In molti lasciano la propria terra per raggiungere il nostro Paese, ma non tutti fuggono dalle guerre o dalla fame. Juanita Soriano, la mamma di Marisa Evano, si è trasferita a Torino nel 1977 per fare la badante e riuscire così – con i soldi guadagnati – a pagare l’università a sua figlia rimasta a studiare a Las Piñas, nelle Filippine. Marisa però, a sua volta, a ventisei anni è stata costretta a lasciare la propria terra per raggiungerla. «Studiavo architettura, volevo laurearmi e trasferirmi a New York»: inizia così il racconto dell’evento che ha stravolto tutti i suoi piani. «Perché proprio a New York?» chiedo curiosa. «Perché è una metropoli così grande, moderna e piena di vita!». Quando Marisa pronuncia questa frase mi sembra di poterla vedere da ragazza, china sui banchi di legno della sua facoltà. «Immaginavo di diventare un’architetta famosa e di girare il mondo orgogliosa della mia bandiera». Invece, una mattina qualunque, mentre percorreva i corridoi della sua facoltà piena di fiducia, un dolore lancinante all’addome l’ha costretta a piegarsi. Poi il frastuono delle sirene, il tubo nella pancia, la flebo nel braccio, la parola “Pielonefrite” scandita da un medico e la consapevolezza che da quella parola in poi, se non avesse trovato un rene compatibile per il trapianto, avrebbe dovuto sottoporsi alla dialisi per tutta la vita. Marisa è rimasta una settimana a farsi curare tra le mura dell’ospedale vicino a casa da medici che parlavano la sua stessa lingua. Sette giorni di dialisi: tutto quello che i sacrifici dei suoi genitori le hanno potuto donare in un Paese in cui la propria salute ha un prezzo.  «Piangevo», dice, ricordando le frenetiche ore in cui ha dovuto prepararsi a lasciare tutto e partire. Pochi istanti dopo il decollo, lo sguardo dal finestrino, le nuvole e, per tutto il tempo sospeso del viaggio, un solo pensiero: «Io non voglio tutto questo. Non voglio fare la dialisi. Non posso vivere così. Io voglio viaggiare, non posso restare ferma nello stesso luogo per tutta la vita».  Ma la rotta del suo volo per l’Italia ha deviato quella dei suoi sogni. Era il 26 maggio del 1996 quando l’aereo è atterrato a Torino. Due giorni dopo Marisa è stata ricoverata all’ospedale Molinette, fino ad ottobre.  «Shock culturale» mi risponde quando le chiedo come descriverebbe la sensazione provata durante i suoi primi giorni nella nuova città. Non conosceva nessuno, non riusciva a decifrare il significato delle parole sui propri referti e non conosceva la lingua con la quale i medici comunicavano tra loro. Sua madre usciva troppo tardi da lavoro per poterla accudire. Così, in quei giorni, a prendersi cura di lei era una OSS italiana che restava a lavorare sempre oltre il suo turno di lavoro per cambiarla, darle da mangiare e non farla sentire sola.  Quando i medici l’hanno dimessa Marisa ha dovuto continuare a sottoporsi alla dialisi a giorni alterni, per anni. Poi, nel 2007, la prima speranza: il primo trapianto, una boccata di libertà. Purtroppo, dopo pochi mesi, il rigetto. Dieci anni dopo, nel 2017, una nuova operazione, un nuovo rene, ma ancora un nuovo rigetto. «Cosa sei riuscita a fare subito dopo i trapianti, nel tempo in cui non dovevi sottoporti alla dialisi?» le chiedo titubante. Lei ride a lungo e poi: «Ho viaggiato». Lo dice a bassa voce, come se mi stesse svelando un segreto, o la formula magica di quella sua coraggiosa e sincera gioia di vita.  «Sono andata a Napoli e poi, per cinque giorni, a Bari»: una vacanza lunga per chi, solitamente, è costretto a non allontanarsi mai per troppe ore dal proprio ospedale. Marisa pregava, dice, «che durasse». «Speravo di poter viaggiare a lungo, di andare dappertutto». Eppure, anche quando la sua vita si è dovuta di nuovo fermare in un punto fisso, Marisa è riuscita a reagire in un modo creativo e sorprendente: scrivendo un diario dei luoghi che avrebbe voluto visitare. «L’America» ovviamente, ma anche «la Nuova Zelanda, lo Yucatan» e tante altre parti di mondo. Lei ora ha 52 anni, ma sembra giovanissima: «È vero», conferma, «me lo dicono tutti: non ho ancora i capelli bianchi e non so perché». L’italiano lo parla benissimo. L’ha imparato attraverso le canzoni di Eros Ramazzotti e grazie agli insegnanti di una scuola in cui ha incontrato molti nuovi amici di diverse nazionalità. «Mi piace», dice, «ascoltare le loro storie, confrontarmi con loro, con la loro cultura e le loro usanze. È bello conoscere le tradizioni diverse e assaggiare cibi sconosciuti»: i sapori tipici di quelle terre che sogna di esplorare.  S’illumina mentre lo racconta, e io capisco che questo è il suo modo di viaggiare. L’ aereo per Torino ha deviato la rotta dei suoi sogni, senza riuscire a spezzarli. Continua a vibrare forte, dentro lei, la grande voglia di scoprire il mondo. E io, ammirata e commossa, non mi trattengo dal rivolgerle una domanda di fronte alla quale chiunque vacilla: «Sei felice?». «Sì», risponde invece lei, allegra e decisa: «Sì».