con voce più chiara e distinta:
– Padre, perdona loro, perché non sanno cosa fanno.
– Collocandole per ultimo la maschera sul viso, udii un’ultima, toccante supplica:
– Gesù, abbi pietà – continuando a singhiozzare.
– Forse senza rendermene conto, le bisbigliai qualcosa:
– Tranquilla Ruth, ci vorrà un attimo. Perdonami anche tu. Addio.
Mi avviai dietro al pannello di controllo. Dopo aver dato la mia solita occhiata, girai con decisione l’interruttore, osservando il corpo della giovane donna inarcarsi contro le cinghie. Ricordo come fosse ora che, all’interno della stanza, ad eccezione del sinistro sibilo della corrente che stava attraversando il corpo di Ruth, non si sentiva un fiato. Seguendo con estrema attenzione l’esecuzione, ogni tanto gettavo uno sguardo ai testimoni presenti, alcuni dei quali, pur avvezzi a simili esperienze, sembravano letteralmente sbigottiti. Perfino il direttore, rimasto in disparte dietro la sedia, preferì restarsene a testa bassa, decidendosi ad alzarla solo al termine dell’esecuzione. Pensai alla madre di Ruth e alla piccola Lorraine, una creatura rimasta sola al mondo, vittima innocente dell’assurda bramosia di denaro, divenuta follia criminale. Coloro che restano sono in definitiva le uniche vere vittime di tali tragedie ed è a loro che ho sempre dedicato alcune mie brevi preghiere.
Dopo circa due minuti iniziai gradualmente a ridurre la corrente, fino a toglierla del tutto. Il medico della prigione, dopo aver esaminato il corpo, dichiarò la donna morta. Il cadavere, rimosso dalla sedia, venne avviato in sala autoptica per i normali accertamenti e subito dopo toccò a Judd Gray. Rimasi colpito dal passo fermo e deciso di quest’uomo, che, continuando a pregare in silenzio, si sedette senza alcun bisogno d’aiuto, assistito solo da un pastore protestante. Sembrava aver fretta di espiare le sue colpe, saldando una volta per tutte il suo debito con la società. Povero Judd! Credo sia stato uno degli uomini più coraggiosi che abbia mai incontrato in simili situazioni. Aveva abbandonato moglie e figlio soltanto per cieco amore di una donna, che lo aveva condotto a commettere uno stupido, infame delitto, facendogli imboccare per sempre la strada della perdizione e della morte.
Il giorno successivo rimasi a dir poco sbalordito vedendo, su un tabloid di New York, una foto di Ruth sulla sedia elettrica. Non ci misi molto a intuire che un fotografo molto scaltro, in barba al regolamento e all’etica professionale, era riuscito a entrare nella stanza munito di una minuscola macchina fotografica legata alla caviglia. Durante l’esecuzione, seduto probabilmente in prima fila e in posizione favorevole, era riuscito in qualche maniera a scattare quell’unica, preziosa fotografia, che ovviamente si era venduta a peso d’oro. Dopo tale increscioso episodio, le autorità delle prigioni decisero di stare più all’erta, nei confronti dei testimoni chiamati ad assistere a un’esecuzione.
Si chiamava Thomas Howardil giornalista che era riuscito a entrare nella stanza della morte con una rudimentale macchina fotografica costruita artigianalmente. Howard confessò più tardi di esser riuscito perfino a scattare due foto in sovraimpressione sulla stessa lastra, per dare l’idea del mosso durante l’esecuzione, con i risultati che ancora oggi è possibile osservare. Ne venne fuori un’unica foto, pubblicata il giorno successivo in prima pagina del New York Daily News, che fece enorme scalpore, e assicurò una tiratura di milioni di copie.
A dispetto del brutale delitto da lei concepito e portato a compimento, sarebbe lecito chiedersi: ai nostri tempi, a parità di condizioni, in un attuale tribunale americano, per Ruth sarebbe finita allo stesso modo, o la giustizia USA le avrebbe concesso una chance?
La piccola Lorraine
Da quel poco che sono riuscito a scovare, peraltro non così attendibile, perlomeno spero, la figlia di Ruth e Albert Snyder, non andò oltre la sua adolescenza, commettendo suicidio all’età di quindici anni.
BIBLIOGRAFIA
Giovanni Adducci, Io ti dichiaro morto! Edizioni Associate Roma 2005.
Giovanni Adducci, Mastro Titta vs Robert G. Elliott – Storia, cronache e pettegolezzi sui due più famosi “maestri di giustizia” di tutti i tempi Europa Edizioni 2018
Richard Clark, The Electric Chair, pubblicato online nel 2003.
Joseph De Maistre, Considerations on France, McGill-Queen’s University Press, Montreal 1974.
Robert G. Elliott, Agent of Death. The Memories of an Executioner,Dutton, New York 1940.
Richard Moran, Executioner’s Current,Alfred A. Knopf, New York 2002.
Roma, 10 aprile 2020 Giovanni Adducci