Iniziamo ad avvicinarci a Dioniso a partire dal momento in cui il dio giunge all’isola di Nasso
e incontra Arianna, la bella figlia del re cretese Minosse.
Minosse aveva affidato all’architetto Dedalo la costruzione del labirinto, dove era rinchiuso
il Minotaruro, il mostro con la testa taurina, al quale ogni anno, come tributo imposto ad
Atene, venivano dati in pasto 7 fanciulli e 7 fanciulle. Deciso a porre fine a questo spaventoso
obbligo, Teseo parte da Atene e giunge a Creta, pronto ad affrontare il mostro. Appena
vede l’eroe, Arianna subito se ne innamora, gli offre aiuto e gli dà un gomitolo di lana
riarrotolando il quale, compiuta l’impresa, l’eroe avrebbe ritrovato l’uscita dal labirinto.
L’impresa riesce, Teseo uccide il Minotauro e fugge via con Arianna, come sua promessa
sposa. Sbarcati a Nasso, però, mentre Arianna è profondamente addormentata, Teseo
abbandona la giovane e fa vela verso Atene. E quando lei, al mattino, vede la nave già
lontana sul mare, si dispera e piange un dolore senza fine (Ricordiamo che di questo triste
affanno Claudio Monteverdi ci offre una resa musicale assai struggente nella sua monodia
Arianna a Nasso).
Arianna tuttavia è salvata dall’arrivo di Dioniso. Ecco il dio mentre sbarca sull’isola di Nasso,
accompagnato da un corteo di pantere, tigri, menadi, satiri, sileni, una carnevalesca
processione dominata dalla gioia e dall’ebrezza del vino, di cui Dioniso è la divinità. Arianna
diviene così la sposa del dio e la corona d’oro che Dioniso le regala come dono di nozze
ancora splende nel cielo nelle notti luminose: è divenuta una costellazione.
Dunque, in questa bella favola, la giovane è salvata dal “dio straniero”, il dio che per i Greci
mantiene a lungo una presenza inquietante: l’ebrezza, la trasgressione, il delirio, tutte
condizioni che risultano in un certo modo estranee alla misura e all’equilibrio della cultura
greca, ma nel contempo hanno in sé qualcosa che attrae e affascina.
Dioniso è identificato a Roma con il vecchio dio italico Liber Pater. Altro suo nome è Zagreo,
il “cacciatore”, Bacco, termine che ha a che fare con “grida”, Lièo, “colui che scioglie
(gli affanni)”, Nyktelios, il “dio delle feste notturne”, Bromio, il “dio del chiasso delle processioni
bacchiche”, Euès, il “dio del grido di gioia evoè”. Dioniso è il dio della vite, del vino,
del delirio mistico. Dioniso offre quell’estasi e quella eccitazione selvaggia delle quali egli
stesso è la guida, e nel contempo una quiete e una tranquillità irreali sono anche i doni
che il dio concede ai suoi adoratori. Il culto di Dioniso è un argomento di cui non si può
dare una spiegazione completa. La sua leggenda è complessa, poiché abbraccia diversi
elementi anche non greci, e culti originari dell’Asia Minore.
Dioniso è figlio di Zeus e di Semele. L’amore di Zeus verso Semele suscita la gelosia di
Era (la legittima moglie dell’Olimpio), subito pronta a vendicarsi. La dea infatti istiga l’ingenua
Semele a chiedere al dio supremo di mostrarsi a lei in tutto il fulgore della sua potenza.
E così accade. Insiste Semele e Zeus le si mostra. Incapace di tollerare la vista dei
lampi che circondano il re dell’Olimpo, la mortale Semele rimane fulminata e muore.
Prima che lei muoia, però, Zeus si affretta a salvare il bambino che ella porta in seno da
sei mesi, lo prende, e lo cuce nella propria coscia. Quando viene il momento, Zeus fa uscire
il bambino perfettamente formato, e lo affida a Ermes, il quale lo consegna ad Atamante
e alla moglie di questi Ino (sorella di Semele), perché lo possano allevare. Ma Era, gelosa,
rende folli i due coniugi. Allora Zeus porta il piccolo Dioniso lontano dalla Grecia, in un
paese chiamato Nisa, che alcuni situano in Asia, altri in Etiopia, e lo lascia in custodia alle
ninfe che lo nascondono in una grotta e lo nutrono di miele. Tra gli educatori di Dioniso
compare anche Sileno, un satiro dotato di saggezza, di solito rappresentato come una figura
effeminata, un pancione con un petto quasi femminile, avvolto in una lunga veste;
spesso è raffigurato sopra un asino, sul quale si sostiene a stento, a causa della sua costante
ubriachezza. Cresciuto tra le cure delle sue nutrici, il dio bambino va nei boschi, incoronato
di lauro e di edera. Le ninfe nutrici di Dioniso diventeranno le stelle della costellazione
delle Iadi.
Divenuto adulto, Dioniso scopre la vite e il suo uso, ma ecco che ancora si manifesta la
collera della gelosa Era, che lo fa impazzire. In preda alla follia, Dioniso erra attraverso
l’Egitto e la Siria. Poi, risalendo le coste dell’Asia, giunge in Frigia, e qui viene accolto dalla
dea Cibele (la dea della potenza della vegetazione), che lo purifica. Liberato dalla pazzia,
il dio arriva in Tracia, dove riceve una cattiva accoglienza dal re dei Driopi, Licurgo, che
cerca, invano, di imprigionare il dio.Dalla Tracia Dioniso raggiunge l’India, paese che conquista
con la sua potenza mistica. Proprio allora si pone l’origine del corteo trionfale da cui
il dio si fa accompagnare: il carro trainato da pantere e ornato di pampini e di edera, i Sileni
e le Baccanti, i Satiri, e altre divinità minori, come Priapo, re di Lampsaco, sull’Ellesponto.
Ritornato in Grecia, Dioniso raggiunge la Beozia, terra d’origine della madre. A Tebe, in cui
regna Penteo, successore e nipote di Cadmo, il dio introduce i Baccanali, le feste durante
le quali l’intero popolo, ma soprattutto le donne, è invasato da un delirio mistico e percorre
la campagna lanciando grida rituali. Penteo si oppone all’introduzione di riti così sfrenati, e
ne viene punito. E il dio, prima di condannare il re al tremendo destino che lo attende a
causa del suo comportamento empio, si prende gioco di lui: lo alletta con la promessa di
condurlo a spiare segretamente le azioni delle donne invasate dal furor bacchico sul monte
Citerone, lo induce a vestirsi da donna per poter osservare, così travestito, i riti dionisiaci,
nascosto tra i rami di un albero. Ma la madre Agave, sorella di Semele, nel delirio del
rito, e nell’ombra notturna, scambia la figura del figlio per una fiera montana da sacrificare
a Dioniso. Lo uccide, lo smembra e torna in città con la testa di Penteo infissa in cima al
tirso, convinta che si tratti della testa di un leone. Così si compie l’umiliazione aberrante
dell’uomo che ha osato opporsi al dio. Da Tebe Dioniso decide di andare a Nasso, e chiede
allora ad alcuni pirati tirreni di condurlo fino all’isola. I pirati fingono di accettare, si dirigono
invece verso l’Asia, con l’intenzione di vendere il viaggiatore come schiavo e ricavarne
denaro. Quando se ne accorge, il dio trasforma i remi in serpenti, riempie la nave di
edera, e fa risuonare la musica di flauti invisibili, infine fa fermare la nave con ghirlande di
vite. I pirati, impazziti, si gettano in mare, e sono tramutati in delfini.
Dioniso giunge infine a Nasso, dove incontra la bella Arianna che rende sua sposa. Prima
di risalire in cielo, Dioniso vuole recarsi nell’Ade per cercare l’ombra di sua madre Semele,
e restituirle la vita. Il dio dell’Oltretomba acconsente alla richiesta di Dioniso, ma in cambio
il giovane dio deve dare qualcosa a cui tiene molto, e offre il mirto. Per questo motivo gli
iniziati ai misteri di Dioniso amano coronare la propria fronte di mirto.
Il filo conduttore della mistica storia di Dioniso si può ricollegare al diffondersi del culto della
vite in Europa, in Asia e in Africa settentrionale. La vite selvatica cresce sulle coste meridionali
del Mar Nero, e di lì la coltivazione si diffonde in Libia, attraverso la Palestina, e
così pure a Creta: giunge in India attraverso la Persia, e nell’Inghilterra dell’età del bronzo
attraverso la via dell’ambra. Il trionfo di Dioniso è dovuto all’affermarsi della superiorità del
vino su ogni altra bevanda inebriante.
Quale dio civilizzatore, Dioniso porta agli uomini la vite e insegna come trasformare i
grappoli nel vino che allieta. Diversi sono i miti di fondazione della viticoltura; assai nota è
la storia di Dioniso che ha donato il suo frutto a uno straniero, Icario, per ricompensarlo
della cortese ospitalità. Ma Icario paga poi a caro prezzo l’aver fatto assaggiare l’inebriante
bevanda ai pastori suoi vicini. Questi infatti si ubriacano e lo uccidono, all’insaputa
della figlia Erigone che, ignara di quanto è accaduto al padre, lo cerca ovunque, insieme
alla cagnetta Mera. Quando infine la giovane trova il cadavere del genitore, non regge al
dolore e si toglie la vita. Impietositi, gli dei la tramutano in costellazione insieme alla cagnetta,
che splende in cielo nella stagione più torrida dell’anno.
Dioniso è una divinità non solo della vite, ma in generale della natura e della vegetazione,
che germoglia spontanea: l’edera, che cresce senza fine, è una sua pianta sacra, gli alberi
e i boschi sono il suo ambiente. E’ il dio della follia estatica; nella danza dionisiaca i fedeli
sono travolti da una energia misteriosa e potente, dapprima soltanto donne, poi anche
uomini. E’ una danza che consente di dimenticare i mali, di superare i limiti imposti dalla
ragione, di confondersi con le forze oscure e primordiali della natura, di dimenticare la
propria identità, mentre ci si sente parte di un unico corpo collettivo. Festa chiassosa e disordinata
per effetto delle soverchie libagioni, si celebra d’ordinario ogni tre anni, per lo più
di notte, sempre all’aperto e preferibilmente sui monti. Il corteggio delle rumorose scorribande
del dio ha nome di “tiaso”, e Baccanti
o Menadi, e anche “Tiadi”, cioè “frementi”, si
chiamano le donne che celebrano i riti dionisiaci. Queste squassando fiaccole, agitando
tirsi, bastoni con in cima una pigna, suonando tamburelli e crotali e flauti e invocando Dioniso
con vari epiteti, tra cui il più ripetuto è euiòs, “festoso”, corrono qua e là in modo sfrenato
fino a cadere prive di sensi. La festa selvaggia, solennizzata dalle donne tebane sul
Citerone, dalle attiche e di Delfo sul Parnaso, dalle spartane sul Taigeto, si può forse intendere
come espressione della funesta influenza dell’inverno sulla vita della natura.
Nei misteri eleusini, Dioniso ha il nome di Iacco, e simboleggia l’anima umana. In Attica il
culto trova la sua esplicazione nelle “Dionisie”: le piccole Dionisie, le Lenee, le Antesterie,
le grandi Dionisie, le celebrazioni festive in onore di Dioniso. E a Dioniso è legata l’origine
della tragedia greca.
Il dono più grande di Dioniso è la particolare sensazione di totale libertà che prende i suoi
adepti. Vestite con pelli di cerbiatto e con in mano il tirso, il lungo bastone avvolto da tralci
di edera o di foglie di vite, potente emblema del dio stesso, e con sul capo corone d’alloro,
le Baccanti seguono la loro guida – di solito un sacerdote del dio – nei luoghi più selvaggi
delle montagne, perdute nella beatitudine della danza. La loro danza è accompagnata dal
battere pesante del timpano (un tondo di pelle tesa), dalla melodia del flauto, e dalle loro
grida. Tutto ciò porta ad accrescere il senso di esaltazione: alla notte, alla musica, alla
danza ritmata, alla luce delle torce che squarciano le tenebre notturne, si aggiunge sicuramente
il vino, il dono privilegiato del dio.
Difficile davvero capire in che modo e quando questo sfrenato culto orgiastico asiatico sia
potuto penetrare nelle roccaforti della mente greca, tutta tesa ad affermare il primato della
ragione, la forza dell’intelletto come parametro di verità in opposizione alle impressioni dei
sensi. Eppure dopo la scoperta del miceneo non abbiamo più dubbi sulla grecità di Dioniso.
In nessun luogo Dioniso è considerato un dio barbaro. Nemmeno quando i suoi furori
sembrano relegarlo definitivamente nella barbarie.
Dio senza fissa dimora, egli si manifesta nei luoghi più diversi: Argo, Lesbo, Olimpia, Taso,
Delfi, Tebe, sulle rive atlantiche e più in là ancora, appare e avviluppa al rosso del vino
spumeggiante il colore del sangue nel furore bacchico. Dioniso, il dio che fa delirare, che
afferra la sua preda trascinandola nella follia, nel delitto, nell’impuro, nell’osceno. Dioniso,
il dio dei vigneti, del vino, della bevanda che inebria e che esalta.
Nelle Baccanti, l’ultima e forse la più enigmatica delle tragedie di Euripide, il grande tragico
greco del V secolo a.C., il motivo dominante è la crisi della ragione a cui si contrappone il
mistero del divino. Penteo che lotta contro il fanatismo, ma si macchia di empietà opponendosi
al dio; Dioniso, il dio ambiguo, il dio gioioso che sa “tacitare gli affanni”, ma inflessibile
di fronte al forsennato dolore umano. Un potere divino che piega ai suoi arcani progetti
l’orgoglio degli uomini, e nel contempo la dignità della ragione che si smarrisce annientata
di fronte all’irrazionale. La tragedia proprio questo rappresenta: la storia dell’esperienza
terribile e assurda di una comunità che ha ceduto al richiamo degli istinti, viene travolta
dal proprio delirio, e scatena orrore e morte. Ma vi si legge anche il pietoso riflesso
della pochezza dell’uomo, e di chi, come Penteo, lotta in nome della ragione e si illude fino
in fondo di poter essere autore del proprio destino.
Le seguaci del dio celebrano festosamente l’arcano della natura e della potenza di Dioniso
nelle splendide parti liriche della tragedia, che si chiude con una nota di grande saggezza:
“Essere saggi, e venerare gli dei è il partito più bello; io penso che il sapersene servire sia
per i mortali, nati per morire, la prova di massima sapienza”.
Il mito di Dioniso e di Arianna attraversa il tempo, e, se vogliamo passare per un attimo
dalle luminose regioni del mito ai diversi e pur meravigliosi confini della nostra storia letteraria,
non possiamo non ricordare il “Trionfo di Bacco e Arianna”, tratto dai “Canti Carnascialeschi”
di Lorenzo il Magnifico, scritto intorno al 1490. Nel canto, Lorenzo indica ai cittadini
una via di evasione da ogni preoccupazione nella virtù esaltante di Bacco e di Amore,
nel contempo, il ritornello di doman non c’è certezza, esprime il simbolo dell’incerta
condizione dell’uomo. La poesia erompe in un grido di ebbrezza e di piacere, ed esplode
nel vortice dionisiaco, pur senza dimenticare la pochezza dell’uomo. La riflessione sulla
caducità della vita ci porta facilmente alla nota ode (I, 11) del carpe diem (“cogli l’attimo”)
oraziano, che non esprime un banale invito a godersi la vita, piuttosto è un monito ad affrontare
gli eventi, quali che siano, man mano che arrivano, cercando di cogliere il presente
nella sua rapida fuga.
Al tema della fuga del tempo è spesso legato il motivo del simposio e dell’invito a bere: il
momento del simposio diviene per Orazio (il grande poeta latino del I secolo a.C.) il simbolo
di questa attitudine a guardare al presente, a vivere intensamente quelle gioie della vita
che la situazione conviviale incarna: il vino, l’amicizia, l’amore. Il freddo dell’inverno si
combatte con il caldo del focolare e il vino generoso. Così il poeta dice in un’altra ode:
“sciogli il freddo ponendo con abbondanza legna sopra il fuoco, e versa senza risparmio
vino di quattro anni, o Taliarco, dall’anfora sabina”. (Odi, I, 9)
La dolcezza del vino fa dimenticare noie e affanni. Ed è con parola tersa e vibrante di
classica immediatezza che il nostro Carducci
ci riporta al grido che inneggia a Dioniso:
Evoé, Lieo: tu gli animi/ apri, e la speme accendi. /Evoé, Lieo: ne’ calici / fuma, gorgoglia e
splendi…(Juvenilia, Ode 18).
Quando da qualche parte si beve, a ogni libagione la giovinezza dionisiaca si rinnova, e
quanto più la cultura del vino si fa raffinata, tanto più intensa è la presenza di colui che
Baudelaire chiamava “il dio misterioso nascosto nelle fibre della vite”.
Gabriella De Blasio
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