Dal 5 marzo è in onda sulla piattaforma Netflix il rifacimento de “Il Gattopardo”, il celeberrimo capolavoro di Tomasi di Lampedusa. Da appassionata dell’autore, ritengo il romanzo in oggetto il mio libro dell’anima, lo porterei sulla luna o in un rifugio antiatomico (ebbe una storia tribolata, dopo i rifiuti di Mondadori, Einaudi, Longanesi anche per mano di Elio Vittorini e fu pubblicato postumo da Feltrinelli nel 1958, un anno dopo la morte dell’autore. Vinse il Premio Strega nel 1959 e divenne uno tra i più grandi romanzi della letteratura mondiale), mi sono precipitata a guardarlo. Premetto che mi sono seduta in poltrona preparata, inutile fare paralleli con il libro e con il capolavoro cinematografico di Luchino Visconti, non reggerebbero. Quindi armata di curiosità e pazienza, sono 6 puntate da 50 minuti contro le 3 ore e mezza del film, mi immergo nella storia, cercando di resistere dal giudicare gli attori, le modifiche che di certo vedrò e le eventuali “libertà” che la moderna produzione si è presa.
La prima inquadratura apre all’imbrunire su una assolata campagna siciliana e su una strada polverosa, che sta conducendo una carrozza a Palermo. Aspetto; inizio lento, paziento; già da qui la trama non rispetta il libro ma resisto. La storia si srotola lentamente ma poi parte e accade il fatto: mi innamoro della fotografia, delle luci, dei paesaggi, delle straordinarie ambientazioni che includono Palermo, Siracusa, Catania, Torino e dei costumi: e degli attori direte voi? Calma, devo vederli recitare tutti e poi saprò giudicare.
Guardo le puntate in tre giorni e ora posso esprimere la mia opinione: in alcune cose grandioso, in altre sa di occasione mancata, anzi di assassinio dettato dalle regole delle serie tv, come spesso avviene nelle produzioni internazionali degli ultimi anni (il “Conte di Montecristo” docet). I dialoghi non sono male e spesso riprendono i passaggi importanti del libro, come la famosa frase di Tancredi detta allo zio: “se vogliamo che tutto resti com’è bisogna che tutto cambi”; la regia è a 6 mani, diretta dall’inglese Tom Shankland e dagli italiani Giuseppe Capotondi e Laura Luchetti e non è assolutamente male, direi attenta ai dettagli (le ambientazioni delle case, i panorami scelti, i costumi e l’arredamento sono assolutamente perfetti) ma non filologica, infedele. Non so se la scelta sia stata voluta dalla produzione, la piattaforma non mette in onda serie che durino meno di 4 episodi, per la stessa logica della sua natura, o voluta dai registi. Di fatto per coprire questa durata sono stati introdotti nuovi personaggi come il fattore in odore di mafia, l’amante del principe, il governatore etc. e fatti non accaduti nel libro. Tra le “novità” rispetto al film capolavoro di Visconti del 1963, devo riconoscere una caratterizzazione più accurata di alcune figure chiave del romanzo, soprattutto quelle femminili. Tra queste brillano la principessa Maria Stella di Salina, moglie del Gattopardo, interpretata da Astrid Meloni e la figlia Concetta, intensamente resa da una brava Benedetta Porcaroli. Io però sono nostalgica della meravigliosa Rina Morelli, che interpretò la timida e bigotta moglie del Gattopardo e la riservata Lucilla Morlacchi, Concetta, molto più vicine ai personaggi del libro ma di certo troppo lontane dai gusti di oggi. Tra i caratteristi segnalo con piacere un bravissimo Paolo Calabresi -padre Pirrone, che aveva il compito arduo di sostituire Romolo Valli e ci è riuscito benissimo grazie ad una mimica deliziosa, e Francesco Colella, cui tocca il ruolo sgradevole di don Calogero Sedara, interpretato all’epoca da un magnifico Paolo Stoppa, del quale non raggiunge le vette istrioniche ma che si difende bene in fatto di “scarafaggeria” e ambiguità. Ora è il turno dei felini di razza, gattopardi e gattopardini: Kim Rossi Stuart è bravo, non deve certo dimostrarlo qui, adatto al ruolo del cinquantenne di metà Ottocento anche se un po’ giovane e magrolino, Burt Lancaster era giustamente statuario come l’avo di Tomasi di Lampedusa che ha ispirato il romanzo. Invece sono disperatamente delusa dalla scelta dei due comprimari: Tancredi ed Angelica. Certo che passare da un magnifico Alain Delon nel fiore dei suoi 28 anni ad uno scialbo Saul Nanni, che pur essendo quasi coetaneo del suo predecessore, non ne vale neppure un’unghia, non è facile. Non che Delon fosse uno molto espressivo ma la sua bellezza disarmante, gli occhi, il sorriso più belli dello star sistem dell’epoca e la sfrontatezza naturale, facevano il resto. Nanni non è particolarmente dotato come attore e non possiede le fisic-du-role, non lo avrei scelto, inoltre non si capisce cosa dice, mangia le parole. Ora arriviamo al fastidio più grosso: veder sostituire una naturalmente sensuale e viziosa Angelica incarnata sapientemente dalla bellissima Claudia Cardinale, con una scialba e monotona Deva Cassel. Intanto è altissima e le ragazze siciliane dell’epoca erano “piccole nere, dalla pelle olivastra”, poi ha sempre la stessa espressione con le sopracciglia da lupetta alzate e le labbra a “culetto di gallina” che non lasciano trasparire nulla. Probabilmente la scelta è stata fatta per soddisfare i palati moderni ma la naturale morbosità e curiosità dell’Angelica del libro qui non si vede, resta solo il disincanto di una ragazza nata povera da un padre maneggione, che ha saputo renderla ricca e le ha permesso un matrimonio vantaggioso. Insomma concludendo, molto bello per alcuni versi ma incompiuto per altri, peccato, avrebbe potuto essere davvero una buona occasione per rendere omaggio al grande Tomasi di Lampedusa. Io per consolarmi ho rivisto con nostalgia il capolavoro di Luchino Visconti e ora sono meno triste.