I dialoghi di Platone sono vere opere letterarie. Realismo e finzione: Descrizioni vivide e ricche di dettaglio trasferiscono il lettore in una situazione quotidiana. La capacità di Platone di rappresentare in modo realistico luoghi, persone e situazioni è sempre stata oggetto di lodi. Ciò vale per tutti i personaggi dei dialoghi platonici, ma soprattutto per il suo primo filosofo, Socrate. Egli presenta tratti comportamentali che consentono di riconoscerlo come il filosofo ideale vagheggiato da Platone come figura letteraria. Nonostante il suo asserito non-sapere egli è sempre il protagonista superiore del discorso. La conoscenza si deve acquisire da lui soltanto attraverso il confronto verbale: il dialogo. Il Socrate platonico ha sicuramente un nucleo storico.
Forme del dialogo: Nella struttura dei discorsi si vede la maestria di Platone. Ciò aumenta la vivacità della rappresentazione. Platone fa riferire direttamente ai personaggi le conversazioni, gli stati d’animo e i comportamenti e quest’arte narrativa della rappresentazione crea la distanza fra l’autore e il lettore, offrendo al pubblico indicazioni per la comprensione del discorso narrato. Va anche osservato come importante caratteristica dell’arte dialogica platonica il fatto che a volte si rifletta su quelle stesse regole poetologiche che l’autore segue nella sua rappresentazione letteraria. I dialoghi di Platone rappresentano da questo punto di vista una congiunzione fra letteratura classica ed ellenistica.
Dialogo come letteratura: Come “poeta dotto” Platone è in grado di rimandare i suoi lettori a questi modelli e di mostrare come egli ne sa far uso per rafforzare il suo messaggio filosofico.
Il mito: Uno strumento di rappresentazione del dialogo platonico particolarmente impressionante è costituito dai miti. Egli si serve di credenze desunte dall’orfismo, dal pitagorismo o dai misteri eleusini per trattare ad esempio l’immortalità dell’anima. Fin dall’antichità si discute sul rapporto di tali narrazioni mitiche rispetto all’argomentazione filosofica. Platone vede nei miti la possibilità di integrare per mezzo di descrizioni grandiose l’approssimazione di tipo argomentativo alla verità senza che con ciò fosse dilatato e possibilmente falsato il discorso filosofico. La differenza dei miti rispetto al logos filosofico non consiste nel loro messaggio filosofico, ma nell’assenza di una garanzia fondata su argomenti razionali. Il mito platonico è dunque una particolare forma di rappresentazione della verità che nel discorso filosofico può essere assicurata in modo argomentativo.
Per Platone la filosofia deve essere a servizio degli dei: prendiamo l’Eutifrone. Socrate ha un rapporto con gli dei che si configura in vari modi: è inviato da dio ed è capace di scegliere i giusti interlocutori; è ispirato divinamente; considera Dio la norma incontrollabile da contrapporre al relativismo dei sofisti. Il dialogo Eutifrone si collega all’Apologia, al Critone e al Fedone. L’Eutifrone è un dialogo aporetico dedicato al tema della pietà; il protagonista è un religioso che spicca per ottusità e dogmatismo, espressione della mediocrità con cui Socrate sta per confrontarsi in tribunale. I due si incontrano in piazza, davanti al palazzo dell’arconte al quale entrambi chiedono udienza poiché stanno per agire in giudizio o, nel caso di Socrate, per subirlo. Eutifrone muove, infatti, causa a suo padre che ha lasciato morire in cella un omicida mentre mandava a chiedere agli interpreti della legge cosa dovesse farne. Le circostanze fortuite della morte dell’uomo, che escludono la volontarietà dall’azione paterna, evidenziano il dogmatismo del sacerdote che pretende di conoscere cosa sia pio e cosa empio senza riuscire però a definirli. Eutifrone sostiene, infatti, che santo è ciò che lui stesso sta facendo, cioè trascinare in giudizio un omicida benché sia suo padre. Socrate lo spinge allora a dichiarare se santo sia ciò che è amato, con una discussione che sia snoda per più ipotesi concludendosi senza risultati
Platone (per esempio nel Fedone) insiste dicendo che la filosofia è preparazione per la morte. In Platone e in tutta la filosofia antica vi è un profondissimo afflato mistico e religioso, che si può vedere dai pochi cenni che abbiamo indicato.
I filosofi antichi non contrappongono affatto il mito religioso al logos filosofico, ma usano il discorso religioso per corroborare il discorso filosofico. I filosofi greci credono nelle divinità e si servono degli insegnamenti sapienziali per far scaturire il discorso filosofico, il quale su questi si fonda saldamente.
La religione è sempre presente negli uomini, non solo i filosofi, infatti tutti ci chiediamo, chi prima e chi dopo, chi più e chi meno, da dove veniamo, dove andiamo e chi siamo: dato che non sappiamo né il prima né il dopo della nostra esistenza terrena, tutti ci chiediamo se è vero quel Dio di cui tutti parlano.
Dio è quanto di più vicino possa esserci all’uomo. In lui ci muoviamo e in lui esistiamo. Paolo di Tarso aveva queste parole, che riportiamo nell’originale greco (Atti 17, 27-28):
ou makran apo enos ekastou ēmōn uparchonta. En autōi gar zōmen kai kinoumetha kai esmen
“ … non sia lontano da ciascuno di noi. In lui infatti viviamo, ci muoviamo ed esistiamo …”.
Non per nulla Sant’Agostino diceva che Dio abita nell’uomo interiore. L’uomo può trovare molte cose ma se non trova Dio rimarrà sempre infelice. È il mistero che rende la vita degna di essere vissuta in quanto è in Dio che viviamo, e Egli non si fa conoscere direttamente, se non a pochi prescelti. Ma a tutti dona la grazia di trovarlo se cercato con cuore sincero. Infatti, in 1Pietro 5, 5 è scritto in greco :
theos uperēfanois antitassetai, tapeinois de didōsin charin
“Dio resiste ai superbi, ma dà grazia agli umili”
L’autore di questa lettera del Nuovo Testamento cita, nella traduzione greca dei Settanta, un libricino dell’Antico Testamento, Proverbi 3, 34, che in ebraico recita:
‘im laleṣim hu yaliṣ, wela’anawim yitten ḥen
“dei beffardi si fa beffe e agli umili concede la sua benevolenza” (CEI)
Spesso i filosofi moderni e contemporanei levano con superbia lo sguardo a Dio, contrastandolo con i loro ragionamenti, per questo Dio non si palesa loro.
I filosofi atei paiono dimenticare che la filosofia greca era quasi completamente religiosa e misterica. Non si possono comprendere i presocratici e Platone senza ricorrere all’orfismo, un movimento religioso misterico, sorto in Grecia, presumibilmente verso il VI secolo a.C.. ma anche la letteratura greca è profondamente intrisa di mistero: Eschilo venne accusato di rivelare nelle sue tragedie i segreti dei Misteri eleusini, la massima sapienza greca dell’antichità, ma velata dal segreto più assoluto.
Di più, tutto nell’antica Grecia era religioso. Non esiste in greco antico un termine specifico per dire “religione” in quanto non esisteva uno spazio profano delimitato da quello sacro. Il Museo di Alessandria, da cui dipendeva la celebre Biblioteca, era retto da un iereus, un “sacerdote”. Per questo Crisippo di Soli (fr. 544 von Arnim) poteva dire che “solo il saggio può essere sacerdote in senso pieno”, monon kai panta ton sofon einai ierea.
L’accusa contro Socrate non era tanto quella di non credere negli dei bensì di non far eseguire le pie pratiche religiose. Infatti “Socrate è colpevole di non credere negli dei dello stato e di introdurre altri nuovi dei; e anche di corrompere i giovani”, adikei Sōkratēs ous men ē polis nomizei theous ou nomizōn, etera de kaina daimonia eisferōn; adikei de kai tous neous diaftheirōn (Senofonte, Memorabili 1.1.1). Ma questa traduzione è fuorviante: al tempo di Socrate e di Senofonte il verbo greco nomizein, riferito alle divinità, non significa “credere” (significato che assumerà dall’età ellenistica) bensì “tributare il giusto culto”. Infatti, nomizein significa di per sé “praticare, usare, avere in uso”, in quanto deriva da nomos, “uso, usanza, tradizione, costume”. Allora il “credere” a queste “tradizioni” è scontato ma la cosa importante è che siano “praticate”. Infatti Erodoto (Storie 2.42.4) ha l’espressione “praticare una lingua”, cioè “parlare una lingua”, nomizein fōnēn.
Soprattutto ai nostri tempi si addicono le parole che Paolo proferiva duemila anni fa (Romani 1):
“19 Essi conoscono per istinto la verità che riguarda Dio, perché è stato Dio stesso a mettere questa conoscenza nel loro cuore. 20 Infatti, fin dai tempi dei tempi, gli uomini hanno visto la terra, il cielo e tutto ciò che Dio ha creato, scoprendo così lʼesistenza di Dio e la sua infinita, eterna potenza. Perciò non avranno scuse (quando si presenteranno davanti a Dio il giorno del giudizio).
21 Perché, pur conoscendo Dio, non lʼhanno accettato, non lʼhanno adorato, e tanto meno lʼhanno ringraziato per tutto ciò che egli fa per loro di giorno in giorno. Si sono abbandonati, invece, a sciocchi ragionamenti e si sono confusi sempre di più. 22 Pensando di essere intelligenti, hanno dimostrato invece di essere dei pazzi. 23 Allora, invece di adorare il Dio glorioso ed eterno, si sono fatti degli idoli di legno o di pietra, dalla forma di uccelli, animali, serpenti, o di semplici mortali.
24 Perciò, Dio li ha abbandonati ai loro desideri perversi. Che facessero pure quelle cose vili e peccaminose che desideravano fare, contaminando così i loro corpi! 25 Loro, che anziché credere alla verità di Dio, hanno preferito credere alla menzogna, adorando e servendo le cose create, invece del loro creatore, il Signore che è benedetto in eterno.
26 Ecco perché Dio li ha abbandonati a se stessi, presi da passioni infami: donne che, cambiando lʼusanza naturale, hanno avuto rapporti con altre donne. 27 E così gli uomini che, anziché avere normali rapporti sessuali con le donne, eccitati dalla libidine gli uni verso gli altri, hanno fatto cose vergognose fra loro; e per questo hanno ricevuto in pieno ciò che meritavano. 28 E, siccome non si sono dati pena di mantenere la vera conoscenza di Dio, il Signore li ha lasciati in balìa della loro mente corrotta. Che facciano pure tutte quelle cose immorali!
29 Eccoli: sono pieni dʼogni specie di peccato e di perversione, di cupidigia e di malignità. Da tutti i pori sprizzano invidia, omicidio, violenza, frode, malignità. 30 Sono traditori, maldicenti, nemici di Dio, arroganti, superbi, vanagloriosi, pensano sempre a nuovi modi di peccare, e sono ribelli ai genitori. 31 Sono insensati, sleali, incapaci di amare e di provare pietà. 32 E nonostante sappiano che Dio condanna a morte quelli che fanno queste cose, non soltanto le fanno, ma approvano anche quelli che le commettono”.
Esistono molte filosofie e molte religioni ma tutte anelano alla verità. Il cristianesimo insegna che la Verità non è il disvelamento dell’essere, ma una Persona, Gesù Cristo: “Io sono Via, Verità e vita” (Giovanni 14, 6). Quindi chi cerca la verità, anche se non lo sa cerca Gesù Cristo.
Le religioni propongono diversi tipi di salvezza, ma il vero Salvatore del mondo è Gesù Cristo, così egli viene definito in Giovanni 4, 42.
Anche non credenti o appartenenti ad altre religioni possono salvarsi, a patto che seguano la legge naturale che Dio scrive nel cuore di ogni uomo, ma sempre per i meriti di Gesù Cristo, l’unico salvatore del mondo. Egli è l’Uomo Dio, che si è incarnato duemila anni fa e a 33 anni è morto in croce come sacrificio di espiazione per i nostri peccati. Il suo sacrificio appeso al patibolo della croce meritò all’umanità intera il perdono dei peccati e l’entrata in paradiso dopo la morte.
Gesù Cristo è nato dalla Vergine Maria, la sposa del giusto Giuseppe, la quale rimase intatta nella sua verginità prima, durante dopo il parto. Ancora oggi le chiese orientali raffigurano Maria con un manto con tre stelle, simboli di questo mistero.
Il cristianesimo insegna che la preghiera più importante è la Santa Messa in quanto nella Eucaristia vi è la presenza vera e reale del corpo, del sangue, dell’anima e della divinità di Nostro Signore Gesù Cristo. Per questo la Messa è la fonte e il culmine della vita cristiana.
La seconda preghiera più importante è il Santo Rosario alla Beata Vergine Maria. San Pio da Pietralcina lo definiva l’Arma contro gli assalti del demonio. Maria viene invocata come Vergine Potente contro il male. Ciò che fa costantemente questa Santa Madre per i suoi figli è esemplificato dalle suppliche del filosofo Fulberto di Chartres (960-1028):
“Santa Maria, soccorri i miseri,
aiuta gli sfiduciati,
rincuora i deboli.
Prega per il tuo popolo,
intervieni per il clero,
intercedi per le donne consacrate.
Quanti celebrano il tuo ricordo,
sperimentino, tutti, il tuo aiuto generoso.
Attenta alla voce di chi ti prega,
soddisfa il desiderio di ognuno”.
Maria è la Mediatrice di tutte le grazie che Dio riversa ogni giorno sull’umanità. È anche invocata come Aiuto dei Cristiani e Causa della nostra gioia. Gesù stesso sulla croce (Giovanni 19, 25-27) affida a Maria il discepolo che Egli amava, San Giovanni, e Maria a San Giovanni. In San Giovanni vi sono tutti i cristiani, che la hanno come Madre. Maria è Madre della Chiesa (Paolo VI).
Giovanni Paolo II (Remptoris Mater 27): “Maria appartiene indissolubilmente al mistero di Cristo, ed appartiene anche al mistero della Chiesa sin dall’inizio, sin dal giorno della sua nascita. Alla base di ciò che la Chiesa è sin dall’inizio, di ciò che deve continuamente diventare, di generazione in generazione, in mezzo a tutte le nazioni della terra, si trova colei «che ha creduto nell’adempimento delle parole del Signore» (Lc 1,45). Proprio questa fede di Maria, che segna l’inizio della nuova ed eterna Alleanza di Dio con l’umanità in Gesù Cristo, questa eroica sua fede «precede» la testimonianza apostolica della Chiesa, e permane nel cuore della Chiesa, nascosta come uno speciale retaggio della rivelazione di Dio. Tutti coloro che, di generazione in generazione, accettando la testimonianza apostolica della Chiesa partecipano a quella misteriosa eredità, in un certo senso, partecipano alla fede di Maria”.
Sant’Agostino diceva che la fede nasce nel cuore di coloro ai quali lo permette Maria. Sant’Alfonso Maria de Liguori rivelava che, nel momento della morte, i diavoli si accampano attorno all’agonizzante per cercare di strappare l’anima a Dio, ma si presenta anche la Vergine Maria per intercedere a suo favore: e coloro che le sono stati devoti in vita avranno grazie speciali in quell’ora suprema.
Maria Santissima in persona fece 15 promesse a chi recita con devozione il suo Santo Rosario. Il più importante codificatore del Rosario è stato il monaco domenicano Alano de la Roche, che morì nel 1475 ed è considerato l’apostolo della devozione per il Rosario in diverse nazioni europee. Nelle sue memorie, Alano narra di aver ricevuto direttamente dalla Vergine 15 promesse valide per tutti i devoti del Santo Rosario, tuttora di grande attualità e che manifestano l’intensità dell’amore che la Madonna nutre per tutti noi. Esse sono:
- “Chi recita con grande fede il Rosario riceverà grazie speciali.
- Prometto la mia protezione e le grazie più grandi a chi reciterà il Rosario.
- Il Rosario è un’arma potente contro l’inferno, distruggerà i vizi, libererà dal peccato e ci difenderà dalle eresie.
- Farà fiorire le virtù e le buone opere e otterrà alle anime le più abbondanti misericordie divine; sostituirà nei cuori l’amore di Dio all’amore del mondo, elevandoli al desiderio dei beni celesti ed eterni. Quante anime si santificheranno con questo mezzo!
- Colui che si affida a me con il Rosario non perirà.
- Colui che reciterà devotamente il mio Rosario, meditando i suoi misteri, non sarà oppresso dalla disgrazia. Peccatore, si convertirà; giusto, crescerà in grazia e diverrà degno della vita eterna.
- I veri devoti del mio Rosario non moriranno senza i Sacramenti della Chiesa.
- Coloro che recitano il mio Rosario troveranno durante la loro vita e alla loro morte la luce di Dio, la pienezza delle sue grazie e parteciperanno dei meriti dei beati.
- Libererò molto prontamente dal purgatorio le anime devote del mio Rosario.
- I veri figli del mio Rosario godranno di una grande gloria in cielo.
- Quello che chiederete con il mio Rosario, lo otterrete.
- Coloro che diffonderanno il mio Rosario saranno soccorsi da me in tutte le loro necessità.
- Io ho ottenuto da mio Figlio che tutti i membri della Confraternita del Rosario abbiano per fratelli durante la vita e nell’ora della morte i santi del cielo.
- Coloro che recitano fedelmente il mio Rosario sono tutti miei figli amatissimi, fratelli e sorelle di Gesù Cristo.
- La devozione al mio Rosario è un grande segno di predestinazione”.
Giovanni Paolo II (Rosarium Virginis Mariae 7): “Numerosi segni dimostrano quanto la Vergine Santa voglia anche oggi esercitare, proprio attraverso questa preghiera, la premura materna alla quale il Redentore moribondo affidò, nella persona del discepolo prediletto, tutti i figli della Chiesa: « Donna, ecco il tuo figlio! » (Gv 19, 26). Sono note le svariate circostanze, tra il diciannovesimo e il ventesimo secolo, nelle quali la Madre di Cristo ha fatto in qualche modo sentire la sua presenza e la sua voce per esortare il Popolo di Dio a questa forma di orazione contemplativa. Desidero in particolare ricordare, per l’incisiva influenza che conservano nella vita dei cristiani e per l’autorevole riconoscimento avuto dalla Chiesa, le apparizioni di Lourdes e di Fatima, i cui rispettivi santuari sono meta di numerosi pellegrini, in cerca di sollievo e di speranza”.
In Genesi 3, 15 vi è una profezia, che in ebraico suona:
we’ebah ‘ašit beneka uben ha’iššah
uben zar’aka
uben zar’ah
hu yešupeka roš
we’attah tešupennu ‘aqeb
“Io porrò inimicizia tra te e la donna,
tra la tua stirpe
e la sua stirpe:
questa ti schiaccerà la testa
e tu le insidierai il calcagno”.
L’autore della Genesi si sta riferendo al serpente tentatore, che i Padri della Chiesa hanno visto come il demonio. La donna è Eva.
Da questo Proto-Vangelo è nata l’immagine della Beata Vergine Maria con una serpe sotto i piedi. Ma, stando al testo ebraico, che abbiamo riportato, “questa (hu, pronome neutro) ti schiaccerà la testa” si riferisce alla stirpe (genere neutro) e non alla donna (genere femminile). L’equivoco è nato dalla traduzione di San Girolamo che rende: “ipsa conteret caput tuum”. Anche le antiche versioni greche sbagliarono nel rendere l’ebraico hu, che è tradotto come autos, maschile, “egli” (e non auto, neutro, come il pronome ebraico): quindi le traduzioni greche vedevano precisamente nel Messia colui che avrebbe schiacciato la testa del serpente.
Ma a prescindere da queste sviste, la Genesi parla chiaramente del seme di una donna, la sua discendenza, la quale schiaccerà la testa al demonio. Sono i Figli della Luce, di cui parla San Paolo (1Tessalonicesi 5, 5), cioè i 144.000 di cui parla Apocalisse 7. Nella Bibbia i numeri sono simbolici. Il numero 144.000 è formato da 12 per 12, che dà 144; poi 144 è moltiplicato per 1000. 12 è simbolo del popolo di Dio (le tribù di Israele e gli apostoli). Invece 1000 vuole alludere alla grandezza. Quindi in questi 144.000 ci sono gli eletti, i veri cristiani, il cui numero è sterminato, grandissimo.
Il verbo ebraico šup significa di per sé “stritolare”, ma in una seconda accezione (come forma parallela di ša’ap) significa “avventarsi”, “cercare di afferrare”.
Il verbo in questione da una parte indica l’azione di chi “insidia”, dall’altra quella del “vincere”: si tratta di una azione completa, chi insidia lo fa per vincere l’avversario. “Questa ti schiaccerà la testa e tu le insidierai il calcagno”: si usa nell’originale ebraico lo stesso verbo. Allora gli studiosi ipotizzano che tra i due “semi” vi sia una tensione costante nella storia, come se il testo di Genesi ancora non contemplasse la vittoria finale della stirpe della donna. Inoltre l’ “inimicizia” è in ebraico ‘ebah, indica uno scontro continuo, una lotta senza tregua, pertanto è da tradursi meglio con “guerra”.
Ma noi che siamo cristiani sappiamo che vincerà la stirpe della donna, cioè Gesù. Ce lo dice Giovanni 1, 5:
to fōs en tēi skotiai fainei, kai ē skotia ou katelaben
“la luce splende tra le tenebre, ma le tenebre non l’hanno vinta”.
Il verbo greco katalambanein significa sia “comprendere” sia “accogliere” sia “afferrare” sia “vincere”. Anche in questo caso si afferra per vincere l’avversario. Potrebbe essere tradotto in tutti questi modi. Forse l’originale aramaico è il verbo ‘aḥad, “afferrare”.
È interessate il gioco dei tempi verbali. La luce continua a splendere (presente: fainei) tra le tenebre fino ai nostri giorni, ma al tempo dell’evangelista le tenebre non la hanno compresa/accolta/afferrata/vinta (aoristo: ou katelaben). Nel greco biblico l’aoristo può avere valore di perfetto.
Qui compare per la prima volta in Giovanni la lotta tra Luce e Tenebre, che viene menzionata anche nel Testamento dei XII Patriarchi ma soprattutto negli scritti di Qumran. Probabilmente è anche una allusione a Genesi 3, 15.
Per ricevere beneficio dai meriti di Cristo occorre essere battezzati e poi concretamente avvicinarsi al mistero della sua Gloria. Dove sta Cristo, l’Uomo Dio che ha salvato il mondo? Egli sta nel tabernacolo della chiesa: è presente nella Santissima Eucaristia. È un mistero grandissimo come in un pezzettino di pane vi sia confinato il Creatore dell’universo.
Nel Salmo 26, 8 il tempio di Gerusalemme è detto in ebraico me’on. Si tratta di un termine oscuro, che la versione greca della Settanta aveva inteso no’am, “bellezza” (san Girolamo usò: decorem). Invece il termine ebraico me’on deriva dalla radice ‘wn, che nella Bibbia si trova solamente in Isaia 13, 22 con il senso di “vivere, dimorare”. Quindi me’on è il tempio come luogo nel quale Dio vive, dimora. Come dice Siracide 24, 10-12 riguardo la Sapienza, personificazione di Dio: “Ho officiato nella tenda santa davanti a lui, e così mi sono stabilita in Sion. Nella città amata mi ha fatto abitare; in Gerusalemme è il mio potere. Ho posto le radici in mezzo a un popolo glorioso, nella porzione del Signore, sua eredità”. Già nell’Antico Testamento Dio vive nel suo popolo.
Nel mondo del cristianesimo Dio abita la carne di un uomo, Gesù Cristo, vero Dio e vero Uomo. Nella Eucaristia è presente il corpo risorto di Cristo, e secondo i mistici sarebbe il suo Cuore misericordiosissimo. Mistero dei misteri!
L’Altissimo viene ad abitare tra di noi per amore! Santa Caterina da Siena osservava: Chi riflettendo su un amore così grande, quello di Dio per gli uomini, non amerebbe a sua volta Dio?
Giovanni Paolo II (Ecclesia de Eucharistia 1): “La Chiesa vive dell’Eucaristia. Questa verità non esprime soltanto un’esperienza quotidiana di fede, ma racchiude in sintesi il nucleo del mistero della Chiesa. Con gioia essa sperimenta in molteplici forme il continuo avverarsi della promessa: «Ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo» (Mt 28,20); ma nella sacra Eucaristia, per la conversione del pane e del vino nel corpo e nel sangue del Signore, essa gioisce di questa presenza con un’intensità unica. Da quando, con la Pentecoste, la Chiesa, Popolo della Nuova Alleanza, ha cominciato il suo cammino pellegrinante verso la patria celeste, il Divin Sacramento ha continuato a scandire le sue giornate, riempiendole di fiduciosa speranza.
Giustamente il Concilio Vaticano II ha proclamato che il Sacrificio eucaristico è «fonte e apice di tutta la vita cristiana» (Lumen Gentium 11). « Infatti, nella santissima Eucaristia è racchiuso tutto il bene spirituale della Chiesa, cioè lo stesso Cristo, nostra Pasqua e pane vivo che, mediante la sua carne vivificata dallo Spirito Santo e vivificante, dà vita agli uomini» (Presbyterorum Ordinis 5). Perciò lo sguardo della Chiesa è continuamente rivolto al suo Signore, presente nel Sacramento dell’Altare, nel quale essa scopre la piena manifestazione del suo immenso amore”.
Il grande teologo De Lubac rifletteva sul fatto che la Chiesa fa l’Eucaristia e l’Eucaristia fa la chiesa.
Sant’Agostino (Discorso 228/B, 3) diceva: “Prendete dunque e mangiate il corpo di Cristo, ora che anche voi siete diventati membra di Cristo nel corpo di Cristo; prendete e abbeveratevi col sangue di Cristo. Per non distaccarvi, mangiate quel che vi unisce; per non considerarvi da poco, bevete il vostro prezzo. Come questo, quando ne mangiate e bevete, si trasforma in voi, così anche voi vi trasformate nel corpo di Cristo, se vivete obbedienti e devoti. Egli infatti, già vicino alla sua passione, facendo la Pasqua con i suoi discepoli, preso il pane, lo benedisse dicendo: Questo è il mio corpo che sarà dato per voi. Allo stesso modo, dopo averlo benedetto, diede il calice, dicendo: Questo è il mio sangue della nuova alleanza, che sarà versato per molti in remissione dei peccati. Questo già voi lo leggevate o lo ascoltavate dal Vangelo, ma non sapevate che questa Eucarestia è il Figlio stesso; ma adesso, col cuore purificato in una coscienza senza macchia e col corpo lavato con acqua monda, avvicinatevi a lui e sarete illuminati, e i vostri volti non arrossiranno. Perché se voi ricevete degnamente questa cosa che appartiene a quella nuova alleanza mediante la quale sperate l’eterna eredità, osservando il comandamento nuovo di amarvi scambievolmente, avrete in voi la vita. Vi cibate infatti di quella carne di cui la Vita stessa dichiara: Il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo (Gv 6, 51), e ancora: Se uno non mangia la mia carne e non beve il mio sangue, non avrà la vita in se stesso (Gv 6, 53)”.
La salvezza si compie mediante il sacrificio di Cristo sulla croce: dal suo fianco squarciato dalla lancia di Longino scaturì “sangue e acqua” (Giovanni 19, 34). Si tratta dello Spirito Santo, che Gesù ha riversato sul mondo per la sua salvezza.
Un altro simbolo dello Spirito Santo è il fuoco. Gesù in Luca 12, 49-50 afferma:
“Sono venuto a portare il fuoco sulla terra; e come vorrei che fosse già acceso! C’è un battesimo che devo ricevere; e come sono angosciato, finché non sia compiuto!”.
Tutte le religioni parlano del fuoco come potente agente di trasformazione operata dalle divinità. Gli indoeuropei avevano due termini per il fuoco: uno animato (sanscrito agni, latino ignis) e l’altro inanimato (greco pur, puros).
Nell’India antica il dio del fuoco era Agni, al quale andava l’offerta sacrificale e il quale, come contraccambio, elargiva sull’umanità tutti i doni possibili. Il valore, capitale, del sacrificio indiano (vedico) è indicato da questo verso del Ṛg-Veda, il più antico dei Veda, i testi sacri dell’induismo, in sanscrito vedico nel metro virāṭtrisṭup (I.164.35):
iyaṃ vediḥ paro antaḥ pṛthivyā ayaṃ yajño bhuvanasya nābhiḥ
“L’altare è l’ultimo limite della terra;
questo sacrificio compiuto da noi è il centro del mondo”.
In ebraico il fuoco è detto ‘esh. Corrisponde all’aramaico di Gerusalemme ‘isha’, all’ugaritico isht, all’etiopico ‘esat, all’accadico ishatu, al siriaco ‘eshata’.
Axieros, il primo degli dei kabiri, parlò a Kasmillos e disse: “Io sono il vertice della Piramide di Fuoco. Io sono il Fuoco Solare che riversa i suoi raggi sul mondo inferiore, Datore di Vita, Produttore di Vita” (Misteri samotraci).
La piramide solida è il geroglifico del fuoco. È fatta di 4 triangoli, di cui tre sono visibili e uno è nascosto. Quest’ultimo è la sintesi dei primi tre. I triangoli visibili rappresentano il Fuoco (solare, vulcanico, astrale), mentre il quarto rappresenta il Calore Latente.
Il cristianesimo dà un nome al Fuoco e lo chiama Spirito Santo, la Terza Persona della Santissima Trinità.
La Trinità è un mistero che mente umana non può comprendere, nemmeno lontanamente. Si racconta che Sant’Agostino stava passeggiando sulla spiaggia mentre rifletteva affannosamente sulla Trinità per cercare di sviscerarla, allora gli apparve un angelo nelle sembianze di un bambino che scavava una buca sulla sabbia e gli disse: “Sarebbe più facile raccogliere tutto il mare in questa buca piuttosto che comprendere il mistero della Trinità”.
Tre Persone divine (Padre, Figlio e Spirito Santo) uguali e distinte ma un’unica sostanza divina. Ogni Persona opera assieme alle altre indissolubilmente. Il Padre è la forza della creazione, il Figlio (Gesù Cristo) è la sapienza, lo Spirito Santo è il rapporto di amore che lega Padre e Figlio.
Allora possiamo dire che il mistero della Trinità consiste nell’amore. È l’amore di Dio verso gli uomini che salva il mondo. “Dio è amore” (1Giovanni 4, 8). In 2Corinzi 13, 11 Paolo parla di “Dio dell’amore”.
In Deuteronomio 6, 4 si dice che bisogna rispondere alla salvezza divina così: “Amerai il Signore tuo Dio con tutto il cuore, con tutta l’anima e con tutte le forze”. Perché si usa il verbo “amare”? Si potrebbe rispondere alla salvezza donata da Dio con verbi quali “servire”, “obbedire”, “seguire”, ma il Deuteronomio parla di “amare”. Questo perché Dio è Padre di tutti e come un Padre vuole essere amato.