Giordano Bruno Guerri, Eretico o Santo – Ernesto Buonaiuti, il prete scomunicato che ispira papa Francesco, La nave di Teseo, “I Fari”, Milano, 2022, Euro 24,00.
“Quella sera del dicembre 1894 Ernesto torna a casa e annuncia la decisione di entrare in seminario alla madre, che piange di gioia. Luisa non può sapere che suo figlio sarebbe diventato un esempio macroscopico di quel che hanno dovuto affrontare, in ogni epoca, gli italiani decisi a difendere la propria indipendenza di pensiero dai guelfi, dai ghibellini, dalle idee ricevute, dai pensieri dominanti.” (p. 28).
Ho voluto iniziare questa mia recensione con queste parole tratte dalla monografia di Guerri, perché sintetizzano perfettamente il senso della vita di Ernesto Buonaiuti (1881-1946), un uomo che “una moderna Inquisizione – non soltanto religiosa –“ (p. 13) ha perseguitato, fin quasi a cancellarne la memoria dalla cultura italiana. Eppure Buonaiuti, sacerdote cattolico perseguitato prima dalla Chiesa, poi dal regime fascista, ed infine ostracizzato dalla nascente democrazia nell’immediato secondo dopoguerra, fu ai suoi tempi studioso di fama internazionale: titolare della cattedra di Storia del cristianesimo all’Università “La Sapienza” di Roma, fu docente stimato dai colleghi e amato dagli allievi. Proprio per la stima di cui godeva, temendo che egli potesse raccogliere attorno a sé un movimento che dal suo pensiero traesse ispirazione, la gerarchia vaticana operò reiterate pressioni per indurlo ad abbandonare l’insegnamento. Ad esse, Buonaiuti, incrollabilmente convinto di dover essere “pastore del pensiero più che di greggi afflitte” (p. 13), mai si piegò, attirandosi scomuniche e riprovazioni, che puntualmente accompagnavano ogni sua pubblicazione, fino all’odiosa scomunica vitando del 1926, “la sentenza più dura di cui [la Chiesa] disponesse, dopo la fine dei roghi” (p. 156), che vietava a tutti i credenti di avvicinarlo e di frequentarlo: se mai egli fosse entrato in una chiesa, doveva esserne immediatamente scacciato e si doveva immediatamente riconsacrare l’edificio. Eppure, nonostante ciò, “intorno a Buonaiuti non si fece il vuoto” (p. 157).
Dove non riuscì la Chiesa, riuscì il regime fascista. Nel 1931, quando Mussolini impose ai docenti universitari di giurare fedeltà al regime, soltanto dodici, su 1200 censiti dal ministro Balbino Giuliano, rifiutarono di piegarsi all’imposizione, e furono di conseguenza allontanati dall’insegnamento. Buonaiuti era uno di quei dodici, e, per una maligna ironia della sorte, fu anche l’unico a non essere reintegrato nell’insegnamento nell’agosto del 1944. “La nascente democrazia italiana infatti aveva accettato una mostruosità giuridica – imposta dal Vaticano – che persino il regime fascista aveva respinto: la retroattività dell’articolo 5 del concordato, secondo cui lo stato doveva avere il placet della Santa Sede per impiegare sacerdoti o ex sacerdoti negli uffici pubblici” (p. 15). Un anno dopo, nel dicembre 1945, toccherà a De Gasperi – ”altro venerato padre e salvatore della patria” (ib.) – minacciare addirittura di riaprire la crisi ministeriale pur di impedire a Buonaiuti di tornare ad insegnare. Persin Benedetto Croce, padre nobile dei liberali italiani, che nel 1934 aveva assistito a due sue conferenze tenute a Napoli, rimediò in quella circostanza una figura poco edificante: “Abbiamo penato tanto a metterci d’accordo con i democristiani che non potevamo fare una guerra di religione per Buonaiuti” (pp. 15 e 287).
Di questo personaggio “a Dio spiacente et a’ nimici sui”, Giordano Bruno Guerri – anch’egli storiografo e studioso “scomodo” – restituisce appassionatamente la fisionomia in questa monografia bella e documentata.
Nei diciotto capitoli della prima parte, la più estesa, significativamente intitolata L’eretico, Guerri ripercorre le vicende della vita di Buonaiuti, da lui spesso affettuosamente chiamato “don Ernesto”. Ne descrive le prime inquietudini e insofferenze, risalenti già agli anni della formazione seminariale, quando egli “sottolineò più volte l’arretratezza dei programmi di insegnamento, la mancanza assoluta di cultura storica, l’ignoranza dei nuovi metodi di ricerca e della filosofia moderna, condannata a priori” (p. 33), guadagnandosi “la sua prima espulsione”, per cui “venne ridotto al rango di esterno, semplice chierico e senza aiuti economici” (p. 36). Segue poi le vicende successive all’ordinazione sacerdotale, avvenuta nel 1903, quando don Ernesto, divenuto esponente di spicco del modernismo italiano e poi Docente di Storia del cristianesimo presso l’Università “La Sapienza” di Roma, cominciò ad essere fieramente osteggiato sia dai gesuiti, in particolare da padre Enrico Rosa, che non perse mai l’occasione di attaccarlo sulla Civiltà cattolica, sia dalla gerarchia vaticana e dal Sant’Uffizio, che sanzionava impietosamente ogni sua pubblicazione, fino al 1926, anno della scomunica vitando. Alla gerarchia vaticana dava sommamente fastidio il “programma” di Buonaiuti, che cercava di conciliare il ritorno alla spiritualità della Chiesa primitiva, caratterizzata da “un cristianesimo semplice, persuasivo, perché fatto di sentimento e di moralità” (p. 53) con le esigenze culturali della modernità, e soprattutto con le istanze di un’analisi filologica e storico-critica degli scritti del Nuovo Testamento. Sul suo pensiero religioso, Guerri scrive pagine illuminanti: “Don Ernesto fu essenzialmente un mistico, ma il suo era il misticismo di chi trova il divino nella partecipazione collettiva alla religione, un misticismo associato. La teologia, i dogmi, per lui non hanno valore se non riconducono a questo principio fondamentale. (…) Gesù, per lui, era l’iniziatore di un messaggio di speranza. Offriva la fiducia nella prossima venuta del regno di Dio in terra, inteso come il regno della felicità, della bontà e della giustizia (…) Per ritrovare quel tempo di entusiasmo e di fede, il cristianesimo deve rinunciare a dogmi, gerarchie, forzature del Vangelo, e tornare all’aspettativa di un’imminente vita felice sulla terra, che si realizzerà grazie al comportamento religioso degli uomini” (pp. 61-62). In altre parole, per Buonaiuti il cristianesimo delle origini era animato da uno spirito profetico che la Chiesa cattolica, col suo apparato dogmatico e dottrinale, ha progressivamente irrigidito e soffocato, perdendo il suo “ruolo di Maestra” fra gli uomini (pp. 60-61): per ritrovarlo, essa doveva liberarsi dell’apparato dogmatico per ritornare allo spirito dell’originario messaggio evangelico, recuperato attraverso l’analisi storico-critica dei testi del Nuovo Testamento. Solo se avesse percorso questa strada, essa sarebbe tornata a “plasmare le anime, nutrire gli ideali, alimentare le culture” (p. 61). Il “rinnovamento” auspicato da Buonaiuti si configurava, insomma, in termini di ritorno alle origini, per cui non di “modernismo” si doveva parlare, ma di “arcaismo” (p. 34).
Ciò che colpisce della ricostruzione di Guerri è che da essa emerge l’immagine di un uomo non solo profondamente legato alla Chiesa nonostante incomprensioni e scomuniche, ma anche e soprattutto fermamente convinto di dover combattere dall’interno la sua battaglia per il rinnovamento: per questo, egli non compì mai “gesti che potessero aver carattere di atteggiamenti scismatici” (p. 158). È un atteggiamento che, fra l’altro, gli alienò le simpatie di Alfred Loisy, caposcuola del modernismo francese, che “a torto” sospettava Buonaiuti “di ipocrisia e di opportunismo” (vd. pp. 56-57): da esso, però don Ernesto non derogò mai, nemmeno quando gli sarebbe convenuto. Guerri ricorda in particolare un episodio: nel febbraio del 1939, il cancelliere dell’università di Losanna gli offrì una cattedra fissa “e con un emolumento dei più allettanti” (p. 242). La proposta era però vincolata alla condizione di “convertirsi e vestire l’abito del pastore evangelico” (ib.). Buonaiuti rifiutò e, viste le condizioni economiche in cui versava – rimosso dall’insegnamento universitario, si manteneva a stento con i proventi dei suoi libri e delle sue conferenze -, il rifiuto torna a suo onore. Solo a partire dagli Anni ’40, egli divenne sempre più scettico circa la possibilità di una riconciliazione con la Chiesa, ma nemmeno allora assunse mai posizioni di aperto contrasto o di rottura.
Oltre ai rapporti con la Chiesa, Guerri analizza anche i rapporti – non meno tormentati – di Buonaiuti con la politica. Fieramente antifascista e profondamente convinto che la democrazia fosse “il sistema politico che si concilia meglio con il cristianesimo, mentre la concezione dello stato etico e totalitario è «nettamente pagana»” (p. 116), don Ernesto è altrettanto recisamente anticomunista, e non vede nemmeno di buon occhio la nascita del Partito Popolare, da lui definito “partito anfibio”, ”troppo confessionale per rappresentare una forza libera e «nel medesimo tempo, e proprio per la stessa ragione, troppo malsicuro e troppo elastico negli atteggiamenti pratici, per non offrirsi di volta in volta come correo e manutengolo di qualsiasi partito volesse tentare nel paese le avventure sempre pronte e sempre ispiratrici della reazione e del totalitarismo»” (p. 117). A suo parere, “la società migliore sarebbe quella ispirata dal Vangelo, senza la mediazione di partiti o di Chiese, tantomeno di un partito ispirato dal Vaticano” (ib.). È una visione evidentemente utopistica, che fa di lui un personaggio lontano e alieno dalla politica attiva, di cui spesso non coglieva le dinamiche, anche per un’ingenuità e un candore che Guerri non manca di mettere ripetutamente in rilievo.
Siccome poi di biografia e non di agiografia si tratta, Guerri non tace sulle debolezze del personaggio, che spesso lo portarono anche a compiere passi falsi, sia pure in perfetta buona fede. “La discrezione non era una sua virtù” (p. 102): soprattutto, non andava esente da una certa “vanità giornalistica” che lo indusse nel 1921 a compiere una “grave scorrettezza” nei confronti del cardinal Gasparri, Segretario di Stato di Pio X e sincero estimatore di don Ernesto, pubblicando sotto forma di intervista quello che in realtà era un colloquio privato intercorso fra i due. Buonaiuti e il cardinal Gasparri avevano l’abitudine di frequentarsi spesso “anche due volte alla settimana” (p. 123) per scambiarsi opinioni sulla situazione politica. Dopo quel fatto, “Gasparri non ebbe più rapporti con Buonaiuti” (p. 124), e obiettivamente ebbe ragione di troncarli. Non si tratta comunque di difetti tali da intaccare la dirittura morale del personaggio. Non sarei invece troppo severo nello stigmatizzare la sua collaborazione, dal novembre 1939 dicembre 1940, con la rivista settimanale Cronache di guerra, pubblicata dall’editore Tumminelli e finanziata dal Ministero della cultura popolare perché, “secondo l’editore, era particolarmente adatta ad esplicare opera di propaganda” (p. 264). È vero che questa collaborazione segna “una caduta di Buonaiuti dalla linea di rigore e coerenza che aveva seguito per tutta la vita, sia nei confronti della Chiesa, sia – e tanto più – verso il fascismo” (p. 263): non bisogna però dimenticare, e lo stesso Guerri lo ricorda (p. 266), che la Chiesa e il regime “l’avevano ridotto alla fame”, tanto che, quando la madre morrà nel 1941, “dovrà fare una colletta per pagare il funerale” (ib.) e di lì a poco, sarà costretto, “pur di tirare avanti” a un sacrificio che qualunque persona di cultura può ben valutare: quello di vendere la sua biblioteca.
Se la prima sezione della monografia si articola in diciotto capitoli, la seconda, intitolata Il profeta, ne comprende solo tre, l’ultimo dei quali, significativamente intitolato “Conclusioni, per ora” (il corsivo è mio), rivela l’attitudine di Guerri di considerare provvisoria ogni conclusione e di ritornare sul già scritto per aggiornarlo, dando il senso di una ricerca che continua oltre il limite cronologico della pubblicazione di un libro. È quanto Guerri ha fatto – e continua a fare – con un’altra sua importante monografia, Gli Italiani sotto la Chiesa, di cui questa che si sta esaminando si può considerare in qualche modo una continuazione. D’altronde, nell’introduzione (p. 17), Guerri avverte il lettore che questo libro è la riedizione aggiornata di un saggio uscito nel 2001 col titolo Eretico e profeta, che ovviamente non poteva contenere l’analisi, inserita qui, del pontificato di papa Francesco. Forse proprio l’operato del nuovo papa è stato la molla che ha indotto Guerri a curare questa nuova edizione. Certo, il suo è l’atteggiamento dello storico di razza, che non mette mai la parola “fine” alle sue ricerche.
Nella seconda sezione, Guerri, analizzando gli sviluppi successivi al Concilio Ecumenico Vaticano II, dimostra che Buonaiuti era personaggio in anticipo sui tempi. Molte sue istanze sono state accolte dal Concilio Vaticano II, e la Chiesa postconciliare sembra effettivamente muoversi nella direzione voluta da don Ernesto, nonostante l’opposizione di vari ambienti integralisti, che hanno accusato di “modernismo” persino papa Benedetto XVI, per la sua enciclica Spe salviSpe salvi. Venendo ai nostri giorni, Guerri rileva che proprio papa Francesco, il primo papa gesuita della storia della Chiesa, sembra ispirare molto del suo insegnamento al pensiero di Buonaiuti, tanto da attirarsi anch’egli, come il suo predecessore, l’accusa di “modernismo” e addirittura quella di “eresia”. Sembrerebbe insomma in atto una rivalutazione del “sacerdote ribelle”.
Ma rimane pur sempre un dubbio.
A ormai sessant’anni dal Concilio Vaticano II, nessun papa ha mai fatto solo il nome di Buonaiuti. Giovanni XXIII, il “papa buono”, il papa del Concilio, era stato suo compagno di seminario e suo amico: apprendiamo dalla monografia di Guerri che ricevette l’ordinazione diaconale nello stesso giorno in cui Buonaiuti fu ordinato sacerdote. Nonostante questo, e nonostante fosse “già influente in Curia almeno dal 1925”, non intervenne mai “per aiutarlo nei lunghi anni di disgrazia. Né fece alcunché per riabilitarlo, una volta arrivato al soglio pontificio. Eppure gli doveva molto.” (p. 37). Su di lui tacquero anche i successori di Giovanni XXIII, per cui anche le sue anticipazioni del Concilio Vaticano II restano ignote ai più, e soprattutto al popolo dei credenti. C’è forse un’eccezione: quella del cardinal Michele Pellegrino, arcivescovo di Torino (che però non divenne mai papa), il quale, durante un intervento nel Concilio, disse: “Pochi anni fa, ho conosciuto un religioso che viveva in un esilio non certo volontario, perché aveva espresso opinioni che oggi ritroviamo con gioia in documenti pontifici conciliari. E non è un caso unico. Tutti lo sanno.” Fu indubbiamente un intervento coraggioso, nello stile del cardinal Pellegrino. Eppure, nemmeno lui menzionò apertamente Buonaiuti: si limitò a lasciarlo intravedere. Nel contesto di quello stesso concilio che aveva accolto, nei suoi documenti, molte istanze di don Ernesto, il suo nome “bruciava” ancora, ed era ancora scomodo.
Nemmeno papa Francesco, e Guerri lo sottolinea, “ha mai preso posizione su Buonaiuti. E non sarebbero mancate le occasioni”, che Guerri puntualmente enumera (p. 325).
Insomma, nonostante il fatto che i tempi siano indubbiamente cambiati, e che la Chiesa di oggi non sia più quella arcigna e antimoderna della prima metà del Novecento, nonostante siano anche stati lanciati appelli perché Buonaiuti “diventi nuovamente un pensatore di riferimento per tutta la cultura italiana e, in particolare per il mondo cattolico non solo italiano” (ib.), nella Chiesa i tempi per riconsiderare serenamente la sua figura, la sua opera e il suo pensiero sembrano ancora lontani. E tanto per intenderci, non si tratta di “riabilitare Buonaiuti”, perché egli non ha fatto nulla di male per cui lo si debba “riabilitare”: è la Chiesa a dover riabilitare se stessa per aver in tutti i modi cercato di emarginare, screditare e ridurre al silenzio un uomo che avrà, sì, avuto idee anche discutibili, ma era comunque intellettualmente onesto e animato da un’indubbia sincerità di intenti, oltre che da un sincero amore per il sapere e per quella stessa Chiesa che lo perseguitava.
C’è da sperare che questa monografia di Guerri, rigorosa e documentata, riesca a far uscire il personaggio dall’oblio in cui è caduto, e a suscitare su di lui una discussione finalmente libera da veleni e faziosità. È quel che si augurava anche Giulio Andreotti, che nel 2003 ebbe a dire: “MI associo a quanti sperano che la posizione di don Ernesto, questa figura di grande patriota e uomo di cultura vera, sia presto rivalutata, sia pure ora per allora”. Anche se, come ricorda Guerri (p. 221), Andreotti, che negli anni 1944-1946 era già il più autorevole e fidato collaboratore di De Gasperi, “non cercò di aiutarlo… né lo incontrò mai”.