Era Christine Mannon e sembrava Clitennestra. Era Mère Ubu e sembrava Lady Macbeth. Ci sono storie in letteratura che per la loro originalità e il loro valore comunicativo meritano nel tempo di essere riprese, riviste, riproposte, rielaborate. I rifacimenti, anche sotto diversa forma espressiva, non sono quasi mai all’altezza del modello. Risultando anonimi e deludendo le aspettative, espongono i loro autori a rischi di critica maggiori dei sogni di plauso. I due esempi qui ricordati smentiscono invece questa regola generale, avendo saputo rivestire la struttura originaria di una rinnovata forza espressiva, in grado di comunicare con gli spettatori del ventesimo secolo in forme e toni piú idonei alle sensibilità del tempo. E hanno saputo ritagliarsi, per ragioni diverse, un piccolo spazio nella storia del teatro. In Eugene O’Neill e nella sua rivisitazione in chiave borghese e psicanalitica dell’Orestea, si aggiorna, si spiega, e in ispecie rivive in dimensione umana l’antica tragedia dei semidei. Quanto a Jarry, si tratta un caso unico e quasi inspiegabile di come la tempestività di pubblicazione e la sintonia con il tempo possano determinare la fortuna o l’oblio di un’opera… in effetti non sarebbe stato facile immaginare come una farsa studentesca, rifacimento grottesco della più grandiosa tragedia di Shakespeare, potesse dare il là alle avanguardie e alle sperimentazioni teatrali del ‘900, anticipando l’estetica e la creatività successive, dai dadaisti a Beckett a Ionesco. Riprendere i lavori del passato, ispirarsi ai grandi modelli, per riplasmarli e riproporli in chiave personale e rinnovata, è spesso un esercizio rischioso che espone a confronti impietosi, ma può essere talora una strada di rinnovamento culturale premiante. In fondo anche le epoche del classicismo manierista hanno avuto i loro artisti sommi e i loro capolavori.
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