Sacrificare un figlio significava nel mondo antico votarlo a una divinità. È da vedere, io credo, se ci sia mai stato un tempo in cui questo sacrificio comportasse la morte della vittima sacrificale. Ancora oggi, in diverse culture, chi si fa sacerdote abbandona la vita, nel senso che rinuncia alle lusinghe del mondo. Quello che, senza tanti giri di parole, io chiamerei il mito di Abramo, mi pare alludere a questo “sacrificio”. Isacco è fatto dal padre servo di Dio, perché non diventi schiavo dei nemici. Sotto certi aspetti potrebbe dirsi che fa di suo figlio un ebreo, visto che in preghiera, al tempio, il capo è coperto a simboleggiare che il popolo dei fedeli è schiavo del Dio di Israele. Questa “iniziazione”, in vario modo presente in tutte le antiche culture del Mediterraneo, rendeva il sacerdote inviolabile, per cui la rinuncia alla vita, garantiva la sopravvivenza anche di fronte al nemico. E veramente la schiavitù era peggiore della morte, specie per un capo, che fosse re o patriarca. Penso che possa senz’altro dirsi, venendo ad altra realtà, per tanti versi differente da quella di Abramo e Isacco, che, se Ettore avesse potuto prevedere il suo destino, avrebbe preferito uccidere lui la moglie e il figlio. Voglio dire che, “aprendo” il mito, è probabile che Abramo non conducesse il proprio figlio Isacco alla morte, per poi, per obbedienza a Dio “ripensarci”. Abramo conduce piuttosto Isacco di fronte al mistero della morte, a considerare che destino di tutti i viventi è quello di dover morire. Si ripete così in Isacco li il dramma di Adamo che – come ha ben dimostrato Kierkegaard nel Concetto dell’angoscia prima e nella Malattia mortale dopo – è posto di fronte al pensiero angoscioso della seconda morte, o morte interiore, che, nella cultura ebraico-cristiana diventa morte dell’anima, consapevolezza della precarietà della vita, che induce disperazione, follia, delirio, da cui scaturisce, quasi a guarire da questo male, una disperata volontà di sopravvivere a se stessi. Siamo alle radici della nostra cultura, una cultura che avverte anche popolarmente la sacralità della vita umana, sentimento che accomuna in Europa credenti e non credenti e comunque tutti gli uomini di pace, per tali intendendo quanti vedono nella guerra una calamità da scongiurare, non per pregiudizio, ma per senso civico. C’è la guerra? Affrettiamoci a ripristinare la pace. Che cosa sarebbe successo se, invece delle sanzioni, si fossero offerti alla Russia dei doni? Nel mondo antico l’ambasciatore non portava regali per dimostrare di venire in pace? Nella nostra cultura, voglio dire, quando non salvi una vita umana, ti senti in colpa perché pensi d’avere concorso alla fine di una vita. E soffri. Tra quanti si avventurano in mare per la disperazione e affrontano viaggi di giorni per tentare di giungere in Europa, qualcuno con la speranza di riabbracciare amici e parenti più fortunati, non si trovano vecchi ma giovani, persone in salute e in forze, in condizione di affrontare disagi e si portano dietro, come Enea, i loro figli che sono la speranza del domani. Gli italiani queste cose le sanno, lo dice il volto commosso e stravolto di chi per mestiere soccorre quanti nel nostro mare hanno bisogno d’aiuto ed è poi costretto a ripescare cadaverini. In questo dolore si rispecchia una cultura, la nostra cultura che nasce da radici lontane, che ci dovrebbe affratellare ai popoli dell’altra sponda del Mediterraneo. Io credo che un governo, che voglia per di più, far presente al mondo in che cosa consista l’italianità, dovrebbe tener conto del disagio morale che suscita in tutti noi una tragedia come quella di Cutrò, la cui popolazione è accorsa, riversandosi sulla riva del mare non per curiosità ma per senso di pietà. Alcuni hanno pianto, altri hanno pregato, altri si sono spesi in aiuto dei sopravvissuti. Aspettiamo che i ministri, ai quali è spettata un così tragica decisione, in accordo o meno con le leggi dello Stato a tutti noi poco importa, riferiscano in Parlamento, magari facendosi a questo punto portavoce dell’esigenza di cambiare le norme vigenti. Infatti è vero che il problema è europeo, ma poi diventa nostro quando questi infelici vengono a morire nelle nostre acque territoriali. Non si può continuare, io credo, a permettere queste cose aspettando che l’Europa modifichi le disposizioni in merito alla distribuzione di forestieri che, fuggendo da situazioni invivibili, cercano lavoro, chiedono asilo e hanno diritto al soccorso.
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