“L’imparzialità è un sogno, la probità un dovere”.
Fra le figure più rappresentative del movimento democratico italiano, Salvemini nacque a Molfetta nel 1863 e si interessò fin dalla adolescenza della vita politica entrando nel partito socialista ma contrastandone con decisione le derive sindacaliste ed estremiste. Nel 1896 vinse la cattedra di storia e filosofia al Liceo Torricelli di Faenza da cui poi fu trasferito a Lodi. Nel 1902 vinse la cattedra di storia alla Università di Messina. Qui, nello tsunami conseguente al terremoto del 1908 perse la moglie e i 5 figli. Avversario tenace di Giolitti e delle sue abili e spericolate manovre nel 1910 scrisse contro di lui il pamphlet “Il ministro della malavita” . Nell’anno successivo, con Antonio De Viti De Marco fondò il settimanale L’Unità che diresse fino al 1920. Collaborò a La Voce di Giuseppe Prezzolini. Allo scoppio della prima guerra mondiale fu fra gli interventisti democratici (con radicali, repubblicani e anarco-sindacalisti) nella speranza che il crollo degli imperi avrebbe consentito una evoluzione democratica dell’intera Europa. Nel 1917 fu chiamato alla Università di Firenze a succedere nella cattedra di storia moderna a Pasquale Villari di cui era stato allievo e che lo aveva iniziato allo studio della questione meridionale. Nel 1918 fu fra i più noti partecipanti al” Congresso dei popoli assoggettati “che vide delegati cechi, slovacchi, romeni, polacchi e italiani dibattere il progetto di autodeterminazione dei popoli e la erezione di nuove entità politiche sorrette dal principio di nazionalità. L’intenzione era quella di rinnovare il continente in una ottica pacifista nel solco della visione della Giovine Europa di Giuseppe Mazzini. Nel 1919 fu eletto deputato in rappresentanza del movimento degli ex combattenti e, dopo la Marcia su Roma, fu il principale animatore a Firenze di un cenacolo di oppositori. Dopo l’assassinio di Giacomo Matteotti aderì al PSU che era il partito del leader ucciso. Nel 1925 fu arrestato e processato per la pubblicazione del foglio clandestino NON MOLLARE che aveva fondato con i più giovani amici Ernesto Rossi, Tommaso Ramorino, Nello Traquandi, Carlo e Nello Rosselli. Ottenuta la libertà provvisoria espatriò dopo essersi dimesso dalla cattedra universitaria. Privato dalle autorità della cittadinanza italiana, intraprese una intensa attività di opposizione al regime con conferenze e articoli in Francia e Inghilterra e infine negli USA. Particolarmente significativa la sua collaborazione ai quaderni di G. L. del 1932 e 1933.
Nel quaderno 3 di G.L. del giugno 1932 è ripubblicato, per la sua attualità, un lungo saggio già apparso sulla Critica Sociale di Turati con lo pseudonimo di “rerum scriptor”. I redattori di G.L. sottolineano la chiarezza delle sue parole che giudicano “imperiture finché aspirazioni di libertà e democrazia avranno vita in Italia”. Secondo Salvemini. infatti, il colpo di stato del 1898 contro i partiti popolari aveva dimostrato come la reazione in Italia non fosse fenomeno transitorio ma insito nella organizzazione politica stessa dello stato. Nel quaderno 4 del settembre 1932 Salvemini analizza i conservatori italiani. Sottolinea come il maggior pericolo provenga dai fascisti per il metodo di lotta violento, ma evidenzia i limiti della destra liberale che (temendo una rivolta delle masse oppresse) gradirebbe il defenestramento del Duce e la sua sostituzione temporanea con qualche generale per passare infine a un ministero di civili molto conservatori che evitassero gli spinosi problemi del latifondo, delle fabbriche, della monarchia, delle spese militari e del Vaticano. Alla fine del fascicolo c’è una appendice sul problema agrario con il testo di una conferenza parigina di Salvemini che aveva suscitato dure critiche da una parte di socialisti e dal comunista Ruggiero Grieco (con articoli su Stato Operaio e Falce e Martello). Questi polemizzavano con la proposta di trasferire la proprietà della terra dai possidenti ai coltivatori indennizzando i proprietari.
Nel quaderno 7 del giugno 1933 con l’articolo “Pio XI e gli allogeni” critica il Papa che, per compiacere Mussolini, ostacola l’uso del tedesco in Alto-Adige e dello slavo in Istria. Osserva come Pio XI opera attivamente in Slovenia e Croazia, sostituendo con preti italiani i preti slavi che, per anzianità, concludono la loro missione. Queste posizioni a difesa dell’identità slava gli valsero il sarcastico anagramma di Slavemini da parte dei nazionalisti, mentre dopo la seconda guerra mondiale la geopolitica e la nemesi storica avrebbero consentito agli slavi di riappropriarsi delle proprie terre ma anche di espandersi su terre da secoli italofone.
Nel quaderno 8 dell’agosto 1933, in appendice, è pubblicato il saggio su “Capitale e Lavoro nell’Italia fascista”. Essendo i sindacalisti non eletti ma nominati dall’alto è evidente che i lavoratori non possono essere realmente difesi. Gli scioperi e la serrata sono vietati ma è chiaro che se gli operai non possono scioperare, i padroni non hanno alcuna necessità di procedere alla serrata.
Nel quaderno 9, sempre nell’appendice riservata alla economia, continua il saggio precedente con il sottotitolo “dal sindacalismo allo stato corporativo”. Osserva come i sindacalisti di nomina governativa non possono aver nulla in comune con quei sindacati che Sorel voleva essere strumenti delle lotte di classe per distruggere la società capitalista. Da Sorel il fascismo ha attinto solo la dottrina che predica l’azione diretta come mezzo di azione politica e la capacità di esaltare l’entusiasmo delle folle per mezzo di miti. Addentrandosi infine in particolari tecnici sul Ministero delle Corporazioni, Salvemini conclude … “Le Corporazioni sono semplici organi burocratici creati del governo, non legati da nessun vincolo di rappresentanza né con gli imprenditori né con i lavoratori, privi perciò di qualunque iniziativa e di qualunque responsabilità”.
Conclusa la collaborazione ai quaderni di G.L. Salvemini si trasferì negli USA e vi ottenne la cattedra di “Storia della civiltà italiana” creata per lui nel 1933 alla Università di Harvard. Durante la seconda guerra mondiale fu il principale ispiratore della “Mazzini Society” che fondò con Lionello Venturi e Giuseppe Antonio Borgese e che intendeva coordinare l’attività antifascista dei democratici che si riconoscevano esplicitamente nella visione mazziniana della sinistra risorgimentale. Rientrato in Italia al termine della guerra, Salvemini riottenne la cattedra alla Università di Firenze e continuò l’attività di pubblicista sui periodici Il Ponte, La Critica Sociale e Il Mondo, sempre attivo in difesa della democrazia dalle minacce totalitarie e dall’invadenza clericale. Nel 1955 l’Università di Oxford gli conferì la laurea “honoris causa”. Sono trascorsi circa 50 anni dalla sua morte, ma basta rileggere le sue pagine per accorgersi della attualità del suo pensiero e dell’impegno con cui si dedicò a quelle che restano ancora oggi le nostre battaglie e in particolare all’europeismo, in cui era evidente sia il richiamo alla Giovine Europa e alla Alleanza Universale di Mazzini sia al federalismo di Cattaneo.
Salvemini morì, come Socrate, circondato dagli amici più cari cui dedicò le ultime parole: …” Sono stato felice nella vita, tanti amici fedeli. Grazie, grazie di tutto… Come è difficile distinguere la morte dalla vita. Non c’è differenza fra la morte e la vita.”