In questo periodo sta tenendo banco, in Alto Adige, una diatriba sul nome da dare al Liceo Classico di Merano, che da Carducci è divenuto Gandhi. Di per sé la diatriba non m’interesserebbe, né punto, né poco, ma ho notato, solo in alcuni casi per fortuna, un’antipatica propensione alla politicizzazione della stessa. In parole povere, i cosiddetti “conservatori”, grosso modo, vorrebbero ripristinare l’intitolazione a Giosue Carducci, mentre i sostenitori delle cosiddette “magnifiche sorti e progressive” (è un verso del Leopardi per polemizzare, ad alto livello, con il cugino Terenzio Mamiani, per inciso una delle più scialbe figure del Risorgimento…) hanno in mente il Mahatma Gandhi. A me non piace guastare le feste a chicchessia, per carità, ma vorrei qui mettere in rilievo alcuni fatti che, in quest’epoca di “politicamente corretto” e “cancel culture” (due delle tante manifestazioni dell’umana idiozia…), forse faranno cambiare di campo a qualcheduno. Premetto che a me Carducci, in quanto poeta, piace moltissimo; possiedo l’edizione completa delle sue opere e leggo e rileggo spesso i suoi meravigliosi versi. Se nel 1906 hanno dato il Premio Nobel per la letteratura a lui e non a Peppino de Peppinis, qualche motivo ci sarà pure. Fatta questa doverosa premessa, ricordo che il Carducci fu un grandissimo esponente della Massoneria e la sua irreligiosità rasentò la blasfemia. Scrisse, infatti, l’“Inno a Satana” (“Gittò la tonaca Martin Lutero / gitta i tuoi vincoli, o uman pensiero….”, nonostante tutto questi versi mi piacciono). Dal punto di vista poetico, però, io ho l’impressione che Carducci non credesse, a differenza, per esempio, di Giovanni Pascoli e di Gabriele d’Annunzio, nei valori che esprimeva con la sua poesia. A me sembra, leggendo il Carducci, che nei suoi versi, pur bellissimi, ci sia sempre qualcosa di artefatto. Non parliamo, poi, dei discorsi e delle celebrazioni, che suonano davvero false. Se ne accorse anche il giovane scrittore Alfredo Oriani che, una volta, gli rinfacciò di non aver partecipato di persona a quell’impresa risorgimentale che aveva cantato in poesia ed esaltato nei suoi discorsi, (Carducci era nato nel 1835, Oriani nel 1852). Il Carducci, confuso, si impappinò rispondendo che doveva accudire la vecchia mamma, al che Oriani gli ribatté, seccamente, se riteneva che tutti i Mille fossero nati da lombi di prostitute… Insomma, dal punto di vista puramente umano si può tranquillamente considerare il Carducci quale prototipo del “vecchio trombone”. Di Gandhi, invece, si ricordano il pacifismo e la non violenza, quelli autentici però, io ricordo anche la sua frase: “Preferisco un violento ad un vigliacco”, anche questa non va dimenticata. Non va neppure dimenticato che Gandhi, nel dicembre del 1931, venne ricevuto da Mussolini a Villa Torlonia. Dopo l’incontro, Mussolini si espresse in termini ampiamente elogiativi su Gandhi, il quale su Mussolini ebbe modo di dare questo giudizio: “Mussolini è un enigma per me. Molte delle riforme che ha fatto mi attirano. Sembra aver fatto molto per i contadini. In verità, il guanto di ferro c’è. Ma poiché la forza è la base della società occidentale, le riforme di Mussolini sono degne di uno studio imparziale. La sua attenzione per i poveri, la sua opposizione alla superurbanizzazione, il suo sforzo per attuare una coordinazione tra il capitale e il lavoro, mi sembrano richiedere un’attenzione speciale. […] Il mio dubbio fondamentale riguarda il fatto che queste riforme sono attuate mediante la costrizione. Ma accade anche nelle istituzioni democratiche. Ciò che mi colpisce è che, dietro l’implacabilità di Mussolini, c’è il disegno di servire il proprio popolo. Anche dietro i suoi discorsi enfatici c’è un nocciolo di sincerità e di amore appassionato per il suo popolo. Mi sembra anche che la massa degli italiani ami il governo di ferro di Mussolini”. Aggiungerò che l’autobiografia del Mahatma uscì, in italiano, con la prefazione di Giovanni Gentile, il massimo esponente della cultura fascista. A mio avviso non c’è di che stupirsi: la politica antibritannica dell’Italia fascista prevedeva che venissero trattati con un occhio di riguardo tutti i combattenti contro il colonialismo di Albione (nel corso della guerra ci furono anche contatti concreti tra le potenze dell’Asse ed i combattenti irlandesi dell’IRA, che avrebbero ricevuto dalle prime cospicui finanziamenti): non c’è bisogno di aver letto tutto Machiavelli per capire che il nemico del mio nemico è, ipso facto, mio amico. E, addirittura, sulla terza pagina del quotidiano fascista più estremista, “Il Regime Fascista” di Cremona, proprietà di Farinacci, uscivano veri e propri peana alla cultura indiana, comprese, per esempio, autentiche apologia di Tagore e di altri personaggi indiani che con il fascismo nulla avevano a che fare. Tutto questo strano interesse del quotidiano farinacciano per l’India fu dovuto, assai probabilmente, per l’interessamento di un giovane filosofo, allora del tutto sconosciuto, Julius Evola. Il quale, non iscritto al PNF, era quasi in odore di antifascismo, poiché nelle polemiche culturali dell’epoca stava più dalla parte di Croce che non di Gentile (don Benedetto gli fece pubblicare alcuni libri dall’editore Laterza ed esiste un carteggio Evola – Croce, pubblicato in volume, sul quale tornerò) e che era innamorato della cultura estremo-orientale (proprio presso Laterza pubblicherà un saggio sull’ascesi buddista, “La Dottrina del Risveglio”). Tralascio ogni commento su quel gran guazzabuglio che è l’animo umano di manzoniana memoria…

Ho esposto alcuni fatti che tali rimangono, al di là delle interpretazioni che se ne possono dare, senza aver voluto avere la pretesa di intervenire direttamente in una diatriba a mio avviso piuttosto stucchevole.