“Inutili” le esibizioni della Pattuglia Acrobatica della nostra aviazione militare? Dopo il recente, mortale incidente di Caselle Torinese, la domanda è stata riproposta, e non solo dalla sinistra radicale. Provando a dare una risposta, mi sono trovato alle prese con una constatazione preliminare: alla domanda “utile o inutile?”, rispondere è sovente arduissimo.

È arduissimo, e impone una decisione a monte: definire che cosa intendiamo per utile. È possibile una definizione “darwiniana”: utile è ciò che migliora la nostra valenza ecologica ovvero la nostra probabilità di durare e riprodurci. E però, sappiamo che la scelta non si pone sempre a questo livello. Nella maggior parte dei casi, siamo alle prese con benefici e opzioni di minor peso. In palio non è conservare la nostra vita, bensì semplicemente migliorarne la qualità.

Va aggiunto che una quantità di cose/comportamenti “inutili” possono avere un’utilità nascosta; e che un qualche elemento di arbitrarietà è quasi sempre presente. Elementi per costruire un esempio si possono già rintracciare nelle prime righe di questo scritto. Prendiamo l’aggettivo “arduissimo” e chiediamoci: è stata utile, ai fini della presente esposizione, la scelta di quell’arcaismo? Una risposta possibile: no, è stato un inutile sfoggio di erudizione. Risposta alternativa: sì, è servito a incuriosire il lettore inducendolo a chiedersi che cosa aspettarsi da uno che usa un lessico così obsoleto. Le stesse righe fanno affiorare un’altra domanda: è utile chiedersi che cosa è utile?”. La mia risposta è ovvia: sì, è utile (altrimenti non avrei scritto il pezzo che sto scrivendo…) in quanto la distinzione dell’utile dall’inutile giova a migliorare le mie scelte. Tra gli esempi possibili, ovviamente infiniti, un classico: è utile la Bellezza? La mia risposta è: sì, visto che migliora la vita (a chi disponga degli appropriati recettori).

Vengo a qualcosa di meno astratto, ed a un punto che è al centro del mio argomentare: il rapporto tra l’uomo e il gruppo. Sentirsi inserito in un gruppo è importante per il sapiens – così come per quasi ogni specie animale – e il fattore che determina questa pulsione ha un nome preciso: sicurezza. Il patto che lega i membri di un gruppo è primariamente un patto di reciproca difesa. Il gruppo ha avuto, storicamente, dimensioni diverse. Al tempo dei cacciatori-raccoglitori, la dimensione max doveva essere quella della tribù. Con la rivoluzione agricola e l’“invenzione” della città, si è avuto un salto che gradatamente ha portato a dimensioni milionarie e infine allo sbocco moderna, la nazione.

Aggregarsi, dunque, ma con chi? Un punto importante, forse il più importante. La scelta non è random, ovviamente, ma è bensì determinata da un principio che i latini riassumevano nel detto “similes cum similibus congregantur”: scegliamo di aggregarci con gente che ci è affine, che apprezza e condivide le nostre regole e i nostri costumi, e non si propone di cambiarli. Il detto latino ha solo due millenni, ma riflette una pratica comportamentale che non è azzardato collocare nella notte dei tempi. Oggi qualcuno lo ingloba nella categoria “razzismo”.

Un esempio perfetto ce l’offre il problema dell’immigrazione dall’altra sponda del Mediterraneo. È ormai il problema numero uno, e non solo in Italia, ed è quello che sta mettendo a rischio la sopravvivenza stessa dell’Unione Europea. Inconfessatamente o meno, in Europa gli immigrati non li vuole nessuno, a parte gli imprenditori che li vedono come “risorsa” (mano d’opera a basso costo). Ebbene, qualche autorevole commentatore ha annotato che da quando è cominciata la guerra in Ucraina, l’Italia ha ospitato 170 mila esuli ucraini, i quali non hanno destato nessuna preoccupazione, ed ha deplorato questa differenza: come! Questi sì e quelli no! Un commento che non saprei qualificare se non come di straordinaria banalità. Più saggezza latina, ragazzi!

Storicamente, solo i gruppi nei quali il legame era forte sono sopravvissuti. Degli altri, alcuni sono stati eliminati fisicamente, alcuni schiavizzati, alcuni semplicemente colonizzati anche in senso culturale. Ma quali sono i fattori che creano il legame forte? Ne individuerei due: mito d’origine e religione, due fattori che in qualche caso si sovrappongono e si identificano. Sulla forza del legame religioso non è il caso di soffermarsi: coinvolge l’infinito e l’eternità, ovvero dimensioni non computabili, e non confrontabili con nulla di cui abbiamo nozione razionale. Quanto al mito, la storia dimostra che la credenza in miti comuni, la metafisica che le si associa possono creare identità nazionali. Ce ne forniscono esempi copiosi sia il “Secolo delle Rivoluzioni, sia il successivo. Cito qui Noah Yuval Harari, che nel suo ormai classico “Da uomini a dei” si spinge oltre: “La vera differenza tra noi e gli scimpanzè è il collante dei miti, che lega insieme grandi numeri di individui, di famiglie, e di gruppi. Questo collante ci ha resi i padroni della creazione”.

Il linguaggio col quale il mito (così come tutto ciò che attiene al Sacro) ci viene trasmesso si vale di simboli, che rafforzano il legame. Simboli che possono constare di parole, azioni, atteggiamenti. Che so io, alzarsi in piedi quando suona l’inno nazionale. Utile? Sì, è utile, anche se magari capita mentre si è a tavola e la minestra si sta raffreddando. Un omaggio al mito d’origine.  Esporre la bandiera nei giorni di festa nazionale? Utile, utile: in Italia si fa solo quando la nazionale batte la Germania o vince il mondiale (e, infatti, il gruppo è debole). Vivevo a Parigi, molti anni fa, e un dettaglio di costume mi è rimasto nella memoria: quando era il momento di alzarsi in piedi, tutti si alzavano, e quando era tempo di cantare tutti cantavano (la differenza vale qualche riflessione). C’è un insieme di pulsioni che, in Italia, una volta erano chiamate patriottismo, termine obsoleto: ormai l’ha abbandonato anche la Meloni (patriota io? Faccio solo la guerra ai mercanti di uomini, è d’accordo anche Sua Santità). Obsoleto e “bannato”; eppure, ho cercato di dimostrare che non è inutile.

Col che, sono tornato al mio incipit, e alla pattuglia acrobatica, che in realtà si chiama “Frecce Tricolori”. Tricolori, appunto. Promuove la nostra bandiera, e la associa a connotati positivi, quali alta professionalità e coraggio (sì, anche coraggio: un esercizio che prevede la necessità di farsi “sparare” fuori da un jet in volo non è esattamente di tutto riposo). E allora concludo: se qualcuno dei ragazzini che guardano a bocca aperta le Frecce Tricolori fa nella sua testa questo tipo di associazioni, beh, lo spirito di aggregazione può solo guadagnarne. Gli euro che ci abbiamo investito non sono sprecati.